IL CIRCO | MIRANDA MELLIS
Traduzione di Monica Pezzella
Wojtek edizioni 2019 –
Prefazione di Elisabetta A. Rizzo
Biografia dell’autrice: Nata nel 1968, Miranda Mellis è cresciuta e vive a San Francisco. È stata danzatrice per il Knee Jerk Dance Project e cofondatrice del più piccolo circo del mondo, The Turnbuckles, che nel 1998 è stato in tournée in venticinque Stati americani. Nel 2004 ha vinto il John Hawkes Prize per la narrativa e il Michael Harper Praxis Prize per la saggistica. I suoi racconti e le sue poesie sono stati pubblicati su varie riviste come McSweeney’s, The Believer, Fence, Tin House, Post Road, Denver Quarterly e in diverse antologie. Insegna scrittura al California College of the Arts e all’Università di San Francisco ed è editor dell’Encyclopedia Project. Sito ufficiale http://mirandamellis.com/
per concessione della casa editrice vi proponiamo un ESTRATTO dalla prefazione.
Sfogliando Il circo, vi accorgerete di quanto sia piccolo. O meglio di quanto sia breve; un romanzo non è piccolo o grande, piuttosto breve o lungo.
Eppure l’aggettivo “piccolo”, indicando ciò che non rientra per difetto in uno schema standard di grandezze, si associa bene alla misurata complessità del Circo.
Quante volte abbiamo letto tre parole dove ne sarebbe bastata una?
Qui non c’è una tendenza a eccedere: e la parola è quella giusta al momento giusto e al posto giusto: una simmetria a cui Miranda Mellis tiene non soltanto per lo stile, ma anche per impedire alla memoria di trasformarsi nella gelida gola dell’oblio.
Ecco perché quando lo leggerete, invece, prenderete atto di quanto sia grande questo piccolo romanzo. E sì, si dice che il grande sia il contrario di piccolo perché va oltre lo stesso schema standard di cui parlavo sopra; Miranda Mellis ha una visione capace di oltrepassare una limitata percezione del reale che le consente di spingersi verso l’intuizione di coordinate invisibili. C’è poco da fare; a volte occorrono gli occhi faro degli scrittori per rintracciarle.
La forma del Circo è identica alla sua sostanza, per la felicità di Aristotele; lui non avrebbe tollerato la moderna concezione che vuole agli antipodi i due concetti. Ogni essere, animato e non, è riconoscibile attraverso i tratti che ne modellano la materia.
In fondo, cosa sarebbe una massa informe se non ciò che facilmente potrà essere dimenticato?
Miranda Mellis, per una propensione a raccontare l’essenza attraverso parole essenziali, riesce a realizzare l’identità tra forma e sostanza: perfino gli aggettivi qui sono sostanze del racconto e non solo indicatori di qualità o di quantità o in generale di qualsiasi complemento si possa accostare ai sostantivi.
Quando circa due anni fa lessi Il revisionista (Nutrimenti, 2008), si accese in me il desiderio di interagire con Miranda Mellis. Fu così che nel gennaio del 2018 mi decisi finalmente a scriverle.
Ammetto che non mi aspettavo una risposta; mi tenevo pronta piuttosto ad accogliere il silenzio che lo scrittore spesso concede al suo ammiratore.
Un po’ come accade con la preghiera: la parola pensata e detta contro una muta trascendenza. Invece la mia esperienza mistica concluse ben presto il suo viaggio verso l’alto: un pomeriggio mi ritrovai davanti una e-mail lunga e articolata in più punti, in cui il mio nome figurava nella sua versione inglese e seguiva un “Dear”.
Da quel momento ebbe inizio una corrispondenza che mi ha permesso di soddisfare più di una curiosità: Miranda Mellis mi ha raccontato dell’attuale situazione politica degli Stati Uniti d’America, dove vive e insegna scrittura e letteratura all’Evergreen State College; mi ha detto del suo pensiero sul linguaggio, un ambito che mi attrae; ha discorso di argomenti più o meno complessi attraverso ragionamenti filosofici, e di questo le sono grata; mi ha consigliato qualche lettura, e le sono grata anche di questo.
Alla fine mi decisi a chiederle un’intervista; accettò subito. Il nostro confronto è stato un’ulteriore occasione per conoscere lei e i retroscena delle sue opere
[…]
Le origini di Miranda Mellis sono “circolari”: la sua è una famiglia di circensi e lei stessa ha lavorato in un circo; più precisamente nel più piccolo circo del mondo.
Il circo rappresenta per lei uno spazio “mosaico” in cui gli uomini si comportano alla stessa maniera dei raggi: si incontrano per poi tendere verso un confine che li richiama. E si ritorna per poi partire di nuovo: solitamente all’interno del tendone i personaggi girano e si ripropongono; e lo fanno anche attraverso le maschere, creando una continua rigenerazione di facce, corpi e situazioni.
Cosa accade oltre il circus? E se i punti della circonferenza formassero il confine tra la vita e l’aldilà, o tra la vita e il sogno?
Il sogno è un luogo assoluto, nel senso di absolutus, ovvero sciolto, libero da qualsiasi condizione spazio-temporale; ed è anche la sede in cui le paure e i desideri escono allo scoperto lontani dalle restrizioni imposte dalla realtà.
Ma non solo. Il sogno è un circus: in esso le esperienze vissute e i sentimenti provati si rimescolano e si presentano a noi sotto altre forme.
Quando sua madre morì, nel periodo immediatamente successivo Miranda Mellis la sognò spesso; vedeva nella dimensione onirica la possibilità di un confronto che la vita non le avrebbe concesso.
Il sogno assomiglia all’aldilà dove potremo incontrare di nuovo chi abbiamo amato.
Però sappiamo bene che non è così: il sogno non è l’aldilà e al risveglio arriva la triste consapevolezza di parlare con una persona che ormai non c’è più; lo spazio del sogno non è abbastanza esteso da annullare del tutto le coordinate cui siamo abituati. È assoluto solo nel lasso di tempo in cui dormiamo, perché si trova ancora qui nel mondo dei vivi.
Se dovessi definire il concetto di esperienza lo farei pensando a degli argini, o a degli scogli, e dopo aver letto Miranda Mellis potrei aggiungere: a una circonferenza. Poniamo che dentro la circonferenza ci sia la vita: fare esperienza vuol dire non oltrepassarla così da poter tornare e comunicare ciò che abbiamo vissuto. Esperienza è stare al di qua del limite; andare oltre significa morire; e morire significa non poter tornare indietro per raccontare.
L’aldilà è oltre il fiume dell’oblio, il Lete. Un sogno può essere raccontato, mentre ciò che sta oltre la vita no.
Si pone quindi il problema di come poter parlare e ascoltare chi se ne è andato senza correre il rischio di perdere il contatto recuperato; la soluzione sarebbe quella di seguire anche oltre il risveglio chi ha ormai superato la circonferenza per raggiungere un posto in cui i raggi arrivano così sottili da trasformarsi in ombre, pur mantenendo la propria fisionomia. Ma per farlo è necessario pensare alle ombre al di là del circus come esseri ancora in vita.
Solo in un luogo con nuove coordinate (quelle invisibili, ricordate?) è possibile dimenticare la morte di qualcuno per ricordarlo vivo. Ma come evitare la frustrazione del risveglio? E come fare esperienza dell’aldilà quando ancora le ombre sono proiezione di corpi in carne e ossa e non spiriti?
Con una coincidenza che può realizzarsi solo nella forma letteraria in cui il sogno percorre fino in fondo la sua spirale dell’assoluto e arriva a coincidere con una possibilità aperta di comunicare coi morti.
Al contrario, l’aldilà si realizza quando la dimenticanza prende il sopravvento. A quel punto, la memoria si perde e si fa avanti l’oblio, i morti hanno cessato di essere vivi.
“Dimenticare che qualcuno è morto significa pensarlo ancora vivo; ricordare che è morto vuol dire dimenticare che è vivo”.
Morto e vivo allo stesso tempo, ma nel non nel senso di due poli che si riuniscono; sarebbe come dire che nel nastro di Möbius il sopra e il sotto si ritrovano in una sola superficie dopo essere stati separati; piuttosto la loro polarità è stata fin da sempre un’apparenza. Così la vita e la morte costituiscono un unico principio cui l’individuo partecipa per poter percorrere in lungo la propria esistenza. Il momento in cui ci si accorge di quanto vivi e morti siano interconnessi è quello della comprensione o meglio ancora, dell’interpretazione.
La tecnica dell’interpretazione è definita ermeneutica, dal greco ermeneio, “interpreto”, e téchne, arte. “Ermeneutica” è un termine soggetto, quasi ironicamente, a più interpretazioni. Riflettendo su “ermeneio” si potrebbe pensare a una connessione con un nome simile: Ermes, il dio messaggero dell’Olimpo. A questo possibile collegamento ci aveva già pensato il filosofo di Essere e tempo, Martin Heidegger. Nonostante la sua definizione non abbia un fondamento, rimane una lettura intrigante.
Il compito di Ermes era quello di riportare agli uomini i messaggi degli dei; e il messaggio divino non può che essere una rivelazione, uno svelamento, come poi dimostreranno i testi religiosi che verranno dopo. Ma, ai tempi degli dei che vivevano ancora sull’Olimpo, il rapporto tra questi ultimi e gli uomini non era diretto; passava dalla mediazione di Ermes. La divinità mediava per la divinità.
In tutti i casi l’interpretazione risale alla necessità di comunicare e di capire l’altro.
Solo che di solito sono i posteri o al massimo i contemporanei a interpretare un linguaggio, un testo sacro o un film, per esempio; di solito i vivi cercano di comprendere ciò che i morti hanno lasciato dietro di sé.
Nella società non-duale di Miranda Mellis, invece, anche i vivi diventano produttori di memorie che i morti, attraverso la strada inconscia del sogno, devono osservare per poterle leggere.
“Il non-dualismo è l’ontologia dell’interdipendenza e i morti [nell’immaginario del romanzo] sono coloro che possono aiutarci a realizzarlo”.
Rendere i morti interpreti significa ricondurli ai vivi: sono uguali anche nel desiderio di poter capire ciò che guardano.
“Morte e lei Vita in Morte” cantavano nel 1984 gli Iron Maiden.
La canzone è The Rime of the Ancient Mariner ed è ispirata a una storia scritta e pubblicata centottantasei anni prima: l’omonima ballata di Samuel Taylor Coleridge del 1798.
Qui si realizza ciò che la Mellis vede nella scrittura: la possibilità di mostrare l’interdipendenza tra due termini. E non si allontana molto da quelli che erano gli intenti di Coleridge; anche in Coleridge le coordinate si perdono e la nave che prima solcava le acque si ritrova piantata su un mare stagnante quasi fuori dal tempo. Mentre l’equipaggio affamato di vento riceverà la grazia di morire, il Marinaio sacrilego sarà condannato a tenere ancora gli occhi aperti. La sua punizione è la risposta all’uccisione di un uccello di buon auspicio, l’albatro. Attraverso questa disavventura, che lo porta a sperimentare il tormento di vivere nella morte, il vecchio Marinaio comincia ad apprezzare le bellezze del creato e, anziché lasciarsi spaventare dalle scie di luce lasciate dai serpenti marini, giungerà ad ammirarne la bellezza. In lui vita e morte prendono davvero forma in una conflittualità; ma è la loro coesistenza a permettergli di essere testimone, una volta libero dalla maledizione, della propria disgrazia nonostante abbia fatto esperienza della morte.
E dovrà raccontare la sua storia, la tragedia che lo ha riavvicinato alla natura, al sensibile. Anche in questo caso l’artificio della parola coincide col beneficio e col ritorno all’essenza: raccontare per non dimenticare.
Se vita e morte in Coleridge costituiscono per il Marinaio una condizione di conflitto, in Miranda Mellis la loro unione non è il risultato di una sciagura, ma una garanzia contro l’oblio.
“Dimenticare che qualcuno è morto significa pensarlo ancora vivo; ricordare che è morto vuol dire dimenticare che è vivo”.
Da ragazza Miranda Mellis fece un sogno in cui moriva a seguito di un terremoto; costretta nell’aldilà a passare da un posto all’altro, l’unico modo che aveva per accedere al luogo successivo era ricordare cosa dire e pronunciare le parole al momento esatto. In un altro sogno ancora era indispensabile che i suoi cari la ricordassero tramite delle cerimonie. Da morta aveva bisogno della memoria dei vivi per continuare a esistere.
I morti e i vivi devono ricordarsi gli uni degli altri e cercarsi, capirsi e infine comprendersi, perché insieme costituiscono un’unica superficie in cui non c’è differenza tra sopra e sotto; tra loro vi è continuità. Tanto è vero che per morire basta soltanto continuare a vivere.