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in dialogo con Miranda Mellis

intervista e traduzione a cura di Monica Pezzella


Miranda Mellis, classe ’68, scrittrice americana e docente presso l’Evergreen State College, è autrice della raccolta di racconti None of This Is Real e del romanzo Il revisionista, pubblicato in Italia nel 2008 da Nutrimenti. Nel 2004 ha vinto il John Hawkes Prize per la narrativa e il Michael Harper Praxis Prize per la saggistica. Il circo (The Spokes) è il suo secondo romanzo tradotto in italiano.

Monica Pezzella è scout, traduttrice e redattrice. Collabora, tra gli altri, con le case editrici Nutrimenti, LUISS University Press, Elliot, Ponte alle Grazie. Tra i suoi progetti c’è anche quello di portare in Italia tutte le opere della scrittrice americana Miranda Mellis e dello scrittore gallese Stephen Gregory (Il cormorano, Elliot 2016; The Plague of Gulls, in catalogo per Wojtek 2020).


Ho avuto l’opportunità di discutere del mestiere del traduttore e dell’uso di parole e immagini simboliche con Miranda Mellis, autrice americana della quale possiamo leggere due romanzi tradotti in Italia a quasi dieci anni di distanza l’uno dall’altro: Il revisionista (Nutrimenti 2008, nella traduzione di Leonardo G. Luccone) e Il circo (Wojtek 2019, nella mia traduzione, con una prefazione di Elisabetta A. Rizzo).

Il circo è un moderno viaggio “semantico” nell’aldilà che Lucia, la protagonista, intraprende per risolvere il mistero che avvolge sua madre e la sua famiglia di circensi. Grazie al valore simbolico del linguaggio, il viaggio diventa un canale di comunicazione tra i vivi e i morti.

Come tutte le tue opere, Il circo (The Spokes) non è una narrazione orizzontale. Oltre a essere un racconto, è palesemente una struttura costruita su più livelli la cui base è l’etimologia. La mia impressione, prima da lettore e poi da traduttore, è che tu abbia dedicato molto tempo alla scelta di ogni singolo termine, in particolar modo quei termini che fanno riferimento ai cinque sensi umani e agli strumenti di comunicazione degli altri elementi naturali ― gli alberi, le nuvole, persino le note musicali ― per risalire di volta in volta alla parola giusta in base alle sue origini e alla sua evoluzione linguistica. È così?

Mentre leggevo la tua domanda riflettevo sul fatto che l’amore per l’etimologia deriva da un desiderio di maggiore verità, conoscenza, esattezza, dal momento che le definizioni e l’etimologia sono lo strumento che ci consente di comprendere meglio una determinata parola, di avvicinarci ad essa proprio come ci avviciniamo a un’altra persona quanto più conosciamo il suo passato e i cambiamenti che ha attraversato nel corso del tempo, le molte persone che è stata e quello che ha rappresentato per gli altri e per il mondo prima di giungere alla sua apparenza presente. Cambiamo a seconda dell’età, cambiamo di momento in momento. Pertanto, anche le nostre parole sono mutevoli, si trasformano. Mi domando se la parte di me che desidera scavare più a fondo, scoprire e stabilire un contatto con la complessità in ogni sua accezione, quella che desidera approfondire il rapporto con gli altri e con il cosmo, che attende la rivelazione, non sia la stessa parte che si sente attratta dall’etimologia. Se, in qualità di scrittori, la nostra ambizione è seguire la carica vitale, muoversi in direzione opposta rispetto al sonno in cui ci farebbe cadere un atteggiamento riduttivo e semplicista, allora la chiave dobbiamo cercarla nella natura mutevole della vita e nell’evoluzione delle parole. Non solo le parole influiscono sul pensiero e rivelano la struttura della mente, ma gli stessi pensieri strutturano e destrutturano diverse realtà, per questo il modo in cui usiamo le parole e gestiamo il pensiero è estremamente importante.

Ho percepito lo stesso tipo di “focus retrospettivo” (con questa espressione mi riferisco alla particolare attenzione che presti alle origini) nei frequenti richiami alla mitologia – e nella tua singolare reinterpretazione dei miti. L’aldilà, gli dei, la mela di ottone che metti in relazione alla morte di un dio, gli strumenti musicali anch’essi in ottone, il cerchio dell’arena del circo, la dantesca spirale sotterranea dell’oltretomba. Un’impressione che mi sembra ancor più significativa se si considera che questo genere di sguardo all’indietro è applicato a un racconto tutto proiettato verso l’inconoscibilità del futuro.

Quando parliamo o, nel caso del Circo, scriviamo di qualcosa di cui non abbiamo mai fatto esperienza, come l’aldilà, trattiamo una materia che è difficile rendere a parole, una materia che non riusciamo – in verità – neanche a concepire. Probabilmente non abbiamo mai avuto termini appropriati, tanto meno concetti adatti a esprimere una cosa simile. Ancora una volta, il problema è da ricercare nei limiti dei nostri cinque sensi ma, in modo particolare, nel nostro senso dell’orientamento. È per questo che nelle tue opere un ruolo fondamentale è rivestito dai cani e dai sogni in quanto rappresentanti, rispettivamente, di diversi soggetti senzienti e diversi strumenti di percezione? Sono anch’essi una sorta di chiave, una sorta di guida per gli esseri umani?

Una domanda splendidamente articolata! Ritengo che tutte le versioni dell’aldilà siano, senza eccezioni, un racconto, e qualche volta anche io scrivo racconti; forse è per questo che penso di poter dire che, scrivendo, sento di contribuire alla costruzione di ciò che è l’aldilà. I cani e gli alberi, per me, sono l’emblema della speranza e della possibilità, idee che voglio trasmettere attraverso la scrittura e, come hai acutamente notato, sono creature che estendono i nostri sensi e possono farci da guida. La solidarietà e l’amore che si manifestano tra esseri di specie diverse, la possibilità di collaborare e apprendere il linguaggio di altri che non siano solo gli essere umani (ciascuna creatura ha differenti, peculiari maniere di accogliere,consigliare, ringraziare, ecc.) è ciò che ci consente di curarci, guarire, evolvere dal punto di vista morale. Moltissime persone hanno provato cosa significa trovare un compagno, un amico, una guida in un animale, di qualsiasi specie esso sia. In quanto esseri umani, per noi i cani hanno un’importanza particolare. Si sono co-evoluti con noi, e camminano in entrambi i mondi, quello umano e quello animale. In questa co-evoluzione, gli animali ci accompagnano, così come noi accompagniamo loro, in moltissimi modi diversi. La scrittura di Donna Haraway, Vicki Hearne, Thalia Field e J.M. Coetzee (e Kafka), che affronta la comunicazione, l’etica e le relazioni tra specie diverse, è illuminante e rivelatrice in tal senso. Le storie ci consentono di stare nella stessa “stanza” con un defunto, di immaginare l’aldilà, di viaggiare nel tempo e così via. Le storie hanno il potere di dissolvere i confini del sé. Nel Sutra del cuore si dice che “illimitato è forma e forma è illimitato”. Il sé è costituito e condizionato da elementi privi del sé; dunque, che cos’è un individuo?

Per rispondere pienamente alla tua domanda, che mi ha fatto riflettere sul modo in cui le immagini possono guidare, dilatare e persino istruire i nostri sensi e il nostro pensiero: ho scritto un saggio sull’ascolto, la presenza e il tempo. Mentre ci lavoravo, fino a poco tempo fa, mi sono imbattuta nelle immagini che Henri Bergson associa alla “durata”, la parola che egli usa per indicare la nostra sensazione del trascorrere del tempo. Le immagini cui mi riferisco sono la metafora del gomitolo di filo (una vita mortale è una bobina che, allo stesso tempo, si avvolge consciamente in forma di memoria e si svolge come fuori dal tempo) e quella dello spettro cromatico. I colori mutano l’uno nell’altro, si mescolano, si trasformano e fluttuano,cambiano ma conservano le singole specificità in quanto connaturate allo spettro. I momenti cambiano colore, per così dire, in un’infinità di gradazioni e complessità.

Per Eihei Dōgen, maestro zen del XIII secolo, il tempo non si identifica con un’immagine, ma tempo ed essere sono un’unica entità: “Il tempo non è separato da noi”; “Siamo esseri-temporali”. Se siamo esseri-temporali, dunque, tutto ruota intorno a ciò che sappiamo (o crediamo di sapere) e immaginiamo riguardo alla natura del tempo, a come noi stessi lo strutturiamo. Se pensiamo al tempo come a qualcosa da uccidere – “ammazzare il tempo” – o a qualcosa da sfruttare – “il tempo è denaro” – e se, come sostiene Dōgen, il tempo non è separato dall’essere, allora quando trattiamo il tempo come qualcosa di cui disfarsi o servirsi, è noi stessi e chiunque altro che stiamo uccidendo e sfruttando.

Tornando al tuo “altro mondo”, nel Circo hai disegnato (e, come avrà modo di capire chi leggerà il libro, uso il verbo “disegnare” non a caso) un oltretomba fortemente non canonico. Immagino che, dovendo trattare una realtà – presente, futura o atemporale – che non possiamo percepire attraverso i sensi fisici, fosse per te indispensabile discostarsi quanto più possibile dall’immagine tradizionale dell’aldilà; non tenerne conto, in un certo senso.

A sedici anni ho sognato di morire. Nel sogno ero morta a causa di un terremoto (di certo qui ha influito il fatto che io sia cresciuta a San Francisco). Viaggiavo per secoli, per eoni, nell’aldilà. Gli eoni consistevano sostanzialmente in questo: io che cercavo qualcosa senza riuscire a ricordare cosa stessi cercando, e la rivelazione implicita nel sogno era che lì non c’era niente di diverso dalla vita, e tutti gli altri intorno a me facevano esattamente la stessa cosa. La vita nell’oltretomba era identica alla vita terrena (e all’ante-vita?), soltanto che tutte le cose che facciamo in questa vita nonostante non abbiano molto senso, da morti hanno ancora meno senso. Per esempio, affannarsi per sbrigare una faccenda dietro l’altra quasi inconsciamente, senza neanche sapere perché né che senso ha, né se ce l’ha, un senso; senza sapere se quello che stiamo facendo è nocivo o ci è d’aiuto; senza sapere cosa significa essere vivi; ebbene, che senso ha tutto ciò? E questa domanda si fa ancora più pressante quando si è morti. Il purgatorio simboleggia proprio questo: restare intrappolato in uno schema abitudinario che ti impedisce di essere realmente presente a te stesso, a ciò che fai, a dove ti trovi. In quel sogno ho trascorso molto tempo in un regno in cui nessuno si rendeva conto di essere morto e tutti continuavano a correre su e giù come se fossero vivi, ed era tutto tristissimo, insensato, ripetitivo, e mirava a indirizzare la mia attenzione sul modo in cui viviamo. Ma che tu stia dormendo o meno, nell’istante stesso in cui apri gli occhi sul luogo in cui ti trovi e su ciò che sei, sul momento presente, non sei più perso. Non entro nei dettagli del sogno, era molto lungo, molto dettagliato, denso e completo; un vero e proprio racconto con tutta una storia alle spalle. È sempre stato molto importante per me. (Il sogno si concludeva drammaticamente: io esplodevo per fondermi con il sole!).L’influenza che ha avuto su di me, ciò che mi ha insegnato, i precedenti da cui è scaturito rivestono un ruolo centrale nel Circo. Mi limito a dire che la morale è che quello che cerchiamo incessantemente altrove è invece proprio qui, perché non esiste altro che questo momento in continua evoluzione. In un certo senso, passato e futuro sono sempre, esattamente qui; e contemporaneamente altrove. Come hanno notato in molti, potremmo essere più svegli in sogno di quanto spesso non siamo al momento del risveglio.

Mi piacerebbe approfondire anche un’altra questione, più strettamente linguistica. L’inglese e l’italiano non trattano il genere allo stesso modo. Ciò che è chiaro in inglese, in assenza di specificazioni, in italiano potrebbe risultare ambiguo e viceversa. Ciononostante, anche in mancanza di indizi, sono stata portata a pensare che nel tuo romanzo quasi tutti gli esseri viventi appartenessero al genere femminile: gli antenati umani, i cani; talvolta ho immaginato che persino gli alberi e le nuvole, per te, fossero femmine. È solo una mia impressione? Se invece è proprio così, come mai?

Che bel modo di pensare alle nuvole e agli alberi! In alcuni miti della creazione, i pianeti hanno origine dal corpo smembrato di una madre divina, il che è molto significativo se si pensa che le madri plasmano altri individui a partire dal proprio corpo – accogliendo nel proprio corpo due cuori pulsanti per poi espellerne uno in un corpo a sé stante. Che da un corpo possa nascere un altro corpo è una realtà primigenia. Il fulcro del Circo è proprio il rapporto madre/figlia. Di solito nei miei racconti, preferisco omettere il genere. Ciononostante, la presenza e le esperienze dei membri femminili nelle genealogie è spesso trascurata o cancellata, svilita e ignorata, e questo è uno dei motivi per cui si è portati a enfatizzare la loro presenza. Oggi qualcuno ipotizza addirittura che “Shakespeare” fosse una donna, e proprio una tua compatriota, Emilia Bassano! Se solo Virginia Woolf, che ha immaginato con tanto fervore il triste, amaro destino della “sorella di Shakespeare”, potesse essere qui oggi, per poterne parlare.

Per finire, il titolo. Mi sono ritrovata a dover scegliere una parola italiana che fosse in grado di contenere la molteplicità di simboli e significati del titolo originale, The Spokes (letteralmente, “i raggi”).

The Spokes fa riferimento, allo stesso tempo, al cognome della famiglia di circensi, alla forma del tendone del circo, alle relazioni familiari, alla vita e, chissà, per certi versi forse anche all’eterno ritorno di Nietzsche (qui andiamo sul personale e, nonostante mi piacerebbe conoscere la tua posizione e le tue credenze al riguardo, sentiti libera di sorvolare su quest’argomento). L’equivalente italiano del titolo non avrebbe conservato la stessa pluralità di valenze. Mi sembrava, pertanto, che la soluzione più semplice fosse anche la più fedele, e l’ho chiamato Il circo. Semplice è anche la mia ultima domanda: ti piace?

Moltissimo!


This will be an interview shaped around the translation work and the use of words and symbolic images. Like each of your writings, The Spokes (“Il circo”) is not a basic narration. Besides being a story tale, it evidently appears to be an intended multi-level framework whose base is etymology. As a reader first and as a translator, my impression was that you carefully selected every single term, especially the ones concerning the human’s five senses and the means of communication of the other natural elements as trees, clouds or even musical notes, according to their linguistic origin and evolution. Is that right?

It occurs to me reading your question that love of etymology stems from a desire for more of truth, for more of intimacy and presence, since definitions and etymologies are how you can get to know a word better, get closer to it, just as you get closer to a person by learning about their past and how they’ve changed, who else they have been, what else they have meant to others and in the world besides what is presently apparent. We change from age to age, and moment to moment. Words are also, then, changelings, shapeshifters. I am wondering if the part of me that wants more intimacy, discovery, and contact with complexity generally, that wants to deepen my relationships with others and the cosmos, that hopes for revelation, is the same part of me that turns to etymology. And then if our desire as writers is to move in the direction of aliveness, to do the opposite of being reductive and simplistic which is so deadening, then the living mutability and even agency of terms is key. Words don’t just influence thought, or reveal the structure of the mind, but thoughts also construct and reconstruct realities so it is deeply important how we use words and how we relate to thought.

I perceived the same kind of “retrospective focus”, intended as consideration of origins, in the strong references to myths – and in your unusual reinterpretation of the myths. The afterlife, the gods, that brass apple related to the god’s death, the brass instruments too, the circle of the circus and the Dantesque, underground spiral of the afterworld. This appears to be even more meaningful since this kind of backward-look is applied to a story speeding towards the unknowable of the future.

When we speak or, as in this case, write about something we never experienced, like the afterlife, we’re managing something we hardly can put into words or even conceive. We probably never had useful words nor suitable concepts for that. Again, it’s all about the limitation of our five senses and, in a very particular way, of our sense of direction. Is it right to think this is the reason of the importance you gave to dogs or dreams, respectively, as different sentient subjects and different ways of sensing? Are they some kind of key, some kind of guide for the living humans?

What a nicely nested question! My understanding is that all versions of the afterlife are, without exception, stories, and I am sometimes a storyteller, therefore I suppose I feel that I too have a part in creating what an afterlife is. Dogs and dreams are emblematic for me of hopefulness and possibility which I want to convey in my writing and as you astutely say, they extend our senses and can be guides. The kindness and love that is possible between beings of all species, the possibility of collaborating with and learning the languages of others including nonhumans (there are very specific and different ways of greeting, warning, thanking, etc. from one creature to another) affords healing, repair, and moral development. Many people have felt a strong sense of companionship, guidance, and friendship from certain animals, even whole species. As humans, dogs are especially important for us. They have co-evolved with us, and they walk in both worlds of humans and animals. Animals are our companions and we theirs in so many ways throughout our co-evolution. Donna Haraway, Vicki Hearne, Thalia Field and J.M. Coetzee (and Kafka) all write so revealingly and transformatively about this, about interspecies communication, ethics, and relationships. Stories allow us to be in some sense in the same “room” with the dead, to imagine the afterlife, time travel and so on. Stories can dissolve the boundaries of the self. In the Heart Sutra it says that “boundlessness is form and form is boundlessness.” Self is comprised of and conditioned by non-self elements, so what is an individual?

To speak more broadly to your question which makes me wonder about how images can guide, open up, and even train, our senses and our thinking: I have been writing an essay about listening, presence and time. In the course of working on it I recently learned about Henri Bergson’s images for duration, his word for our intuition of the passage of time. The images he uses are of a spool (a mortal life is a spool at once rolling up consciousness in the form of memories and unrolling as in running out of time, his metaphor for which is a thread) and of the colour spectrum. Where colours turn into each other, where they meld, change, and fluctuate, change inherent to the spectrum as the distinctness of each colour. Moments change colour, so to speak, with infinite gradations and complexity.

For Eihei Dogen, a 13th century Zen teacher, time is not an image, but time and being are one: “Time is not separate from you.” We are “time-beings.” If we are time-beings, everything hinges on what we (think we) know, or imagine, time to be, how we construct time. If we think it is something to kill–killing time–or exploit–time is money–then, if Dogen is right that time is not separate from being, in treating time as something to get rid of or exploit, we are treating ourselves and each other that way.

You drew (and I’m not casually using the verb “to draw”) a very non-canonical afterworld. In a reality – present, future or out of time – that cannot be perceived through our bodily senses, I suppose that not to take account of the traditional image, disregard it in a way, was more than necessary for your purposes.

When I was seventeen I had a dream of dying. In the dream I died in an earthquake (no doubt this was because I grew up in San Francisco). I travelled for eons and eons in an after-world. The eons consisted mostly of this: I was searching for something but I couldn’t remember what it was, and the revelation in the dream was that this was just the same as life, and everyone around me was doing it too. The after-life was just like life (the before-life?) only everything we do in this life that doesn’t make all that much sense made even less sense to do in death. For example, running around doing one thing after another without being aware of yourself or knowing why you are doing what you are doing and what it means and whether it matters or how it harms or whether it helps and what it is to be alive–well what’s the point of that? And that question is even more pressing if you’re dead. This is what purgatory allegorizes–being trapped in a habit pattern that prevents you from being actually present to who, what and where you are. In that dream, I spent a lot of time in a realm where no one realized they were dead and they kept running around as if they were alive and it was very sad and meaningless and compulsive, and it pointed to something about how we live. But whether asleep or not asleep, as soon as you wake up to where and what you are, to this moment, you’re not lost anymore. I won’t go into any more detail about the dream, it was very long, very complete, very full, and it is a whole story in and of itself. Its always been important to me. (The dream ended dramatically with me exploding into and merging with the sun!) The implications of that dream, what I learned from it, its premises, are central to The Spokes. Suffice it to say that the parable of the dream concerned the fact that what we are trying to get to by constantly going somewhere else is nowhere else but right here, because this ever-changing moment is all there is. Past and future are in some senses always right here, and also cut off. As many have observed, you might be more awake in a dream than you are when you wake up from sleep.

English and Italian language don’t treat the gender the same way. What is clear in English could only be supposed in Italian, if not specified. Yet, I had the feeling that most of the living beings in your novel were female: human ancestors, dogs, sometimes I thought even the trees or the clouds could have been… Again, is it just me or is that right? And if so, why?

How beautiful to think of clouds and trees this way! In some creation myths, it is the dismembered body of a divine mother that brings the planet into being, which makes sense, given that mothers make other people out of their own bodies–containing, in their bodies, two heartbeats, and then splitting into separate bodies. It’s wild that out of one body can come another. In The Spokes it’s a mother/daughter relationship that is at the centre. I often elide gender in my stories. Yet: female ancestries and experiences have often been lied about and erased, denigrated and ignored, and it is empowering to presence them. Now it’s looking like it might be the case that “Shakespeare” was a woman, and one of your own countrywomen at that, Emilia Bassano! If only Virginia Woolf, who so incandescently imagined the sad and bitter fate of “Shakespeare’s sister” could have lived to see the day.

Finally, the title. I found myself having to choose an Italian word that could contain all of the symbolic meanings of the original title, The Spokes (Italian: “i raggi”). It refers to the family name of the circus ancestors, to the shape of the circus’ big top, to family relationships, to life, maybe to some kind of Nietzsche’s eternal return (this is personal, I’d like to know your position and beliefs about it, but you don’t have to answer this one if you prefer not to). The Italian equivalent wouldn’t work. So I simply chose Il circo (“The Circus”). And my last question simply is: do you like it?

I love it!

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