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Filosofia del buddhismo zen | Byung-Chul Han
traduzione: Vittorio Tamaro
nottetempo edizioni 2018

 di Ivana Margarese


Quando vi parlo del Buddha
voi credete che questo Buddha
debba possedere particolari segni
caratteristici del corpo e un’aureola radiosa.
Se vi dico: il Buddha è cocci di tegole e ciottoli,
allora vi mostrate stupiti.
Dogen

Se ho fame, mangio del riso; se ho sonno, chiudo gli occhi.
Gli stolti ridono di me, ma il saggio capisce
Linji

Filosofia del buddhismo zen di Byung-Chul Han è un saggio filosofico concepito in senso comparatistico in cui le visioni del buddhismo zen vengono messe a confronto con il pensiero di Platone, Hegel, Schopenhauer, Nietzsche, Heidegger e altri pensatori occidentali.

Byung-Chul Han realizza un compito non facile poiché la diffidenza nei confronti del pensiero concettuale, tipica del buddhismo zen, ha da sempre comportato un uso rarefatto delle parole, che enigmatiche o disseminate in frantumi nei kōan manifestano una distanza dalla ricerca costante di un fondamento, di un arché, che ha caratterizzato invece la filosofia occidentale:

Quando vi parlo del Buddha voi credete che questo Buddha debba possedere particolari segni caratteristici del corpo e un’aureola radiosa. Se vi dico: il Buddha è cocci di tegole e ciottoli, allora vi mostrate stupiti”.

In questi versi di Dogen, monaco giapponese del Medioevo, fondatore della scuola Zen Sōtō, il Buddha è – solamente – cocci di tegole e ciottoli ovvero non qualcosa a cui tenersi fermi, non un saldo fondamento che assicuri e rassicuri.

Il maestro zen Dogen, scrive il filosofo coreano, raccomanderebbe a Cartesio, padre della filosofia moderna, di sviluppare il suo dubbio fino a diventare egli stesso il grande dubbio in cui vanno interamente in frantumi sia l’“io” sia l’idea di “Dio”.

Il Buddha è frantumi. Questa definizione di Dogen evidenzia una disposizione spirituale interamente diretta verso l’immanenza: “la filosofia zen abita il mondo nel suo apparire”. Il mistero pertanto non è ciò che si nasconde e va svelato, ma è ciò che accade. Prima dell’apparizione dei fenomeni non si pone alcun superiore piano ontologico. Nulla è al di fuori della presenza delle cose che sono e appaiono nella loro propria luce. Non c’è alcun desiderio di fusione, nessun rispecchiamento narcisistico, nessuna mistica segreta:

Piuttosto, è il risveglio a ciò che è consueto. Non ci si risveglia in uno straordinario , ma in un originario Qui, in una profonda immanenza. Lo spazio abitato dalla “mente quotidiana” non è nemmeno il “deserto” divino di Eckhart, né una dimensione trascendente, bensì un mondo variegato. Il buddhismo zen è animato da una fiducia originaria nel Qui, da un’originaria fiducia nel mondo. Questa disposizione spirituale, ignara di azionismo ed eroismo, è di certo caratteristica del pensiero estremo-orientale in generale. Per via della sua fiducia nel mondo, il buddhismo zen sarebbe una religione del mondo in senso particolare, poiché non conosce né una fuga dal mondo né una negazione del mondo1.

Al buddhismo zen è estranea questa instancabile irrequietezza che conduce alla ininterrotta domanda sulla ragione ultima delle cose. La sua pratica consiste piuttosto nell’affrancarsi da questa eterna spinta per soggiornare presso le cose che passano, celebrando la quiete nell’impermanenza.

Byung-Chul Han per mostrare questa celebrazione del quotidiano fa riferimento allo scritto di Dogen Tenzo Kyokun (“Istruzioni per il cuoco”), dedicato a stabilire dettagliatamente il lavoro giornaliero nella cucina del monastero.

Il quotidiano descritto da Dogen non è l’abitudine, il vivere alla giornata, l’inautentico di cui Heidegger scrive in Sein und Zeit dove il Si impersonale si perde nella chiacchiera incapace di assumere in prima persona l’appello dell ‘Essere, la “decisione” (Entschlossenheit) che apre autenticamente a se stessi.

Al tempo dell’attimo heideggeriano il buddhismo zen sostituisce il valore della ripetizione degli istanti dove, senza giudizio, ogni tempo è un buon tempo. Ecco che nel koan 19 del Mumonkan si legge:

Centinaia di fiori in primavera, in autunno la luna –
Una fresca brezza d’estate, d’inverno la neve.
Se la mente non è ingombra di cose inutili,
Davvero per l’uomo ogni tempo è un buon tempo.

Sunyata (vacuità), il concetto centrale del buddhismo, è per molti aspetti un concetto opposto a quello di sostanza, che da Aristotele in poi è stato fondamento della filosofia occidentale. Il principio di non contraddizione di Aristotele caratterizza la sostanza con un movimento di separazione e distinzione: delimita una cosa dall’altra, mantenendo ogni cosa nella identità con se stessa. La vacuità, invece, nella sua opera di abolizione dei limiti, elimina ogni rigida opposizione

Foto dal Web

Nelle pitture di paesaggio Otto vedute di Hsiao-Hsing di Yüchien, artista ispirato dal buddhismo zen, le forme paiono ritirarsi nell’infinita vastità dello sfondo bianco e fluttuare liberamente fra presenza e assenza, non manifestando niente di definitivo:

Niente si impone; niente si delimita, si chiude in sé. Le figure si convertono l’una nell’altra, si plasmano e si rispecchiano reciprocamente, come se il vuoto fosse un medium di gentilezza amichevole.2

La vacuità è una gentilezza che permette una compenetrazione nella quale il vuoto svuota chi guarda in ciò che è guardato, ovvero chi guarda è nello stesso tempo ciò che è guardato. In questo orizzonte la distinzione rigida fra “natura” e “mente” viene eliminata e le cose fluiscono l’una nell’altra, mescolandosi fra loro.

Da questa ampiezza nessuna cosa domina o si impone sull’altra, nessuna cosa è ostacolo. La gentilezza lascia essere ciò che è senza cercare di definirlo in modo permanente poiché in ogni cosa abita il mondo intero.

La metamorfosi, il passaggio continuo di una forma nell’altra, è la cifra della filosofia zen, lontana in questo dal rispecchiamento narcisistico della filosofia occidentale.

L’impermanenza ci congeda dal sé egocentrico, dall’azione eroica, dall’essere-per-la-morte:

Bisogna aver fiducia.

I fiori appassiscono – sfioriscono – ciascuno a proprio modo.

Issa

1 Byung-Chul Han, Filosofia del buddhismo zenNottetempo, Roma, 2018, pp.33-34.

2 Ivi, p. 50.

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