Pensiero terrestre e spazio di gioco. L’orizzonte ecologico dell’esperienza a partire da Merleau-Ponty
Prisca Amoroso
Mimesis, 2019
Nel 1939, in visita presso gli archivi di Lovanio, Merleau-Ponty legge per la prima volta il manoscritto husserliano sul Rovesciamento della dottrina copernicana. È un incontro importante, che contribuisce in modo decisivo a fondare la cosmologia merleau-pontyana. Dalla rivoluzione scientifica ai viaggi spaziali, il nostro ancoraggio alla Terra – questo grande inaggirabile che si corrisponde con il corpo vivo – si è indebolito, facendosi più mediato.
Per concessione della casa editrice e dell’autrice riportiamo un ESTRATTO:
La visione di sorvolo e i modi della conoscenza
Nel 1931, Le Corbusier vola per la prima volta sulla Valle dello M’Zab, in Algeria: già ispirato dal viaggio compiuto con Antoine de Saint-Exupéry nel 1929 a Rio de Janeiro, che ha influenzato decisamente il suo modo di pensare l’architettura e il paesaggio, Le Corbusier vede nel proprio impegno in Algeria la possibilità di mettere alla prova le nuove forme di pianificazione urbanistica che egli sogna di applicare a Parigi. L’aviazione rappresenta, nei suoi entusiasmi, l’apertura di orizzonti completamente nuovi.
La struttura architettonica degli edifici a Sud del Mediterraneo si presta ad accrescere tali entusiasmi: le case, circondate da muri alti e pieni, chiudono il visitatore fuori dall’intimità degli splendidi giardini, coprono alla vista gli spazi femminili delle arcate che corrono intorno ai cortili, precludono al viaggiatore un mondo privato che egli non può indovinare dal di fuori. Questo mondo si svela, almeno parzialmente, all’aviatore.
Behind the blind walls of the streets were laughing houses, each opening with three ample arcades on an exquisite garden. The women had dashed under the arcades on hearing the noise of the engine. The whole town was under the arcades, watching the airplane make its spiral: then there were signs of joy and surprise when we passed like a whirlwind just above the roof level. The lesson is this: every house in M’Zab, yes, every house without exception, is a place of happiness, of joy, of a serene existence regulated like an inescapable truth, in the service of man and for each. Up in the air this can be clearly seen. (Le Corbusier 1931, p. 13)
Il pensiero di Le Corbusier va alla drammatica espansione delle banlieues parigine, che tra gli anni Venti e Trenta conoscono una crescita demografica e architettonica enorme, cui non corrisponde una sufficiente evoluzione dei servizi a disposizione degli abitanti, cittadini e immigrati, che affollano la periferia, condannati a una generale condizione di disagio.
Ma, pur prendendo a termine di confronto le banlieues del tempo, che dovevano apparire squallide di fronte agli splendori di certe strutture algerine, non si può fare a meno di notare, nel resoconto dell’anti-capitalista Le Corbusier, il sapore del mito colonialista del primitivo, ove con “primitivo” intendo qui, molto largamente, “non occidentale”: la “nostalgia di una diversità perduta che si vuole recuperare con le immagini” (Schwarz 1981, pp. 5-6). Se questo sapore si insinua nell’elogio totale della felicità degli Algerini, esso si rende possibile proprio mediante la visione fotografica dall’alto. Mutatis mutandis, una modalità di contatto con l’altro e di narrazione dell’incontro che resta attuale, come può facilmente evincersi dai toni con cui la stampa internazionale ha diffuso nel 2016 le immagini dei membri di una comunità amazzonica, avvistata da un elicottero in volo sulla foresta, in seguito a un imprevisto cambio di rotta. Amazzonia, in diretta dal neolitico titola National Geographic l’articolo web sull’avvenimento. D’altronde, il rapporto tra la fotografia e il colonialismo è molto stretto. “Ad ogni latitudine, nel viaggio di esplorazione, in seno ai protettorati ed ai primi domini coloniali, la cassetta fotografica, il suo ligneo corpo si fa strumento per “inscatolare” lʼalterità, per reiterare nel momento dello scatto e sulla lastra che ne deriva una bramosia di possesso che si esplicita nella ricomposizione dellʼalterità allʼinterno di categorie e canoni rappresentativi pittoreschi, fantasiosi, inesorabilmente arbitrari, dallʼOriente allʼAmerica latina” (Baldi 2016, p. 5).
Quanto più specificamente alla fotografia aerea, bisogna pensare che l’acquisizione del know how in questo ambito trova il suo impulso nelle tattiche belliche della Prima Guerra Mondiale, guerra di trincea, in cui la localizzazione del nemico costituisce una necessità strategica importante, tanto che, come nota Sloterdijk (2002; tr. it. 2006), l’obiettivo diventa l’ambiente del nemico, ancor più direttamente che il suo corpo. Conclusa la grande guerra, il volo si riveste di un valore simbolico molto forte: basti pensare al caso italiano, alla pubblicità che l’aviazione conosce nel regime fascista, durante il quale è assurta a simbolo di modernità e progresso, di ottimismo e fedeltà alla nazione, di eroismo e di conquista. Non si tratta soltanto di una capacità tecnica – che nel corso della guerra ha prodotto una expertise specifica – , ma di una valenza simbolica che eccede l’uso militarmente strategico del volo e trova manifestazione negli spettacoli dell’aeronautica o nell’impresa di Fiume.
Se molti architetti francesi contemporanei di Le Corbusier cominciavano la propria carriera nelle colonie, gli etnografi – come l’africanista Marcel Griaule, che nel primo dopoguerra teneva lezioni alla Sorbona in uniforme militare – avevano convertito le tecniche apprese durante il servizio prestato nell’aeronautica in strumenti di studio etnografico: il lavoro in team, le interviste agli abitanti autoctoni, ma soprattutto la fotografia aerea, “in order to obtain results that [Griaule] described as “scientific” and objective […]” (Haffner 2013, pp. 32-33).
Già agli albori del ventesimo secolo, il geografo Paul Vidal (1903) apriva il suo Tableau de la Géographie de la France con una fotografia di Parigi scattata da una mongolfiera, convinto che la geografia, supportata dalle tecniche di visione aerea, potesse rivelare la vera Francia. L’idea che andava affermandosi nel corso del Novecento era che i territori fossero libri aperti, che l’esperto era chiamato a leggere (Brunhes 1926). Un’immagine molto vicina a quella del grande libro della natura di Galileo. […]
Ma sebbene sia possibile riconoscere, in una fotografia dei tetti e delle strade di Parigi o in una mappa che raffigura la città vista dall’alto, una somma di tutte le prospettive street level di Parigi, ciò comporta una perdita del suo “senso latente, diffuso attraverso il paesaggio o la città” (Merleau-Ponty 2009, pp. 369-370). Lo stesso limite possiede l’osservazione entusiasta di Le Corbusier delle case algerine. Ciò che Le Corbusier crede di abbracciare per un momento con lo sguardo è un mondo che gli sfugge, è quella porzione di privato che si ostina a restare tale, e che proprio nel suo sfuggire alimenta l’illusione di una perfetta felicità. Quel che Le Corbusier cerca di fare è entrare in quei cortili: che possa farlo solo dall’alto è la condanna che gli deriva dalla estraneità al luogo. Come suggerisce Elias Canetti a proposito di un’altra città nordafricana, Marrakech.
In queste case poche finestre danno sulla strada, a volte nessuna; tutto si apre sul cortile, e questo si apre sul cielo. Solo attraverso il cortile entriamo in un mite e misurato contatto con l’ambiente che ci circonda. Si può anche salire sul tetto e di colpo vedere gli innumerevoli tetti a terrazza delle città. Si ha l’impressione di una spianata, e tutto sembra fatto di ampie gradinate. Vien da pensare che si può passeggiare sopra l’intera città. […] Qui, pensavo, vedrò delle donne come nelle favole, da qui potrò guardare nei cortili delle case vicine e ascoltare di nascosto il loro affaccendarsi. Quando salii per la prima volta sul tetto della casa di un mio amico, ero pieno di aspettative e fintanto che guardai lontano, in direzione dei monti oltre la città, egli ne fu contento ed io mi accorsi della sua fierezza di potermi mostrare uno spettacolo così bello. Al contrario diventò irrequieto quando io mi stancai di guardare lontano e si destò la mia curiosità per le cose vicine. Mi sorprese mentre davo un’occhiata nel cortile della casa accanto, da dove udivo, con gioia, voci femminili che parlavano in spagnolo. “Questo, qui, non si fa” mi disse l’amico. “Non si deve mai farlo […]” (Canetti 1964)
È proprio questa ricchezza di voci – le voci di Marrakesh, le voci dei caffè parigini, le voci dei cortili dello M’Zab – che si sottrae alla tranquillizzante visione d’insieme (Haffner 2013) alla quale l’esperto in sorvolo si affida come alla “tessera di un puzzle etnico ed etnografico da comporre con la “serenità” che proviene dalla supposizione di avere tra le mani un documento indiscutibile e perciò attendibile” (Baldi 2016, p. 18).
Questa ricchezza, con sorpresa dello studioso, non si lascia “misurare, sfugge alla presa di un riscontro empirico ingenuo e rinvia semmai all’esistenza stessa […]” (Lucatti 2017). Si tratta del “tono che assume la vita sociale quando si conversa intorno ai fuochi del villaggio” (Malinowski 1922, pp. 26-27), impenetrabile all’osservatore – fintantoché egli, restando esterno alla scena, le resta anche estraneo – e sempre imponderabile, dunque non scientifica, per la sua propria natura.
Rispetto alla crescente diffusione dell’osservazione dall’alto nella ricerca scientifica, che, dopo il lavoro pionieristico di Paul Vidal, registra due grandi momenti di crescita nei dopoguerra, coesistono due sensibilità. Se l’osservazione dall’alto era, per gli architetti che sorvolavano le banlieues parigine, l’occhio di Dio (Haffner 2013, p. 43) che doveva permettere la riqualificazione delle zone socialmente sensibili, e per Griaule in volo sul Camerun la garanzia di una comprensione scientifica e oggettiva della cultura locale, non mancava d’altro canto un certo scetticismo verso la capacità di tali studi di raggiungere autonomamente un’accettabile profondità, di conquistare un’autentica presa sull’oggetto. Così Marc Bloch, pur servendosi egli stesso della fotografia aerea, metteva in guardia dai limiti dell’uso esclusivo della visione dall’alto (Bloch 1930, p. 558). E ancora, il paragone, già usato da Chombard, con la biologia, assume una diversa complessità in Gaston Bardet, professore all’Institut d’Urbanisme di Parigi: egli, nel comparare il proprio lavoro a quello del biologo che osserva al microscopio, pur vincolando la solidità scientifica all’osservazione diretta, smarca il proprio approccio dalla sensibilità lineare, astratta e geometrica di altri urbanisti. Quando, nel 1955, Lévi-Strauss e Leroi-Gourhan fondano un laboratorio di fotografia aerea presso il Musée de l’Homme di Parigi, la necessità dell’osservazione partecipante è una consapevolezza già fortemente radicata.
L’elemento quasi voyeuristico dell’esplorazione aerea e il senso colonialista che affiora nella repressività delle politiche di planning urbanistico che utilizzano la visione dal cielo sono stati messi in luce da Henri Lefebvre, tra gli altri, che denuncia i programmi di modernizzazione di de Gaulle e la costruzione su larga scala dei grands ensembles in quanto forme di colonizzazione interna di uno spazio, lo spazio top-down del capitalismo, omogeneo, geometrico, quantificabile, astratto, puramente visivo. Il corpo scompare nello spazio moderno, che, ridotto alla sua dimensione ottica, diviene una serie di immagini. In questo spazio, cioè, il corpo trova soltanto rappresentazione, non più presenza. (Lefebvre 1978).
Si intravede, dunque, una prima ricomposizione delle fila variegate del discorso presente. Esso deve chiarirsi proprio in quegli snodi che tengono insieme e insieme diramano il tema del corpo e quello dello spazio, il paradigma fotografico della rappresentazione e quello cinematografico dell’inerenza. Vorrei, allora, tornare a Merleau-Ponty e alle ragioni e agli esiti del privilegio che il filosofo accorda a talune forme espressive non rappresentazionali. Vediamo in quale senso.
Bibliografia
Baldi, A., 2016 Ipse vidit. Fotografia antropologica ottocentesca e possesso del mondo in “EtnoAntropologia”, vol. 4, n. 1, pp.
Bloch, E., 1930 Les planes parcellaires: l’avion au service de l’histoire agraire, “Annales”, 2/1930
Brunhes, J., 1926 Leçon de Géographie, Maison A. Mame, Parigi
Canetti, E., 1964 Die Stimmen von Marrakesh, Monaco, Carl Hanser Verlag. Tr. it. B. Nacci, Le voci di Marrakech, Adelphi, Milano
Le Corbusier, 1931 Aircraft, Trefoil Publications, Londra
Lefebvre, H., 1978 L’espace et l’etat, in Id. De l’Etat, vol. 4, Les contradictions de l’etat moderne: La dialectique et/de l’etat, Union Generale d’Éditions, Parigi
Lucatti, E., 2017 Eccedere l’empirico, in “Lavoro culturale”, 6/7/2017
Malinowski, B., 1922 Argonauts of the Western Pacific, G. Routledge & Sons, Londra. Tr. it. M. Ariosti, a cura di G. Scoditti, Argonauti del Pacifico Occidentale, Bollati Boringhieri, Torino, 2011
Merleau-Ponty, M., 1945 Phénoménologie de la Perception, Gallimard, Parigi. Tr. it. A. Bonomi, Fenomenologia della percezione, Bompiani, Milano, 2003
Schwarz A., 1981 Fotografia coloniale, in Schwarz A. et. al., Fotografie e colonialismo/1, “Rivista di storia e critica della fotografia”, II, 3, pp. 2-7.
Sloterdijk, P., 2002 Luftbeben. An den Quellen des Terrors, Suhrkamp Verlag, Francoforte sul Meno. Tr. it. G. Bonaiuti, Terrore nell’aria, Meltemi, Roma, 2006
Vidal, P., 1903 Tableau de la Géographie de la France, Hachette, Parigi