Letteratura di paesaggio e di terra. L’India è la terra che fa da sfondo a questo romanzo di un giovane autore spagnolo, Pablo Martínez Rosado, e non ancora pubblicato in Italia e di cui con piacere proponiamo una anticipazione del primo capitolo in Italiano.
Vahana (ElToroceleste 2017) è un invito, una passeggiata, sguardi diversi. Osserviamo con René, impiegato in un negozio di tende a Bombay, il senso di un edificio, le sue forme e quanto di se stesso ci sia tra le sue pareti di vetro. Nel frattempo, René è raccontato, quasi vissuto; Maria prova a disegnarlo con parole e consegnarci così il suo ritratto, il profilo di un uomo che, in parte, è anche il suo. I protagonisti si spostano, noi sospettiamo un incontro. Ogni vita è un gesto. Attraverso le sue pagine, Vahana ci fa scoprire un’India in transizione, integra e, allo stesso tempo, amante dell’occidente, ma non ci si ferma a questo. A Bombay, Mysore o sulle montagne di Kerala l’esotismo è solo una circostanza. Le sue strade ci ricordano il vero materiale delle sue terre, le sue innumerevoli storie. Le storie che ci trasportano.
Pablo Martínez Rosado è nato a Málaga nel 1978. Ha lavorato come ‘falso fornaio’, coffee barman, libraio ocasionale e insegnante di spagnolo per stranieri. La curiosità e una tendenza errante l’hanno portato ad abitare in posti molti diversi come Londra, l’India o il Galles. Attualmente è insegnante di Letteratura Spagnola presso il Collegio del Mondo Unito dell’Adriatico (Duino, Italia), mentre continua a immaginare storie, parole e possibili letture di quella situazione che spesso chiamiamo vita. Vahana (pubblicato da El toro celeste, Spagna, 2017) è il suo primo romanzo, anche se ha frequentato altri generi come il racconto e la prosa.
ZEST vi propone la lettura della traduzione del primo capitolo
Traduzione a cura di: Francesca Mometti
Vāhana: dal sanscrito वाहन, ciò che trasporta, ciò che traina. Cavalcatura, veicolo, a forma di animale, di ciascuno degli dei del pantheon induista.
René
Bombay1, inizio dell’estate 2011.
Conobbi René alcuni mesi fa, ancora sotto l’infuriare del monsone. Ora, trovato finalmente questo caffè, mi concedo la libertà di scrivere di lui. Già da diverso tempo sentivo la spinta a tradurre René in parole, a dargli forma con queste linee. Credo che lui non sia mai stato qui, in questo locale al piano terra dell’hotel Residency, in piena D. N. Road, ma so che è il luogo ideale per cominciare a scrivere di lui.
Scrivere di lui; scrivere di me. Scrivere.
René aveva ragione nell’indovinare che si avvicinavano dei cambiamenti nella mia vita. Deve essersene accorto guardandomi, e la redazione stessa di questo racconto fa parte, indubbiamente, di quei cambiamenti. Quando lo conobbi, aveva inizio la mia piccola storia in India: il mio tirocinio di dottorato alla University of Mumbai. Erano trascorse solo alcune settimane dal mio arrivo, alcune decine di giorni nei quali cercavo di acquisire nuove abitudini e di vivere luoghi nuovi. Elephant & Castle e i miei giorni alla South London University appartenevano al passato, erano parte della nebbia del Tamigi e, nonostante ciò, opponevano resistenza all’oblio.
Elephant & Castle – o il quartiere del cubo, come lo avrebbe chiamato René se avesse vissuto a Londra – gareggia in bruttezza con qualunque dei quartieri più depressi della città: permane nella mia memoria come uno dei tanti, smarrito tra lotti di cemento incolore e getti d’acqua che cercavano di sopperire alle carenze estetiche delle strade, molto spesso di aspetto sinistro. Sinistro e pesante, il loro tracciato si ripete ancora e ancora, mentre il cielo insiste a rispecchiare il suolo; sicché quei getti d’acqua, sistemati con così buone intenzioni, non offrono alcun piacere o sollievo a quanti lì conducono la loro triste esistenza. Si potrebbe sperare che, salendo in cima ad un elicottero e guadagnando quota, la percezione che si ha di questo tipo di quartieri possa migliorare, ma è facile sospettare che, per quanta distanza si prenda, non ci sia modo per un essere umano di scorgervi alcuna bellezza. Ci insegnano a guardare le cose da una certa distanza e alla fine la distanza ci tradisce, giacché nessuno può raccomandare una panoramica dal cielo di un quartiere affollato di baracche come quelle di questa zona. E, a dir la verità, è difficile prendere quelle distanze, essendo pochi gli elicotteri che oggi si muovono sopra i suoi tetti, nonostante l’estensione della capitale del Regno Unito.
Ad Elephant & Castle non c’è, chiaramente, alcun elefante e alcun castello, eccezion fatta per il pachiderma di cartapesta che troneggia sull’entrata del centro commerciale attiguo alla stazione della metro. Non vi è nemmeno alcun cubo: il cubo in questione è in realtà un pentaedro collocato al centro di una rotonda dal quale si dipartono varie strade. Le strade non sempre sono ciò che appaiono. Le vedi sulla cartina e ti sembrano dolci, giallognole, vive. Le vedi a piedi e preferisci prendere il treno, ragion per cui si giunge alla conclusione che comprare una cartina non offra grandi garanzie di come sia un quartiere. Aprite la guida turistica e cercate un pentagono: è raffigurato in bianco. Aprite gli occhi e dite se siete dell’idea che ciò che appare come uno sfiato di fumi meriti di essere chiamato “cubo”.
Ricordo che ero solita fermarmi a guardare tutti quei dettagli che aggiungevano sordidezza al quartiere, ma senza trovarvi mai alcun piacere. Mi piaceva, invece, il processo di arrivare fin lì. Mi ero abituata a prendere il treno delle sette meno cinque – e non un altro – e ad ascoltare con attenzione il passaggio dei vagoni sui binari, il loro graffiare sulle rotaie: una successione di suoni dissonanti, lontani – per me – da qualsiasi significato. Tra tutti, quello che preferivo era lo stridere delle ruote su alcune curve del tragitto. Impediva sempre che mi addormentassi.
Poi arrivava la fedeltà del controllore, de “La Gondola”, quella dei suoi panini e quella dei colombiani. Immancabilmente. Non appena poggiavi piede sul suolo metallico della banchina sentivi il controllore avvicinarsi, cortese e senza tratti impertinenti. Poi mi dirigevo a destra, dove si trovava La Gondola, la caffetteria della stazione. Lì facevo colazione, ancora senza appetito, come l’automa che sono sempre stata, non avendo mai sentito la fame come mi dicevano che si dovesse sentire, dallo stomaco fino al rumore. Ingurgitare il mio panino misto e sentirmi osservata da un paio di colombiani sembravano fatti indissociabili: mi desideravano, chissà se a causa o nonostante le mie abitudini. Io masticavo con pazienza mentre li sentivo parlare di me nella loro lingua, senza che sospettassero che potessi capirli. Li vedevo, li sentivo, li ascoltavo per permettere loro, al contempo, di godere della loro piccola quota di libertà. Preferivo lasciarli vivere in quella bugia, che era anche la mia. O per lo meno una delle mie.
Se racconto tutto questo, è perché quella mattina, la mattina in cui vidi René per la prima volta, mi ricordai di tutti questi dettagli, i dettagli che avevano costituito la mia vita a Londra. Il colpevole, chiaramente, fu un treno: il treno che mi portava da Bandra al centro di Bombay, nella stazione di Churchgate. Non pioveva ancora.
C’è da supporre che allora, passate le otto di mattina, René stesse lavorando da un paio d’ore. Doveva trovarsi seduto al suo tavolo da taglio e sommerso di tessuti, facendo meccanicamente la somma dei lavori già fatti, sottraendo i lavori da fare. Il negozio nel quale lavorava si chiamava Tende del mondo. Si trovava in uno di quei locali che appaiono superando un portico, abbastanza antico, sul quale si erge l’edificio di Somaiya Bhavan, nelle vicinanze di Flora Fountain. Le pareti esterne del negozio erano scure, e su di esse si notavano gli effetti dell’umidità provocata dalla sua ubicazione nel centro di Bombay, lì dove l’isola si fa più stretta, e dove il mare chiude il suo abbraccio alla città. Il portico si estendeva per i locali al piano terra degli edifici contigui, offrendo riparo a una moltitudine di venditori ambulanti: film, CD di musica e programmi informatici piratati condividevano l’ombra dell’arcata con calzini e samosa appena fatte, mentre decine di braccia e voci li annunciavano ai passanti. Una volta terminata la passeggiata, rimangono Fort e Colaba; Mahatma Gandhi Road, Marine Drive, la porta dell’India; il cuore di Bombay.
Un primo sguardo dentro a Tende del mondo lasciava la sensazione che si trattasse di un negozio molto particolare. Entrarvi voleva dire fare una passeggiata per il mondo, un tour con diversi scali per numerosi angoli del pianeta. La Terra, nella sua interezza, si dispiegava sul parquet del negozio: così ci era permesso saltare dall’Oceania all’Asia senza essere atleti olimpici e sperimentare l’impossibile equilibrio necessario per stare in Cile senza poggiare piede in Argentina; riposare immersi in fosse abissali di color blu marino a forma di sofà – incluso un puff che rappresenta il Mar Morto – e ammirare decine di montagne che non dimenticavano mai la propria condizione di armadi. L’armadio degli Himalaya era eccezionale e a qualunque bambino sarebbe piaciuto salirvi sopra e salutare il venditore dal lato peruviano delle Ande. Assieme agli armadi si trovava a disposizione della clientela un atlante – il catalogo del negozio – nel quale i paesi mettevano in mostra le proprie virtù, e il prezzo al quale venivano vendute. Il prezzo, chiaramente, non era mai quello iniziale: veniva adeguato al tenore di vita a Bombay, per nulla economico rispetto agli standard dell’India. I venditori, sparpagliati tra tanti accidenti geografici, sembravano una via di mezzo tra guide turistiche in decadenza e giramondo di successo con giacche alla moda.
Tende del mondo vendeva qualunque tipo di tessuto, dagli scialli frangiati fino alle sete e ai velluti; fazzoletti, tovaglie e, ovviamente, tende. Il mondo di colori rappresentato dall’esposizione dei suoi beni aveva un cielo grigio dal quale non cadeva mai una goccia, popolato da un gruppo di angeli che altro non erano se non i lavoratori del piano di sopra. René era uno di questi, nonostante preferisse, piuttosto che considerarsi un angelo, pensare che con ogni tenda che tagliava offriva a qualcuno l’opportunità di godere di un nuovo sogno. In questo modo il suo lavoro si riempiva di senso, di un’idea, di qualcosa con cui giustificare il trascorrere delle ore circondato di ghigliottine, macchine da cucire automatiche, cucitrici, nastri di misurazione, anelli e carta da imballaggio. E così, giocando con questo genere di pensieri, portava a termine la sua giornata, usciva dalla porta sul retro del negozio, abbandonava il mondo delle tende e cercava, infine, di far scorrere le tende del mondo.
Da parte mia, intrattenermi ricordando i miei due ammiratori colombiani mantenne la mia mente isolata dalla moltitudine che affollava il vagone, nonostante il mio corpo notasse le conseguenze di essere circondata da tanta umanità. Forse era un gesto temerario tentare la fortuna sul treno metropolitano: una corsa su un qualunque taxi o un rickshaw di quelli appostati alla stazione di Bandra sarebbe indubbiamente risultata molto più semplice e pulita, ma in nessun caso più vitale. Avevo bisogno di provare, conoscere, interpretare quel viaggio; e, nonostante ciò, il risultato fu quello di perdermi in me stessa e di sudare senza controllo. Tornavo dal complesso di Bandra Kurla, uno spazio immaginario, separato appena cinquecento metri da ciò che sembrava il Bandra reale. Bandra Kurla è l’area dello splendore e dei commerci, dove sorgono i grattacieli delle grandi corporazioni e i complessi dei cosiddetti “edifici intelligenti”; una specie di city inseritasi nel corso di alcuni anni nella costa ovest della città; e il luogo nel quale si trova il nuovo laboratorio del dottor Menon, una delle maggiori eminenze tra i ricercatori di tutto il paese. Il dottor Menon disprezzava quell’enclave, ma era orgoglioso del fatto che la nostra facoltà potesse offrire agli studenti un laboratorio d’ultima generazione. Sia per lui che per noi tali strumentazioni rappresentavano un lusso, una comodità inattesa nel corso dei nostri studi. Il nostro lavoro richiedeva un grande livello di concentrazione, motivo per cui il nostro trasferimento in questo esclusivo complesso privato, silenzioso e artificiale, era stata una delle conquiste più declamate dal nostro decano. Facevamo esperimenti con cateteri e sostanze vasodilatatrici. L’obiettivo finale del dottor Menon era quello di applicare ad essi nuove tecniche, alcune derivanti dalle nanotecnologie. Ci esercitavamo, di fatto, con il microcosmo.
Trovarmi in quel treno e in quella situazione era la mia risposta anche alla cancellazione della sessione programmata per quella mattina dal dottor Menon. Mi sentivo strana: erano da poco trascorse le nove della mattina e non avevo nulla da fare. Una sola cosa spiccava nella mia agenda e si trattava di andare a salutare Amrita all’uscita dalle sue lezioni, verso le quattro del pomeriggio. Il centro della città mi aspettava, come d’abitudine, ma questa volta desideravo anticiparne l’incontro.
Passai la mattina deambulando da un lato all’altro, da Churchgate fino alla porta dell’India. Non ricordo di aver avuto alcun obiettivo, nulla da comprare o da visitare. Camminai inizialmente per Marine Drive, confusa tra le migliaia di abitanti di Bombay che hanno il coraggio di passeggiare di fianco all’oceano. Più tardi presi la Veer Nariman Road fino all’incrocio con Mahatma Gandhi Road, dove girai a destra verso sud. Avevo lasciato dietro di me i giardini dell’università e la rotonda di Flora Fountain, e avanzavo senza fretta, spinta dall’inerzia, verso una delle zone più turistiche della città. Osservai come molti sandali, dopo aver calpestato qualche pozzanghera, lasciavano impronte sul marciapiede che poi svanivano nel giro di pochi minuti. Poi feci una copia delle chiavi, anche se non ne avevo bisogno, in un negozietto, simile a un chiosco costruito con poche assi di legno vicino alla Biblioteca David Sassoon. Giunsi alla Shahid Bhagat Singh Road, dove non c’era altro da fare che lasciarsi trasportare dalla marea. Senza volerlo mi ritrovai in un negozio di pantaloni in saldo, in un bazar, in uno stabilimento che vendeva ombrelli e valigie, e per finire riflessa sulla vetrina di un negozio ufficiale dell’Adidas. Desiderai rientrare, tornare sui miei passi, e così facendo arrivai all’entrata del cinema Regal, al quale non avevo mai fatto caso fino ad allora. Sospettai che la sua programmazione fosse di scarso interesse rispetto a quanto si poteva contemplare da fuori. Proseguii a piedi, nonostante le insistenti proposte dei tassisti della zona, finché i miei passi mi portarono da Moshe’s. Lì ordinai una pizza ma la sua circonferenza non mi fece dimenticare la mia tremenda nostalgia per la mozzarella. Risalii la Mahatma Gandhi Road da Mukherjee Chowk, per arrivare infine a Flora Fountain e al suo pergolato. E fu allora che accadde.
Lo vidi.
René aveva un qualcosa che lo distingueva. E non mi riferisco, con questo, né al suo abbigliamento né al suo aspetto fisico. René si era appartato e si appartava: ovunque ci fosse uno spazio vuoto si sentiva al suo posto. Se lo notai fu perché si trovava al di fuori dei territori comuni. Non sarei venuta a sapere nulla di lui se non fosse sceso per la strada nascosto tra altre centinaia di esseri umani. No, René sembrava aver scelto il suo posto da molto tempo.
Tutto ciò che provai nel guardarlo mi parve inaugurale. Lo dico lamentando il fatto che gli aggettivi e questo sguardo siano un gioco nel tempo: questo è ciò che provai allora, e lo provai per davvero. Oggi so di aver avuto ragione. Quello era il posto di René. L’intersezione tra V.N. e M.G. Road non era, per lui, uno dei tanti posti della città.
Era lì che l’edificio di sempre comandava. Fin da quando dissero a René che era vuoto, lo sentiva vuoto. Quando arrivò in città chiese di esso e gli risposero con parecchio sdegno:
È un aneddoto, una farsa. Non devi far caso a questo edificio. È un nonnulla.
E René ne fece una cometa, un angolo, uno spazio intimo e misterioso. Lo trasformò nel suo “sempre”, nella risorsa alla quale guardare allo stesso modo con cui la gente della costa guarda il mare quando torna ad incontrarsi con esso. Da quella volta, quella prima visita nella quale la sorpresa riempì tutti i silenzi, era passato già parecchio tempo. Il trascorrere dei mesi non aveva fatto altro che aggiungere elementi. Aggiungere intensità ad ogni incontro, ricordi ad ogni piano, parole non proferite all’apparire dei dettagli, domande senza risposta, corse interiori per le strade adiacenti, pulsazioni al minuto accelerate. Non sempre era stato lì come quel giorno, nel quale era solo, faccia a faccia con il suo spazio. Tutto intorno era sporco, c’era sporco, senza terra dove non ci fosse un’impronta dopo pochi secondi. René si fermò vicino al gioco di fontane e getti d’acqua sotto al grattacielo. Non funzionava. Cercò di ricordare se lo avesse visto funzionare qualche volta. Il grattacielo si reggeva nonostante non fosse completo alla base, sollevato alle estremità che lasciavano libero uno spazio nel quale potevano circolare auto e rickshaw. L’insieme di fontane dedicate a Flora faceva le veci di una rotonda, preceduta da altre fontane se si guardava dal portico di Somaiya Bhavan. Il ricordo di René lavorò fino a trovare l’immagine dei salti d’acqua in una notte qualunque nel periodo dei monsoni precedente, quando nulla invitava a fermarsi un attimo ad osservarli. Nemmeno le condizioni meteorologiche invitavano a nulla mentre io lo guardavo, salvo l’apparizione di alcuni raggi di sole che permisero che René si distraesse giocando con la proiezione della sua ombra sull’asfalto.
Nella contemplazione del suo “sempre” era stato accompagnato, dal giorno delle prime inquietudini fino a qualsiasi insignificante passeggiata nei dintorni. Gli piaceva mostrarlo e dire: “Osservalo. Dicono che è vuoto”, e ogni volta che lo diceva gli piaceva dubitarne. Che fosse vuoto, sentire che fosse vuoto, lo sentiva, ma lo sentiva in quel momento, immerso nel particolare vis à vis che condividevano. Quell’edificio dava la sensazione di essere stato concepito per avere tutto al suo interno, per cui pensarlo vuoto sarebbe parso come una rinuncia. E, se era vuoto, lo si sarebbe dovuto riempire.
René contò i piani, e arrivò a trentacinque. Dodici lettere battezzavano il grattacielo su ciascuna delle facciate più larghe, alcuni metri prima di raggiungere l’attico. Le lettere – maiuscole – mostravano un qualche significato se venivano divise in due gruppi, uno di sette e uno di cinque, facendo così distinguere le parole “Hartman House”. Di lì verso l’abisso, centinaia di finestre si affacciavano alla città, proiettando la loro esistenza in tutte le direzioni e raccogliendo in sé l’immagine del resto. Il resto, il riflesso di René: poche nuvole disordinate nel cielo, la traccia di fumo lasciata da qualche aereo nel suo percorso, migliaia di particelle di inquinamento nell’aria e la sensazione che, se avesse ricordato Eleanor fugacemente, l’avrebbe confusa con qualsiasi altra, o meglio, nel pensare a lei pensava ad un buco, pensava alla strana idea che il suo aspetto corrispondeva, millimetro per millimetro, a quello di un’attrice tedesca dal nome poco germanico per poi, pochi secondi dopo, non assomigliarle per nulla e ricordargli piuttosto il vuoto che a volte genera un nome che pronunciamo con l’intenzione di identificare qualcosa: un vuoto come lo spazio lasciato libero da un ascensore quando se ne va, come quello delle “acca” di cemento che davano forma all’edificio, al suo edificio, nel punto centrale.
Uno sguardo attento a quel grattacielo regalava – secondo René – l’interessante e a volte apparente opposizione tra la trasparenza del cristallo e la semplicità con cui si sdoppia e si trasforma nell’opacità dello specchio. René voleva abituare gli occhi alla tenue luce che offrivano i tubi al neon attraverso alcune finestre e indovinare così il perché della sua esistenza se, come dicevano, non c’era nulla nello stomaco di quell’edificio così speciale. Anzi: desiderava entrarci, calpestare le moquette a terra, graffiare i cristalli, vedere fino a che punto smettevano di avere significato tutte le strutture del suo scheletro; affacciarsi e ponderare, finalmente, dalla cima, la vera natura di quella città. Non conosceva nessuno che ci fosse stato. Non aveva nemmeno mai visto nessuno entrarci.
René sembrava essere entusiasta, addirittura perso nel suo immaginario labirinto interiore. Cambiò posizione per prendere un po’ di prospettiva, senza smettere di studiare la ripetitiva maglia di “acca” che copriva tutto l’edificio. Era evidente, si disse, che il grattacielo non poteva essere totalmente vuoto, non solo per quelle luci negli uffici ma anche per altri movimenti chiari come l’esistenza di un incaricato della security all’ingresso. Si avvicinò di alcuni metri all’entrata. Il suo volto lasciava trasparire le sue intenzioni: pensava di appostarsi di fianco e di aspettare lì l’apparizione di un dirigente, interrogarlo e agire. Immaginò di trattenerlo, forzarlo perché gli desse il suo badge o un bigliettino da visita per togliersi così la voglia di mettere fine al mistero ed entrare, ma appena ricompose la scena la considerò un’idea folle e tornò in sé. Doveva esserci un modo più semplice di entrare in quel luogo.
Cominciò a piovere. René si apprestò ad attraversare la strada senza aver avuto l’opportunità di accomiatarsi dalla sua ombra, nonostante non sapesse quando avrebbe potuto rincontrarsi con essa. Avrebbe invece incontrato me. Non alzò lo sguardo mentre attraversava: a testa bassa non sembrava essere interessato al cielo, ora, bensì alla terra. Finì per ripararsi dalla pioggia sotto l’arco di Kala Ghoda, su una vetrina dove appoggiavo, stando in piedi, la schiena; ci separavano appena tre o quattro metri di distanza. Condividevamo tutta una vetrata. Si sedette, un po’ stravolto, mi rivolse uno sguardo fugace quanto inespressivo, tirò fuori il suo taccuino, poi la penna e, alla fine, annotò qualche frase su una pagina. Quando cominciai a sentirmi a disagio – non saprei dire esattamente cosa mi facesse sentire così, anche se forse stavo già adottando la mia nuova condizione di voyeur – la figura di Amrita apparve, salvifica, da uno dei portoni vicini. Mi venne a prendere e partimmo dirette alla sua scuola, il posto da dove era uscita.
Mentre camminavamo, Amrita mi raccontava qualcosa. Io non la ascoltavo: tenevo i miei neuroni aderiti ai cristalli di quell’ edificio. E a René. Ma non a René come individuo – dato che non sapevo ancora come si chiamasse – bensì come entità viva e piena di significato. Mi chiedevo che cosa fosse lui, che cosa dicesse col suo essere. Chiaramente mi illudevo, allora, credendo che la sua compagnia sarebbe svanita dopo averlo abbandonato lì vicino alla vetrina.
Amrita, il cui nome completo era Amrita Santosh, era la mia compagna di stanza alla International Students House di Churchgate. Studiava fotografia al Mumbai College of Arts che si trovava proprio nella Mahatma Gandhi Road. Eravamo rimaste d’accordo di vederci perché potessi finalmente conoscere i suoi lavori. Non potevamo dire di sapere molto l’una dell’altra, dato che vivevamo assieme da meno di due mesi. In ogni caso ci stavamo simpatiche. Il suo aspetto era gelido, cosa che l’aveva fatta abituare al fatto che gli altri la etichettassero con gli abituali luoghi comuni sulle persone che fanno fatica a socializzare. Ma non era affatto così. Bastava parlarle un paio di volte perché ti mostrasse che, una volta che apriva la bocca, poche cose la facevano stare zitta, a parte la sua sensibilità. La sua sensibilità la dotava di una presenza unica. Addirittura poetica: Amrita credeva nella poesia. In un’occasione, quando le raccontai il tipo di ricerca di dottorato che facevo, disse:
In realtà, tu fai poesia. Ti interroghi sulle strade che portano al cuore e hai a che fare con i fili che ci conducono ad esso.
Le risposi che a me la letteratura non interessava. Magari mi potevano interessare le storie, ma non la letteratura. La mia opinione le era indifferente e insisteva sul fatto che trovava in me una certa poesia. Per fortuna questo non la portò mai a cercare di evangelizzarmi letterariamente. La sua stessa sensibilità glielo impediva.
Ci addentrammo in una delle aule della scuola d’arte. L’aula 19, quella che avevamo scelto, era dipinta di bianco e perfino i suoi tavoli erano verniciati dello stesso colore. Amrita sparse su uno di essi una decina di fotografie del progetto al quale stava lavorando. La sua idea, che poco a poco si materializzava, era quella di ritrarre la gente che leggeva libri in luoghi pubblici. “Libri e solo libri – volle chiarirmi –, non mi interessano i volti dei lettori di giornali”. Quelle stampe erano solo una parte, dato che il progetto era ancora in evoluzione. Anzi, per lei si trattava di un’evoluzione senza fine. Desiderava che non finisse mai.
Attirò la mia attenzione una serie di quattro foto scattate in una biglietteria di una stazione ferroviaria. In esse due giovani, un ragazzo e una ragazza, leggevano lo stesso libro: “Il lupo della steppa”. Direi addirittura che si trattasse della stessa edizione. Lui sembrava di alcuni anni più grande di lei, e in una delle istantanee alza lo sguardo e scopre che lei sta leggendo lo stesso libro. I suoi occhi – quelli di lui – desideravano incrociarsi con quelli di lei ma in nessun momento ci è dato sapere se ciò sia effettivamente avvenuto. La semplice composizione di queste immagini mi raccontava cose e mi poneva interrogativi. Mi bastò guardare Amrita.
Non si conoscevano; e non si conobbero. Anche se lui, come poi mi confermò, desiderava conoscerla. Si chiamava Aditya. Guarda quest’altra foto – mi disse, mostrandomi una stampa che estrasse da una cartellina – vedi: alla fine mi scoprì. Risultò essere un miglior osservatore che lettore. Ora è un artista abbastanza rinomato, realizza incisioni su legno. Ha senso, non credi? Osserva i suoi sguardi… Sono ancora in contatto con lui, a volte ci scriviamo.
Riempimmo il nostro tempo guardando molte altre foto e parlando, parlando di Prasad – il suo ragazzo, un anglo-indiano di Newcastle che venne a prenderla quando uscimmo – e delle innumerevoli questioni domestiche che comporta la condivisione di una casa. Ci separammo sulla porta; piovigginava ancora, cosa che impedì che ci trattenessimo nei saluti. Aprii il mio ombrello e, una volta fatti circa cinque passi verso V. N. Road, mi fermai. Mi fu inevitabile guardarmi indietro: l’edificio del suo “sempre”, l’Hartman House, era ancora al suo posto.
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1 Manteniamo la forma “Bombay” come decisione della voce narrante, la quale preferisce, per motivi socio-culturali, la precedente denominazione della città, oggi più conosciuta come Mumbai.
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