Il dolore non sparisce | i racconti di Tadeusz Borowski
Non è che se passa la storia o se passa l’uomo il dolore sparisca, questo resta negli uomini che verranno, si accovaccia nella sofferenza che lo disturba e rende la sua vita una perturbazione; questo ho pensato leggendo i racconti di Tadeusz Borowski (Paesaggio dopo la battaglia, Lindau, tr. it. e cura di Roberto M. Polce) che parlano dei campi di concentramento in modo gelido, adoperando una scrittura così distaccata, fredda necessaria a dire l’indicibile, a mettere sotto i nostri occhi asettici o spesso inutilmente isterici quello che ancora oggi si fa fatica a comprendere.
“Queste ragazze erano state rapate a zero e vestite di abitucci estivi senza maniche. Biancheria non ne avevano ricevuta. Né cucchiai, né scodelle, né uno straccio per il corpo. Birkenau si trovava su acquitrini che si stendevano fino ai piedi dei monti. Di giorno li si vedeva perfettamente nell’aria limpida. Al mattino annegavano nella nebbia e sembravano essere coperti di brina, poiché le mattine erano insolitamente fredde e imbevute di nebbia. Quelle mattine ci davano sollievo, prima del giorno torrido, ma la donne che a destra, a venti metri da noi, stavano in piedi fin dalle cinque per l’appello, erano livide dal freddo e si stringevano le une alle altre come un branco di pernici”.
La traduzione di Roberto M. Polce è attaccata alla lingua polacca come lo è un cappotto al corpo nelle giornate di tramontana e a noi, lettori italiani, viene restituita una condizione umana irrespirabile, lontana dalla letteratura da nozze d’argento, dove non si sa se sia più in posa sorridente il libro o il suo autore.
Borowski, suicidatosi nel 1951 a ventinove anni dopo essere passato a scrivere secondo i dettami del realismo socialista, entra nel cuore dell’uomo con passo pesante, il suo non è un libro di memorie o un documento storico che non va oltre il recinto del suo tempo.
Quello che si legge in questi crudi racconti è invece la resistenza dei morti, è la soffocante sensazione di essere già ombra, di essere lontani da ogni tipo di luce, i corpi poi, impressionante il modo in cui lo scrittore polacco descrive il loro stare curvi sulla terra ma senza additare colpevoli.
C’è un coinvolgimento totale, dove non esistono più i buoni e i cattivi ma un mondo che accoglie qualsiasi male come fosse la parte più vera della sua tragica ontologia.
“Contro le pareti non imbiancate, adorne di sentenze hitleriane dio patriottiche, c’erano due file di letti a castello metallici; in mezzo si allineavano tavoli sommariamente sgrossati, e sotto le loro gambe vagabondavano un paio di sgabelli senza schienali ed errava sconsolata come un bambino smarrito una sputacchiera smaltata. Nell’aria ronzavano malnutrite, pigre mosche, e respiravano pesantemente gli eserciti sonnolenti”.
Potente immagine dove il contagio del male immiserisce le cose e deprime persino gli insetti, c’è un legame continuo tra gli oggetti e l’uomo e tra l’uomo e gli animali più disprezzati della terra, una pena comune che non risparmia nessuno e che Borowski racconta come se invece della pagina avesse il ghiaccio. Tutto puzza nel campo di concentramento, non ci si lava, si prova a resistere ma come se venisse da qualcosa che non somiglia alla volontà. La tragedia è che è difficile raccontare, diventa quasi una teologia per dimostrare l’esistenza di Dio, le parole, per Borowski, diventano un limite e soffocano ancora di più la realtà, che resta schiacciata dal peso dell’ineffabile, allora pure passare alla convenzione socialista è una resa all’inutilità della parola.
“L’ombra dei castagni è verde e soffice. Dondola lieve sulla terra ancora umida, rivoltata di fresco, e si libra sopra la testa in una cupola color acquamarina che odora della rugiada del mattino. Gli alberi formano lungo la strada un’alta spalliera, e le loro cime si diluiscono nel colore del cielo”.
Serena disperazione della natura, quella che in tono sommesso uccide e continua a splendere sull’acqua e sugli alberi, così è la vita quando non si accorge più della differenza tra notte e giorno.
Tadeusz Borowski nacque nel 1922 in Ucraina. Nel 1932 si trasferì a Varsavia insieme al padre, perseguitato politico. Fu imprigionato dai tedeschi nel 1943 e deportato ad Auschwitz. Nel 1947 pubblicò i racconti di Paesaggio dopo la battaglia sulle sue esperienze nel lager. Convertitosi poi all’ortodossia del realismo socialista, si suicidò nel 1951, a soli 29 anni.