Il passato e il presente dei nativi americani - The red road project
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Uccidi l’indiano, salva l’uomo. Nel XVIII secolo questo motto, patrocinato dalle cosiddette “boarding schools”, raggruppava le popolazioni native del Nord America in un’entità indifferenziata, soggetto da annientare fisicamente e culturalmente. I bambini venivano tolti alle famiglie di origine e ghettizzati in istituti residenziali, dai quali, il più delle volte, uscivano soltanto dopo aver raggiunto l’età adulta. L’ipocrisia, la malafede, sostenevano l’ideologia delle “boarding schools”: l’intenzione di educare e di civilizzare i piccoli “selvaggi” mascherava il mero intento colonizzatore, la brama di terre e risorse naturali.

Impossibile parlare dei nativi americani oggi senza valutare i misfatti del passato, l’erosione indotta che ha portato sul baratro dell’estinzione popolazioni, tradizioni e valori intimamente connessi al tempo presente, alla necessità di riequilibrare e rendere più assennato il nostro rapporto con gli ecosistemi. Passato e presente tracciano una linea di continuità, un orizzonte nitido, e Lorena Carbonara, la fotografa Carlotta Cardana e l’artista lakota Danielle SeeWalker, soddisfano pienamente l’esigenza di proporre, nel volume Siamo ancora qui (DOTS Edizioni), una visione storica e in divenire.

L’oggi è un tempo che porta con sé ferite profonde: la storia ha impresso nel percorso di rivendicazione soprusi e politiche scellerate, come quelle che hanno portato, tra il XIX e il XX secolo, alla costituzione di circa 350 “boarding schools” finanziate dal Bureau of Indian Affairs, e all’emanazione dell’Indian Removal Act, che portò alla rimozione forzata dei nativi dalle loro terre e alla loro ricollocazione in territori assegnati a ovest del fiume Mississippi. Un simile piano di assoggettamento ha rischiato di dissanguare l’identità dei nativi nordamericani, deprivandoli dalla loro cultura, in primis, e innestandoli a forza in contesti sociali che, inevitabilmente, li avrebbero considerati inadeguati e destinati a vivere nella marginalità.

Le violenze e il genocidio, la metodicità del governo nel ledere i diritti degli indiani d’America, sono le tappe di un percorso che ha come atto conclusivo l’istituzione, nel 1851, delle riserve indiane, veri e propri campi per prigionieri di guerra. Dalla segregazione, dal disconoscimento di un sistema di valori, scaturirono conflittualità e disagio sociale; in tali contesti residenziali l’alcol e gli stupefacenti diventarono un mezzo per combattere l’alienazione, mentre il cambiamento di regime alimentare, imposto dal governo americano, provocò conseguenze devastanti sulla salute fisica e mentale dei nativi.

Va detto che gli effetti dell’isolamento piegarono ma non spezzarono il legame delle tribù indigene con le loro tradizioni, con una volontà di autodeterminazione: a partire dagli anni Sessanta e Settanta del Novecento si assisté alla nascita di gruppi panindiani come l’AIM (American Indian Movement) e l’AFN (Assembly of First Nations), organizzazioni che si attribuirono il compito di difendere i diritti civili dei nativi e di esercitare pressioni politiche sul Governo degli Stati Uniti affinché si rendesse conto di quali effetti devastanti avesse causato alla loro gente in secoli di oppressione.

Ciò che abbiamo fatto negli anni Sessanta e nei primi anni Settanta è stato aumentare la consapevolezza dell’America bianca rispetto al fatto che questo Governo ha una responsabilità nei confronti del popolo indiano. Che ci sono trattati; che i libri di testo di ogni scuola in America hanno la responsabilità di dire la verità. Si è giunti alla consapevolezza, in tutta l’America, che se i nativi americani hanno dovuto ricorrere alle armi a Wounded Knee, c’era davvero qualcosa che non andava. E gli americani hanno capito che i nativi sono ancora qui, che hanno una posizione morale, una posizione legale. Di questo, la nostra gente è orgogliosa.
Dennis Banks (1937-2017), ojibwe, co-fondatore e leader dell’American Indian Movement.

Ai giorni nostri una porzione ampia, maggioritaria, della nazione indiana si è urbanizzata, regola il proprio sentimento su ritmi e tradizioni che nulla hanno a che vedere con il riconoscimento di una “grandmother Earth”, simbolo di una spiritualità profondamente legata alla natura e ai luoghi natii. Si tratta di vivere fra due mondi, e l’affermazione percorrere la vita con un mocassino a un piede e una scarpa Nike all’altro, esemplifica bene il dilemma esistenziale che le nuove generazioni si trovano ad affrontare, giorno per giorno, nel cosiddetto mondo civilizzato.

La consapevolezza di essere depositari di una cultura che, ora più che mai, segna una necessaria interconnessione fra uomo e ambiente, incoraggia all’azione, alla trasmissione di conoscenze ancestrali. Le donne e gli uomini della Settima generazione (la definizione ha origine da un presagio del grande capo Alce Nero) combattono per l’integrazione e, al contempo, per la difesa dei propri diritti.

Le persone che rappresentano questa generazione sono quelle che oggi stanno avendo un impatto positivo all’interno delle proprie comunità e per le generazioni future. Sono attivisti, insegnanti, artisti, medici, scienziati, capi, leader spirituali, celebrità dei powwow, genitori single. Si sono tutti elevati al di sopra dei problemi e delle tenebre che hanno afflitto la loro gente per generazioni. Sono su un percorso di guarigione dal trauma storico e vogliono ispirare e favorire il cambiamento all’interno delle loro comunità rafforzando la connessione ai “modi tradizionali” e spezzando la ruota delle ingiustizie.

Siamo ancora qui dà voce ai diretti interessati, raccoglie testimonianze e aneddoti che hanno il potere di illuminare il passato e la realtà odierna. Si tratta di voci fulgenti, sostanziali, che esprimono una consapevolezza profonda e irriducibile. Il racconto attraverso le immagini incorpora cronache, interviste, , sono le fotografie di Carlotta Cardana che irradiano una sobrietà e un rispetto assoluto per le persone ritratte, i luoghi e le situazioni documentate.

Approfondimento con Carlotta Cardana

The term “Navajo” is a Spanish adaptation meaning “large area of cultivated land” and is not typically used within Native America. Instead, they refer to themselves as Diné (or “Dineh”) which is the culturally appropriate word for their nation and means “children of the gods”. In this picture, the office for excursions on horseback in Monument Valley in Navajo Nation. Copyright@Carlotta Cardana

Come nasce il tuo lavoro fotografico sui Nativi Americani The Red Road Project?
The Red Road Project nasce dal desiderio mio e di Danielle SeeWalker di voler esplorare il rapporto tra la cultura tradizionale dei nativi americani e l’identità delle popolazioni tribali odierne. Danielle – nativa del North Dakota – ed io ci conosciamo da più di 20 anni e abbiamo sempre voluto collaborare ad un progetto. Con questo lavoro abbiamo voluto colmare il divario che vediamo tra le rappresentazioni tradizionali dei nativi americani e come invece sono le cose nella realtà. I nativi e le loro culture sono spesso vittime di stereotipi e idee romantiche e con il nostro lavoro abbiamo voluto offrire una rappresentazione accurata e dal punto di vista nativo. Ci tengo a specificare che Siamo Ancora Qui raccoglie storie che abbiamo raccolto durante gli anni di lavoro con The Red Road Project, ma si tratta di due lavori e due intenti separati. Con Siamo Ancora Qui abbiamo voluto creare del materiale educativo che possa essere usato nelle scuole o da chi voglia approfondire la storia americana.

Sage Honga, 22 (at time of photograph), of the Hualapai tribe, earned the title of 1st attendant in the 2012 Miss Native American USA pageant. From that point forward, she has been encouraging Native youth to travel off the reservation to explore opportunities. In Native American culture, knowledge is power and the youth are encouraged to leave the reservations, receive an education and then come home to give back to your people. Sage continues to speak to youth focusing on four fundamental principles: traditionalism, spirituality, contemporary issues and education. Sage stands at the base of the Grand Canyon in waters that are sacred to her people. She wears a traditional, hand-made dress and natural make-up on her face. Copyright@Carlotta Cardana

I tuoi ritratti appaiono in un primo momento semplici, poi, man mano che li si osserva, acquistano profondità, forza espressiva. Semplicità e profondità convivono in armonia in The Red Road ProjectNel libro viene riportata l’espressione, riferita agli Indiani d’America oggi, percorrere la vita con un mocassino a un piede e una scarpa Nike all’altro. Mi pare un’immagine efficace, che rappresenta bene una condizione contraddittoria, di spaesamento culturale e sociale.

I valori professati dai Nativi d’America esprimono una sorta di coscienza della Terra, un sentire premonitore verso cui appare sempre più necessario tendere, per il bene del Pianeta e delle generazioni future. Eppure l’idea di una “grandmother Earth”, su cui si basa la cultura dei Nativi Americani, oggi più che mai appare violata dai decisori mondiali, un assunto tuttalpiù anacronistico, suggestivo e al tempo stesso irrilevante. Pensi che che le cose cambieranno nei prossimi anni, oppure si continuerà a ignorare il grido di allarme della “grandmother Earth”?

Mi sembra che negli ultimi anni ci sia più consapevolezza verso quello che sta succedendo al pianeta e come il nostro stile di vita sia dannoso e non sostenibile. Ci vorrà molto tempo per cambiare il nostro modo di vivere ma mi sembra che qualcosa inizi a muoversi. Purtroppo credo che l’emergenza sanitaria in cui ci troviamo non abbia aiutato, anzi. Poteva essere un’ottima occasione per spingere verso la sostenibilità, ma con l’economia a punto di tracollare e le nuove misure sanitarie per prevenire il diffondersi delle malattie, sono cambiate le priorità. Credo però che le nuove generazioni siano molto più motivate a creare un cambiamento e spero che questa maggiore spinta sociale stimoli l’implementazione di nuove tecnologie e nuovi modi di vivere più sostenibili.

Tired of being constantly discriminated against, Andy Jones left his small reservation town in Arizona and moved to Hollywood as a young man, taking advantage of the Indian Relocation Act of 1959. With the intent to decrease subsidies to the reservations, the US government encouraged Native Americans to relocate to certain cities, where they were given temporary housing and financial help. However, the program had devastating effects: people felt isolated from their communities and faced constant discrimination. This caused many to end up homeless and addicted to alcohol and drugs with no resources to return back to their reservation. Andy managed to overcome his addiction and today he works at a support center for “urban Indians” where he leads the senior group. He is also a traditional percussionist and member of a drum circle in Venice Beach. Copyright@Carlotta Cardana

Per realizzare il tuo progetto hai percorso più di 13.000 chilometri in dodici stati americani, dal New Mexico al Sud Dakota, dal Mississipi al Tenessee*. Nella moltitudine di immagini e di testimonianze esiste un volto, un luogo, che ti ha particolarmente colpito, che ti sentiresti di definire imprescindibile, rappresentativo del tuo percorso?
(*Mississippi, Tennessee e in generale in sud-est americano non l’abbiamo ancora coperto con The red road project)

Impossibile scegliere un luogo o una persona per rappresentare l’intero progetto. Si tratta di culture molto diverse, con una moltitudine di storie. Il progetto comunque non sarebbe stato possibile senza l’appoggio della famiglia di Danielle nella riserva di Standing Rock in North Dakota. Mi hanno accolto come se fossi parte della famiglia, coinvolgendomi fin dal primo momento in momenti privati e importanti come le cerimonie. Durante quel primo viaggio nel 2013 ho iniziato a conoscere da vicino la storia dei Lakota e soprattutto ho iniziato a sviluppare una nuova consapevolezza del mio privilegio in quanto donna europea bianca e, in generale, di me stessa.

Figure umane e paesaggio, nelle tue immagini, si integrano con naturalezza, producono una reale comunanza artistica. È un aspetto del tuo “fare fotografia” che si realizza istintivamente, oppure è frutto di un pensiero più elaborato, legato a fattori tecnici?
Direi che il mio “fare fotografia” ora si realizza istintivamente perché è frutto di anni di studio e pratica. I fattori tecnici sono soltanto uno strumento che serve ad esprimere un’idea e una maniera di vedere il mondo. La tecnica va imparata e poi dimenticata, o si rischia di produrre immagini belle, ma vuote dal punto di vista dei contenuti e delle emozioni. Conoscere se stessi e sviluppare delle opinioni rispetto a ciò che ci circonda è il vero punto di partenza del fare questo tipo di fotografia.

Qual è l’insegnamento più importante che ne è scaturito?
Credo che la cosa più importante che ho imparato è che siamo parte di un insieme. Il benestare personale è strettamente collegato al benestare della società e dell’ambiente in cui viviamo. Fare il possibile per migliorare la comunità di cui facciamo parte significa migliorare se stessi, mentre l’individualismo porta benefici limitati e non a lungo termine.


Carlotta Cardana lavora come fotografa da oltre dieci anni. Dopo aver studiato in Italia, ha lavorato come freelance in Argentina e Messico; dal 2011 vive a Londra. Nei suoi progetti personali si interessa alla spiritualità indigena, alle relazioni fra le persone e l’ambiente e alle modalità in cui l’identità è plasmata dagli spazi in cui si vive. Il suo lavoro è stato premiato ed esposto in numerose gallerie e festival internazionali. Una selezione di immagini di “The Red Road Project” è in mostra permanente all’American Museum of National History a New York.


Le immagini qui presenti sono di esclusiva proprietà di Carlotta Cardana presenti sul relativo sito

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