Una Cicindela | di Tommaso Lisa
Racconto estratto della raccolta “Entomologia da spiaggia”
pubblicazione concessa in anteprima
“[…] Francoforte era diventata il centro di quella che viene giustamente definita la scuola di Von Frisch e Lindauer per gli studi sul comportamento animale. La sua tradizione si esprimeva non solo in uno staff di professionisti e in un insieme di tecniche, ma in una filosofia di ricerca basata su un profondo, affettuoso interesse – una sorta di sentimento – per l’organismo oggetto di studio, soprattutto nel suo adattarsi all’ambiente naturale. Ecco che cosa prevede questo orientamento, che considera l’organismo nella sua interezza: si studi in ogni modo possibile la specie scelta (approccio olistico); si cerchi di capire – o quanto meno di immaginare – come il suo comportamento e la sua fisiologia lo rendano adatto al mondo reale; quindi si selezioni un elemento del comportamento che possa essere separato e analizzato come se fosse un pezzo anatomico. Una volta identificato il fenomeno a cui si è interessati, si approfondisca l’indagine nella direzione più promettente, senza esitare a porsi nuove domande lungo il percorso”.
Bert Hölldobler – Edward O. Wilson
Formiche. Storia di un’esplorazione scientifica, Milano, Adelphi, 1997, p. 46.
Il mare era appena increspato mentre un soffio d’aria agitava il margine orlato degli ombrelloni bianchi e azzurri. Le piccole onde s’allungavano lisce sulla riva sabbiosa con suono cristallino. Un uomo sui quarant’anni stava in piedi lungo la spiaggia tirrenica. A differenza degli altri giorni però, assieme al salmastro e la salsedine, al profumo delle creme e degli oli, percepiva nell’aria anche l’odore delle alghe essiccate.
Tra i granelli franosi delle piccole buche, sotto i raggi di luce che calavano a picco come lame di spada, scorse improvvisamente l’atterraggio di una Cicindela. Era mezzogiorno e non c’era ombra, neppure nel fondo delle fossette lasciate dagli innumerevoli passi dei bagnanti, sulle pareti diroccate dei castelli abbandonati dai bambini. Palette e secchielli di plastica restavano a scolorire tra la ghiaia sottile. Gli sembrava impossibile ma, a meno che non si trattasse di un colpo di sole, era proprio una Calomera litoralis ssp. nemoralis. Una sola.
Il litorale era un susseguirsi ininterrotto di stabilimenti balneari densamente popolati. Il retro duna, habitat elettivo di questa specie, era inesistente, sconvolto da molti anni ormai da un panorama di parcheggi, docce, bar e cabine. Alle spalle di quest’orizzonte di cemento si elevano le facciate degli hotel e le villette. Lo scempio di un ecosistema plurimillenario si era concluso nell’arco breve di meno di un secolo. Forse quell’esemplare passava di lì per caso, portato dal vento per parecchi chilometri, da quel fazzoletto di spiaggia libera dove ancora i pochi bagnanti stavano accampati per terra sulla rena e per arrivarvi si attraversava a stento, affondando le palme di piedi nella sabbia arroventata, uno stretto sentiero nella macchia mediterranea odorosa di mirto e lentisco.
In mezzo a tutte le impronte, i piedi, i costumi, i patini, le onde e le bagnanti, quell’uomo dal corpo atletico aveva attenzione solo per la sparuta Cicindela. Colpa del suo occhio selettivo, da cacciatore. Per una forma di reazione istintiva, il suo sguardo aveva selezionato quella forma, come un nome scritto su un foglio bianco. La inseguiva puntigliosamente, labile traccia, in tutte le sue evoluzioni. Per lo più voli brevi e nervosi, ellittici, da una buca all’altra.
Così la caccia ebbe inizio. Ma senza retino era impossibile avere la certezza del colpo vincente. Privo del vantaggio della protesi che aveva da ragazzo, quando praticava entomologia, occorreva avvicinarsi il più possibile sotto vento, puntare come un segugio, avendo cura che l’ombra non lambisse la preda. Che il passo felpato non vibrasse sul terreno. Gli importava poco se stava facendo la figura del fesso: ne aveva piena coscienza. Bagnini e signore lo guardavano distrattamente, incuriositi e senza capire cosa stesse cercando per terra questa specie di Antinoo da spiaggia.
Non aveva voglia di tuffarsi in mare per rischiararsi le idee, per placare il formicolio di pensieri che quella Cicindela aveva iniziato a fargli frullare per la testa. Diffidava di quel brodo torbido, cosparso di persone. Era anche lui, come un personaggio di un racconto di Italo Calvino, un uomo nervoso che vive in un mondo frenetico e congestionato, cercando di ridurre al minimo le relazioni con l’esterno per difendersi dalla nevrastenia generale.
Ma difendendosi dalla nevrastenia generale non faceva altro che ingigantire la sua. Ne aveva già viste molte di Cicindele come quella, giacché tale carabide non poteva certo dirsi raro. In certe circostanze, quando la spiaggia è libera e selvaggia, in tratti di costa in cui gli arenili non vengono ripuliti dai detriti organici, vola addirittura a sciami, in mezzo alle saltellanti pulci di mare di cui si nutre. La sua meraviglia era di trovarla in un luogo tanto affollato e lindo, dal quale la natura, col suo corollario di detriti, era stata accuratamente espunta dalle operazioni di pulizia dei bagnini.
La Cicindela risaliva la costa a piccoli voli parabolici. Lui avrebbe voluto prenderla a mani nude, spiccando un balzo simile a quello di Gatto Silvestro, tra nuvole di polvere, sentirsela formicolare nel palmo della mano, temere di perderla spigolando la sabbia, i minuti gusci di conchiglia e stringerla poi con gentilezza tra pollice e indice, osservandone la testa dagli occhi globosi, le antenne policrome e le fortissime mandibole falcate colore d’avorio, contornate da una sottile linea nera.
Per lui era come evaporare. Nella moltitudine della spiaggia si sentiva solo, incompreso, nonostante convivesse con tale sensazione fin dall’infanzia. Si sentiva fuori dal suo habitat e certo ormai che la corsa verso la morte era più forte di ogni possibilità di recupero. Avrebbe voluto fermare qualcuno, uno qualunque di quei corpi opachi intenti a conversare di calcio e di economia e spiegare il senso di quella sua pantomima entomologica per il gusto di trovare un poco di complicità. “Chissà”, si domandò in quell’istante, “in quanti su questa spiaggia conoscono le Cicindele? Forse c’è qualche biologo, qualche naturalista…”. Era scettico in merito a quanti fossero consapevoli di cosa fosse una Cicindela. Gli pareva di essere circondato da pingui commercialisti, d’avvocati appena usciti dalle aule di tribunale e imprenditori palestrati, accompagnati da donne tatuate.
Intanto la Cicindela apriva le elitre e volava per tre o quattro metri, sempre nella stessa direzione, con traiettorie ampie, teatrali. Sembrava che volesse farsi vedere, mostrare di proposito la sua grazia fiammante. L’io egocentrico e narcisista che abitava in lui lo faceva sentire orgoglioso, quasi eletto, privilegiato tra gli altri che, evidentemente, non sapevano o non avevano occhi.
La Cicindela andava a nascondersi sempre dietro una fossetta di rena, la duna scavata dall’impronta di un piede. Talvolta giocava a nascondino dietro un grosso agagropilo, uno di quei frammenti sferici e feltrosi fatto di frammenti di Posidonia. Nel far ciò schivava con precisione millimetrica gambe di persone, zigzagava tra cumuli di gonfiabili, secchielli, palette, palloni da calcio.
Se l’avesse catturata avrebbe osservato le magnifiche lunule colore dell’avorio istoriare le elitre verde scuro, quasi alfabeti di un linguaggio archetipico di rune o simboli celesti. L’avrebbe osservata lottare e dibattersi con ferocia, per riconquistare la libertà di aggirarsi meccanicamente in cerca di cibo o di un altro esemplare col quale accoppiarsi. Quasi che la vita fosse tutta lì, in quella serie ripetitiva di schemi che servano a nutrirsi e riprodursi.
Invidiava l’apparentemente infallibile radar della Cicindela, preciso come quello di un pipistrello. Si domandò anche come facesse l’insetto a svernare, dove trascorresse i lunghi inverni fatti di grandi mareggiate sulla spiaggia liberata dagli stabilimenti, mentre lui sarebbe stato in un ufficio al telefono, davanti a uno schermo di computer, a parlare di soldi, giacché alle persone solo i soldi interessano. Si chiese ancora una volta come facesse – lui o la Cicindela? – a sopravvivere in una spiaggia tanto antropizzata.
Il riflesso del sole sul mare aveva creato una macchia abbagliante, fatta di ondivaghi luccichii, che si spingeva fino alla costa. Smise di farsi trasportare dalle fantasie e dal volo della Cicindela: se ne andasse dove credeva, quella creatura, lui s’era allontanato troppo dal suo bagno, moglie e suocera, preoccupate, avrebbero iniziato a fare domande imbarazzanti sul suo comportamento.
Verso sera, quando la sagoma nera dei lussuosi yacht ancorava sotto costa, in quello stesso luogo fece una grande scultura di sabbia raffigurante un bel Lucanus cervus con le tenaglie aperte. Molti passanti si fermarono ad ammirarla e lui parve essere soddisfatto.
Tommaso Lisa è nato nel 1977 a Firenze, dove vive e lavora. Appassionato entomologo, nel 2001 ha pubblicato per l’associazione francese “r.a.r.e.” il catalogo ragionato sui Cicindelidi della regione del Mediterraneo. È dottore di ricerca in Lettere. I suoi studi di estetica si sono concentrati sulla “poetica dell’oggetto” del filosofo Luciano Anceschi, nella poesia italiana nella seconda metà del Novecento, da Montale alla nuova avanguardia. Ha scritto libri di critica letteraria su Edoardo Sanguineti e Valerio Magrelli. È autore di Memorie dal sottobosco, Exorma 2021
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