Sul sito della casa editrice Einaudi (dove peraltro è disponibile un estratto) si legge: Finalmente un’opera italiana completa e di riferimento per la storia delle sessualità e identità LGBT+, di certo possiamo considerare questo un evento culturale rilevante. Abbiamo rivolto qualche domanda all’autrice Maya De Leo.
Qual è il riscontro sul libro che le ha fatto più piacere e quale quello che la lascia perplessa, se è ricorso.
Finora ho ricevuto finora feedback sempre molto positivi e comunque molto costruttivi.
Mi ha fatto molto piacere, in particolare, sentire ricorrere spesso l’aggettivo “necessario” accanto al mio libro: è stato in effetti il prodotto di una necessità, quella di proporre un testo di riferimento per il mio corso all’università, ma anche più in generale, di proporre al pubblico italiano qualcosa a cui non aveva ancora avuto accesso. Oltre a costituire il frutto delle mie ricerca, infatti, il libro ha voluto rappresentare anche un tentativo di rendere accessibile un’ampia messe di storiografia queer internazionale, soprattutto di matrice anglofona, che fino ad ora era stata preclusa al pubblico non specialistico.
A che punto siamo, secondo la sua prospettiva, della visione collettiva, della percezione generale, e anche del momento culturale, rispetto ai temi di cui si occupa nel libro.
Riprendendo un concetto molto usato negli studi postcoloniali direi che, in relazione ai temi trattati nel libro, oggi viviamo in un contesto segnato dalla presenza di temporalità multiple: diversi segmenti della popolazione, caratterizzati talvolta ma, non sempre – e comunque non sempre in modo scontato –, da differenze di età, di cultura, di posizione sociale, ma anche di storie familiari, di appartenenze a sottoculture o a contesti professionali diversi sperimentano percezioni ed esprimono punti di vista molto distanti tra loro, tanto da farci pensare alla compresenza di scenari storico-temporali diversi, anche se coesistenti, talvolta all’interno di uno stesso perimetro piuttosto ristretto.
Tracciare un bilancio generale è difficile e può essere riduttivo o fuorviante. Personalmente, nella ricezione del mio libro ho avvertito un riscontro molto positivo nelle generazioni più giovani, che è poi la stessa delle persone che frequentano il mio corso all’università, ma ho anche ricevuto, con altrettanta soddisfazione, il riscontro positivo di persone della generazione precedente alla mia, alcune delle quali hanno vissuto la prima stagione dell’attivismo LGBT+ e del femminismo “di seconda ondata”, mentre altre, “non addette ai lavori”, hanno scoperto il libro per caso e, incuriosite, vi hanno trovato spunti di riflessione interessanti e lo hanno, magari regalato ai loro figli.
Certo, dobbiamo ancora fare i conti con il fatto che, ancora oggi, il sistema scolastico, ma anche universitario, in Italia è strutturato in modo tale che chi non si costruisce, con una ricerca personale autonoma spesso difficoltosa, un proprio programma di approfondimento delle tematiche LGBT+, rischia nella maggior parte dei casi di non incontrarle mai nel proprio percorso di formazione. E qui si apre una forbice.
Abbiamo infatti, da una parte, chi resta esposto in forma spesso esclusiva alla narrazione dominante dei media mainstream, in particolare della televisione (ma anche della gran parte della stampa cartacea), contraddistinta da un significativo ritardo nell’aggiornamento non solo del proprio lessico, ma anche delle rappresentazioni che offre e dell’apparato concettuale necessario a contestualizzarle e decodificarle.
Dall’altra parte c’è chi, spesso attraverso canali informali, viene in contatto con altri media, in particolare legati a internet, e trova così accesso a una “bolla sociale”, a una sitografia e, in generale, a uno spazio (virtuale ma non solo) di tipo differente, nel quale è possibile – e di fatto si realizza – la circolazione di narrazioni diverse, la condivisione di strumenti concettuali e rappresentazioni che li affacciano a nuove possibilità di interpretazione della realtà sociale e di espressione – individuale e collettiva – di sé.
Qual è il passo successivo? quale direzione prendono le sue ricerche e quali ambiti intende ancora trattare?
Il mio libro apre a tanti possibili spunti di approfondimento e di ricerca: attualmente la mia posizione nell’accademia non è stabile, quindi è un po’ difficile per me in questo momento fare progetti a lungo termine. Ogni lavoro di ricerca presuppone infatti un investimento di risorse in termini di fondi e di tempo molto impegnativo che definire poco compatibile con la precarietà è un eufemismo. Già il libro che ho scritto non sarebbe stato possibile senza la generosità delle persone che mi hanno supportato.
Tra i temi che mi piacerebbe affrontare citerei senz’altro: un approfondimento sulla storia LGBT+ italiana, una riflessione sull’impatto della storiografia queer sugli studi storici, un’esplorazione interdisciplinare del ruolo delle rappresentazioni. Tutti temi sui quali vengo sollecitata tra l’altro anche dalle domande de* studenti a lezione.
Che idea ha della “queer ecology”? e dell’ecofemminismo?
Trovo che nell’incontro tra i saperi legati all’ecologia e quelli legati a femminismo e teoria queer risieda un potenziale molto alto di riflessione e di progettualità.
Da una parte, infatti, la posta in gioco della decostruzione del concetto di “natura/naturale”, che è poi anche uno dei temi che fanno da filo rosso alla storia che racconto nel mio libro, consiste nell’apertura di un nuovo campo di possibilità relative a tutto quello che, sottratto al dominio del “naturale” inteso come “astorico, immutabile”, viene invece ricondotto all’ambito del “culturale” e visto quindi in una nuova ottica di trasformazione/evoluzione possibile e inevitabile, finalmente liberato dalla “morsa” di una presunta eternità immobile.
Dall’altra, però, accade anche che se osserviamo l’insieme residuale di quei fenomeni che, nel senso comune, continuano a restare di pertinenza di questa presunta “natura”, non solo lo vediamo restringersi progressivamente, ma lo vediamo anche trasformarsi, liberarsi a sua volta di quegli attributi che gli erano stati associati con l’intento più o meno esplicito, più o meno consapevole, di usarlo come metro di paragone sia per disciplinare i comportamenti “umani” che per riaffermare un presunto primato dell’umano sul resto delle specie e del mondo in generale.
È cruciale, a mio avviso, questo cambio di paradigma che coinvolge anche le cosiddette “hard sciences”, le “scienze pure”, che oggi sembrano restituirci un panorama molto più articolato e ricco di sfumature della realtà che ci circonda e di cui siamo parte. In questa prospettiva, individuare e definire il confine che separa l’homo sapiens dalle altre specie diventa sempre meno autoevidente, così come sempre meno scontata è la differenza che separa ciò che è “inanimato” (e che si scopre invece dotato di una sorprendente agentività) e ciò che non lo è.
Insomma, quella prospettiva “decentrata” che decostruisce l’illusorio primato di “neutralità” e “universalità” del sapiens sapiens, specie se maschio, bianco, occidentale, cis-eterosessuale, borghese, abile ecc., ci regala un nuovo sguardo sull’intero ecosistema. È questo, a mio avviso, un punto di partenza dal quale possono svilupparsi – e di fatto già si stanno sviluppando – nuove riflessioni che interrogano concetti come quello di “crescita”, “sviluppo” e “sostenibilità” e invitano a ripensare il presente e il futuro della vita (delle vite) su questo pianeta (e, perché no, anche oltre) fuori da uno schema antropocentrico, lineare e progressivo, e in una prospettiva complessa, non lineare, molteplice e, potremmo aggiungere, queer.
In che modo le scelte politiche in Italia, in Europa e nel mondo stanno determinando o interpretando i contenuti culturali e le realtà sociali? Ovvero la politica è in grado di interpretare al meglio il dibattito? cosa fa bene e cosa fa male, in Italia, a suo avviso?
A rischio di ripetermi, vorrei tornare ancora sui rischi dell’operazione retorica e culturale, che consiste nell’inchiodare lo status quo, sia che si tratti di una struttura gerarchica basata sul genere e sull’orientamento sessuale, sulla “razza”, sulla classe, sull’abilità, ecc., a una sua presunta “naturalità” in modo tale da giustificarne l’esistenza e la persistenza (quella che molto efficacemente il sociologo Pierre Bourdieu definisce la “trasformazione della storia in natura”). Credo che evitare più o meno deliberatamente di interrogare il presunto carattere “naturale” delle diseguaglianze prodotte da queste strutture, insistendo, al contrario, sulle retoriche della “natura”, della “tradizione” o del “carattere nazionale” da una parte, e su quelle dello “sviluppo lineare” e del “progresso inarrestabile” dall’altra, sia una pratica molto diffusa purtroppo trasversalmente rispetto agli schieramenti politici, il cui immediato ritorno in termini di consenso mette in ombra le ricadute disastrose, che sono quelle proprie di ogni invito all’abbandono del pensiero critico e alla deresponsabilizzazione rispetto ai processi sociali collettivi.
Certo, in Italia, in Europa e nel mondo ritroviamo in atto quello stesso modello delle temporalità multiple al quale facevo cenno più sopra. Accanto a contesti in cui prevale uno scenario a tinte fosche ne troviamo altri che offrono maggiori margini di aspettativa/speranza, e, a volte, in uno stesso contesto, anche l’iniziativa di poche persone è sufficiente a mettere in moto cambiamenti importanti di lunga durata che fanno la differenza nel tempo. Il problema, sia che si parli di diseguaglianze e oppressioni legate a genere e orientamento sessuale, sia che si parli di diseguaglianze sociali o di ecosistemi al collasso, è appunto quello del tempo, che non è – nemmeno quello! – una variabile neutra e “naturale” ma che, al contrario, quando a prevalere è la “retorica dell’emergenza”, indebolisce e scoraggia le progettualità che comportano investimenti di ampio raggio e di lunga durata che mirano a profonde trasformazioni sistemiche e che – sia che si parli di programmi educativi e culturali o di welfare o, più in generale, di un ripensamento globale delle priorità collettive – rappresentano invece, almeno a mio avviso, le uniche alternative efficaci.
Maya De Leo è docente a contratto di Storia dell’omosessualità presso il Corso di laurea in DAMS dell’Università degli studi di Torino ed è stata docente a contratto di Storia di genere presso il Corso di laurea magistrale in Scienze Storiche dell’Università degli studi di Genova. Studiosa di storia LGBT+ e teoria queer, ha conseguito il Dottorato di Ricerca in Storia presso l’Università degli Studi di Pisa con una ricerca dedicata alle rappresentazioni dell’omosessualità tra Otto e Novecento. Ha pubblicato numerosi contributi su riviste scientifiche («Storica», «Genesis», «Contemporanea») e volumi collettanei. Per Einaudi ha pubblicato Queer. Storia culturale della comunità LGBT+ (2021).