“Il confine fra cielo e terra è un filo d’erba.”
La lingua della natura nelle poesie di Charles Wright.
commento a Charles Wright, Littlefoot (traduzione e cura di Antonella Francini), Crocetti editore, 2023.
di Vincenzo Corraro
A conti fatti, l’esistenza è sempre uno sporgersi dall’altra parte. Verso l’altra riva del fiume, dove scorre ‘il negativo del tempo’. Leggere Littlefoot di Charles Wright è come trovarsi nel bel mezzo di questa navigazione, alla deriva fra nuvole e tramonti, distanze in cui ‘poter remare’ e terre fradicie e cose che vanno scomparendo. Wright è un timoniere lucido e insieme rapito, imbarca ogni immagine dall’orizzonte ottico e interiore con la purezza e la curiosità di un cantore, con la destrezza e l’esattezza di uno stenografo (o di un ‘registratore’: si veda oltre), come se quel viaggio, che è sempre a un passo dall’approdo – eppure incommensurabile, estremo, nostalgico – insistesse su un acuto trattato di temi simbolici, dilatati dalla forza della memoria, espunti da una terra di cui il poeta si fa interprete.
La densissima massa poetica di questa raccolta ha la stessa forza di un iceberg, capace di sommuovere nel profondo, di nascondersi e di riaffiorare in superficie col proprio breviario compendioso del lontano, dell’assenza e di ciò che il tempo e la linea del paesaggio assottigliano in un’ultima epifania di fotogrammi.
Charles Wright è originario del Tennessee; nato nel 1935, ha insegnato in diverse università degli Stati Uniti e anche in Italia, è uno dei più celebrati poeti americani (vincitore di prestigiosissimi premi, fra cui il Pulitzer; maestro del long poem – la forma metrica più in voga fra i poeti americani e perno di questa raccolta). Littlefoot è il diciottesimo libro di poesie di Wright, il diario lirico del suo settantesimo anno di età: un anno di evocazioni e di immagini primordiali, che va da un autunno all’altro, e che l’annotazione del quotidiano tende a smitizzare e a rendere vivide con assoluto disincanto.
Antonella Francini, che ha magnificamente tradotto e curato le 35 sezioni di questo testo, con un approccio potremmo dire filologico e di orientamento critico al fine di restituirci l’intensità della parola connessa al background culturale, musicale e geografico dell’autore, parla – a ragion veduta – di un poeta che è una sorta di folk-singer, rapsodo di un mondo inabissato, di cui il tratto visivo, l’essenza delle cose, potremmo aggiungere, rappresenta solo una minima parte. Pesando meno dell’assenza.
Io sono il segno, io sono la lettera. / Sono la lingua che non può scendere a patti. / Io sono ciò che viene disperso e non può essere raccolto.
Il tentativo smanioso di raccogliere l’indicibile o l’irripetibile o ‘ogni storia ascoltata’ resta il filo rosso che lega assieme tutti questi frammenti: Charles Wright fa su e giù fra ciò che sta sotto e ciò che sta sopra dell’iceberg, proclamandosi, nella sezione 23, dapprima un raccoglitore di immagini e subito dopo un registratore o un dispositivo per l’ascolto, asserendo con fierezza: sono la lingua di quel che esiste / dei suoi segreti sussurrati e non uditi. E qui si apre un mondo. Intanto perché la selezione che fa il poeta dal suo catalogo definisce le coordinate di uno spazio di resistenza: esistenziale, del paesaggio, del quotidiano dove gli uomini sono scomparsi e la ruralità esalta il giardino planetario e l’inesauribile spettacolo della natura.
Basterebbe questo per fare di Wright un eco-cantore capace di disvelarci la lingua della natura (che è matematica) e la lingua del paesaggio (che è la lingua). Basterebbero certi suoi versi, che sono di forgia classicheggiante: gli incisivi delle montagne incominciano a mordere / nella carne rosa del tramonto o consonanze con la tradizione italiana di situazioni oggettive e dimesse, tanto novecentesche: punte di foglie accartocciate come cuoio non conciato, / diafana luce calante fra gli alberi sfrondati e senza gioia (Wright è stato traduttore di Eugenio Montale), per dargli una solida collocazione nel solco di tanta produzione di poesia contemporanea che ha in sé i cardini del naturalismo. Invece Wright, pur mantenendo tale impostazione, compie un’operazione straordinaria, che è poi la cifra stilistica del suo poetare: diventa una cosa sola con l’oralità, ovvero con quel tessuto di simboli invisibili e di vissuto inesprimibile che la scrittura prova a rendere tracciabili e trasfigurati.
Sostiene Wright: Un bravo scrittore è come un vento sull’erba del prato. / Piega le parole al suo volere, / invisibile ovunque. / Forte il lamento nei luoghi spogli. / Fra gli alberi d’inverno, le sue parole ancorate alla musica.
Così nell’inciso finale, con questo esplicito riferimento alla musica, ci lascia intendere la necessità di combinare la trasmissione orale con il linguaggio colto, in formule e modalità espressive proprie di un immaginario comune che sia ben riconoscibile a tutti.
Il musicologo John Blacking si chiedeva in un’opera, il cui titolo è diventato icastico e vero spartiacque nella moderna antropologia della musica: How Musical is Man? Diceva Blacking che la musica non ha significato fuori dei rapporti sociali. Così il suono è sempre umanamente organizzato, nel senso che è un prodotto del comportamento dei gruppi umani, i quali si identificano nei processi cognitivi (e negli effetti) soggiacenti alla comunicazione. La musica, come l’oralità, non conosce le categorie concettuali e la musica eurocolta, che ha cristallizzato il segno, è venuta dopo. Allora Tutto è musica, secondo Wright, perché tutto è un formulario dell’esperienza o di un sistema di valori, che emerge dall’indistinto cui appartiene e che viene evocato per motivi identitari, emotivi, culturali o per dare semplicemente forma all’esistenza.
Nelle poesie di Littlefoot, il tempo interiore è una traccia illimitata, la struttura armonica dei vari frammenti intonati. Un processo cognitivo che diventa ben riconoscibile, prima di tracimare verso l’ignoto. In questo processo Wright, prima del congedo, che possiamo riassumere in questi due versi: Mi svuoto nella luce / finché divento mattino, circoscrive tutti i propri riferimenti linguistici, mitici, gli oggetti reali e mentali, che incalzano ‘la corrente’ e il flusso spirituale che è parte dello stesso tormento. Quante vite – chiosa Wright – vivono queste piccole cose. / Vorrei che una fosse la mia.
E due estremi chiudono questa traversata. O il trotto, benché zoppicante, visto che Littlefoot è il nome di un puledro che viveva in Montana quando il poeta scrisse il libro. Oppure – argomenta Francini – il titolo è semplicemente il richiamo all’andamento del verso, trattandosi di una poesia che mantiene un profilo non molto elevato. Due aperture, si diceva, che tendono a dilatare la fissità dei luoghi, l’isolamento e il ricorso ad eventi unici e irripetibili che ritornano come scoperte o ricordi, come già nella scrittura di Cesare Pavese.
La prima apertura è quella della lingua che non ha ‘limiti’, così simile alla natura per il suo straordinario polimorfismo e per le possibilità in dissolvenza. È la ‘fantasiosa danza della lingua’, che offre un contrappunto all’immaginario, nell’apparenza convenzionale, eppure capace di sovvertire la realtà o di lasciare un segno del nostro passaggio terreno. Proprio come la musica. “Ciò che conta”, dicono i sardi, “mettilo in musica.” Salvalo. Wright, che è uomo-musicale, non solo propone un repertorio figurale che la memoria conserva, ma spinge tale situazione verso le profondità dell’abisso, sull’altra ‘riva della lingua’ dove l’inafferrabile ci attende.
L’altra apertura è data dall’immaginazione, che ha lo scopo di abbattere ogni stallo simbolico e i sovrapponibili rinvii all’inconscio. Questo è un libro compatto, armoniosamente ricco, la poesia qui non è né un rifugio e né una salvazione: è un canto organizzato, in una musica in sordina piena di rimandi e conoscenze, che il lettore deve riscostruire o indovinare in un gioco di trasparenze e immagini da ogni prospettiva. È un viaggio, si diceva. Ma non appena si ricrea questo incanto, quando cioè abbiamo conforto di ogni sicurezza, di ogni esile elemento, Wright sterza con il timone, aprendo ad altre realtà simboliche, come un corpo tirato giù dai pesi / negli abissi, sottraendoci ad ogni rassegnazione e all’abusato universo verbale.
Perché c’è una serenità / sotto di noi che dondola come una culla in acque calme (la metafora dell’acqua, al pari di quella del viaggio, è dominante) e a una vita ai margini, accompagnata dalle nuvole, con i pensieri che sono i pensieri di tutti, con una vacuità condivisa da tutti, non rimane che il distacco, il togliersi d’impaccio, mentre ad altri spetta il compito di continuare il viaggio e ripercorrere le quattro stagioni della vita.
Questo, crediamo, sia l’assunto di Littlefoot. Il sentimento panico che attraversa tutte le sezioni e tocca forse il vertice nella trentatreesima dove tutto diventa luce, tale da far considerare la raccolta non conclusiva: fra cielo e terra c’è un abisso, o appena un filo d’erba, che ognuno può vedere. O ricreare, in un canto continuo.