Aleksàndr Aleksandrovič Blok – (1880-1921)
Aleksàndr Blok è la figura più cospicua di quella generazione di simbolisti russi che percepirono in modo spasmodico il rombo sotterraneo degli avvenimenti, la crisi della cultura borghese, l’approssimarsi della tempesta. Maturati sul limitare di due epoche, con tutta l’irrequietezza di chi vive su un’incerta striscia di confine, i giovani simbolisti respinsero il positivismo, le formule naturalistiche, i vezzi dei decadenti in nome di concezioni messianiche, di teorie religiose che appagassero la loro brama di grandi rivolgimenti. Pervasa del disperato presagio della vicina catastrofe, dell’ansia febbrile del crollo del vecchio mondo, la poesia blokiana è appunto poesia di confine. I suoi versi preannunziano il cataclisma con la sottigliezza vibratile di strumenti sismici. La trepidazione smaniosa di quegli “anni terribili”, anni di accese speranze e di tragiche frane, si immedesima in essi col destino e l’orgasmo del poeta, si riflette nell’agitata vicenda di estasi e di cedimenti, di metafisici sogni e di arlecchinnate, Blok è il tema precipuo di Blok, l’attore principale della sua poesia.
La sua poesia si sviluppa dunque come un romanzo lirico, incentrato sulla figura reale del poeta. Un romanzo folto di contrasti e di antitesi, il cui eroe si trasforma da cavaliere in pagliaccio, da paladino teologico in cliente di bettole, pencolando fra il misticismo e la perdizione. E dove ogni episodio, per quanto banale, dissolve in una fantasia metafisica, in un giuoco d’ombre.
(dalla postfazione di Angelo Maria Ripellino, in Poesie, Aleksàndr Blok, a cura di Angelo Maria Ripellino, Mondadori 1987)
Un fanciulla cantava in un coro di chiesa
Una fanciulla cantava in un coro di chiesa
di tutti gli stanchi in contrade straniere,
di tutti i vascelli salpati nel mare,
di quelli che avevano obliato la gioia.
Così la sua voce cantava, volando alla cupola,
e un raggio splendeva sulla bianca spalla,
e ognuno dal buio guardava e ascoltava
il bianco vestito cantare nel raggio.
E a tutti pareva che fosse vicina la gioia
e in un placido golfo ancorati i vascelli,
che in terra straniera gli uomini stanchi
avessero trovato una vita luminosa.
E la voce era dolce, ed il raggio sottile,
e solo in altro, alle Porte del Regno,
ammesso ai misteri, un bambino piangeva
perché nessuno sarebbe tornato.
agosto 1905
Agli amici
Tacete dunque, corde maledette! (A. Majkov)
Siamo tra noi segretamente ostili,
invidiosi, sordi, estranei, e invece
come potremmo lavorare e vivere
senza questa perenne inimicizia!
Che fare , se ciascuno s’è sforzato
di appestare la propria casa, e i muri
sono tutti imbevuti di veleno,
e non c’è dove volgere la testa!
Nella felicità nessuno crede.
Che fare! Vaneggiando dalle risa.
ubriachi, dalla strada contempliamo
il rovinare delle nostre case!
Nell’amicizia e nella vita perfidi
scialacquatori di vuote parole,
che fare! Andiamo spianando il cammino
per i nostri lontani discendenti!
Quando le ossa infelici marciranno
sotto una palizzata fra l’ortica,
qualche storico di epoche future
scriverà un’opera considerevole…
La fabbrica
Nella casa vicina sono gialle
le finestre. Ogni sera . ogni sera
pensierose scricchiano le sbarre,
si avvicinano gli uomini al portone.
E il portone massiccio è sprangato,
ma sul muro . sul muro
qualcuno immobile, nero, qualcuno
gli uomini conta in silenzio.
Io sento tutto dalla mia altitudine:
con la voce di bronzo egli sollecita
la gente che di sotto s’è raccolta
a curvare la schiena travagliata.
Essi entreranno e si disperderanno,
caricandosi i sacchi sul dorso.
E alle gialle finestre rideranno
d’avere abbindolato questi poveri.
14 novembre 1903
Poesie tratte da: Poesie, Aleksandr Blok, a cura di Angelo Maria Ripellino, Mondadori 1987