AUTORI IN DIALOGO SULLA SCRITTURA
Alfredo Zucchi autore di La bomba voyeur (Rogas) ed Emanuela Cocco - autrice di Tu che eri ogni ragazza,( Wojtek), si confrontano, partendo dalle proprie esperienze, su creazione narrativa, processo di scrittura, riflessioni sul romanzo contemporaneo.
AZ: C'è un'immagine una figura o un evento intorno ai quali il mondo di Tu che eri ogni ragazza ha preso vita ed è venuto fuori? Magari non è l'immagine che ha finito per avere un ruolo centrale nel romanzo, però ha avuto una specie di ruolo sorgivo?
EC: L’immagine che ha dato vita al romanzo è la grande stazione ferroviaria di Roma Termini. Anni fa ci passavo ogni giorno, lavoravo fuori Roma quindi per me era una tappa obbligata, nei giorni liberi andavo a scrivere alla tavola calda della terrazza, sempre dentro la stazione. Mi colpiva la grande massa di persone che la abitano e il fatto che in quel luogo più che in altri si trovano a convivere persone completamente diverse per ceto sociale, abitudini, storie di vita. E poi in una stazione così grande non puoi non far caso a come la staticità e il movimento finiscono per creare un circolo vizioso in cui siamo intrappolati tutti. Alla stazione persino i mendicanti sono costretti a muoversi di continuo per non essere allontanati, si muovono ma è un movimento statico, fanno avanti e indietro, ripercorrono gli stessi luoghi, dietro la stazione. Lungo le mura stanno fermi tanti ragazzi, come agli arresti domiciliari, a loro lo spazio sembra negato, non hanno soldi, quindi non hanno dove andare, ma non hanno nemmeno diritto a sostare in quel luogo, il loro è un movimento obbligato, senza senso. Poi ci sono i pendolari: verso l’ora di cena li vedi correre lungo i binari per non perdere il treno e tornare a casa, viaggiano ogni giorno, ma è un viaggio ripetitivo, quotidiano, che non porta a nessuna scoperta, che non ha valore esplorativo. La verità è che per mantenersi in vita bisogna muoversi ma non tutti hanno a disposizione un ampio raggio d’azione. I viaggiatori passano di lì per andare altrove, loro hanno diritto allo spazio, la stazione per loro è solo una tappa e quando arrivano si mischiano agli altri, abitano lo stesso luogo, ma per loro la stazione è qualcosa di diverso, con tutti quei negozi temporanei messi in bella vista nel corridoio centrale, i ristoranti, gli store, la stazione deve sembrargli una fiera espositiva, un grande mercato. Per chi lavora lì, invece, la stazione è un ambiente domestico, quotidiano, in cui passano molto tempo ma nel quale è impossibile rilassarsi. I commessi dei negozi stanno sempre in piedi, sempre in attività, piegano maglioni, preparano caffè, ma le persone che gli passano davanti, sempre di corsa, impazienti, i clienti, i viaggiatori e i pendolari, sono un flusso senza volto, un movimento nella relazione che non porta a nulla, anche questo un tempo frenetico della vita che però mantiene un carattere di immobilità. Quindi la stazione mi è sempre sembrata affascinante per questa sua natura di unione degli opposti, staticità e movimento, un gesto ciclico, che la fa somigliare a una immensa gif vivente, di cui anche noi periodicamente entriamo a far parte.
Poi Il romanzo nasce anche da una legittima domanda posta da Elio Pagliarani, nei versi di una sua poesia, “La pietà oggettiva”. Quei versi sono poi finiti in esergo al romanzo, sono questi:
Come offende d’inverno incontrare le notti alla stazione del verziere
gli addormentati sul lastrico, da sentire il bisogno
d’affrettare il passo, spazzolare il cappotto chiedere
perché non mi assaltano?
La questione che pone Pagliarani, e che ora ci riguarda più che mai è, mi pare, composta di due parti. la prima è l’offesa: come può non offenderci, quando gli passiamo davanti, chi è privato della possibilità di vivere, come può non offenderci l’addormentato sul lastrico? E poi viene la responsabilità, noi siamo responsabili del nostro sentimento di offesa o della nostra indifferenza. Pagliarani pone quindi una domanda centrale che riguarda la nostra responsabilità di uomini che vivono in un mondo iniquo. Come può, infatti, non offenderci il nostro bisogno di affrettare il passo, di chiederci intimamente, al sicuro nei nostri cappotti: cosa gli impedisce di assalirmi? Se fossi sul lastrico, se fossi messa nella condizione di non poter vivere cosa mi impedirebbe di assalire chi invece può farlo? Questa domanda è in un certo senso il motore dell’azione del romanzo, qualcosa che mi riguarda come persona che vive in questo mondo.
AZ: È una risposta molto precisa e questo mi pare che dica molto della tua attitudine nei confronti della scrittura narrativa: c’è molto pensiero dietro – pensiero di strutture e pensiero di temi.
L’immagine della stazione sembra proprio il modello dinamico in cui si muove la narrazione in Tu che eri ogni ragazza. Quella di Pagliarani invece mi pare essere la spinta che la mette in moto.
Per me un’immagine simile, quando ho cominciato a pensare al testo che poi è diventato La bomba voyeur, è rappresentata da un ribaltamento della figura della fuga. Un ragazzo è stato rapito, ma non si dibatte per liberarsi, non vuole sapere chi e perché – di fatto, rapito, comincia a godere della reclusione. Allora, mi sono detto anni fa, allora voleva essere rapito. Questa immagine è letteralmente l’evento scatenante di una delle due storie del romanzo; però è anche un’altra cosa. Si è verificato infatti, nel tempo, un parallelismo tra la fuga di questo personaggio e la struttura del romanzo stesso. La domanda “perché voleva essere rapito” genera risposte che si attorcigliano su stesse, che si stratificano le une sulle altre, che si nutrono di se stesse. Se, mi sono detto a un certo punto – e forse solo allora anch’io ho cominciato a godere della scrittura – se una risposta definitiva a questa domanda non esiste (perché non è mai compiutamente pronunciabile, e ogni tentativo di risposta sposta l’orizzonte della domanda più avanti, in loop) allora questo romanzo, in qualche modo, non ha fine. Però ci ho messo anni a capire che avrei dovuto adeguare un elemento all’altro – che, in fondo, avrei dovuto provare sul serio ad adeguare forma e contenuto.
EC: Questo aspetto, un romanzo che non ha fine e che fugge dalla sua stessa forma (ne ho scritto qui) è la cosa che più mi ha affascinato della tua scrittura, anche perché sei riuscito a creare un ambiente “fisico” che rappresentasse una pratica di scrittura che io esercitavo senza quasi averla messa a fuoco, mi riferisco a quel luogo della mente, quella sezione del tuo romanzo, che però sconfina fino a diventare il romanzo stesso, che tu chiami Laboratorio. Ecco per me il senso della scrittura è proprio il lavoro silenzioso nel laboratorio, dove è possibile esercitare quella pratica che Leopardi chiamava “attendere alla scrittura”, fare esercizio di comprensione del proprio pensiero per poi dargli una forma. per questo definisco il tuo romanzo una “casa occupata” perché scrivere è anche dare battaglia alle nostre stesse idee, che a volte ci sembrano presenze estranee che occupano il nostro edificio narrativo, presenze che noi dobbiamo in qualche modo governare. Un altro aspetto, tornando sempre al laboratorio che hai allestito nel tuo romanzo, c’è questa sensazione di discontinuità e di contiguità tra le parti che per me è indicativa del lavoro di scrittura che mi interessa fare e che ti ho visto fare nel romanzo: prendere qualcosa che fa parte di noi, qualcosa che conosciamo, e provare a farla convivere con qualcosa che stiamo cercando di scoprire mentre ci mettiamo a scrivere. Scrivere è proprio un’avventura in cui si può provare a forzare il nostro sistema di sopravvivenza introducendo un elemento esterno con il quale possiamo a fare i conti solo scrivendo. Scrivere è tracciare la mappa di un luogo in cui non siamo mai stati, non è possibile farlo restando seduti, chiudendoci dentro, al sicuro con la storia che abbiamo progettato. Come dici bene: «La strada davanti è spianata», fa Bruto, «eppure io non la vedo: mi sfugge, si sottrae». La strada che abbiamo in mente si sottrae e questo è un bene, mi pare. certo, la storia che non finisce, la storia che non chiude, rischia di essere fonte di grande frustrazione per il lettore. Ora mi domando se nel tuo laboratorio stai lavorando a possibili soluzioni in questo senso.
AZ: Quando ho chiuso per la prima volta La bomba voyeur (che all’epoca aveva un altro titolo di lavoro: Gloryhole), nel 2015, ho pensato: non farò mai più una cosa del genere. Da allora ho cominciato a immaginare dispositivi narrativi in cui conflitti simili a quelli di cui si è fatta carico La bomba voyeur trovassero un luogo e un trattamento diversi: che si risolvessero in immagini e non in tirate speculative. Tuttavia, quando ho rivisto e corretto La bomba voyeur insieme ad Antonia Santopietro e Antonio Russo De Vivo di Literaria, quell’aspetto del libro (la storia che si rifiuta di chiudersi, che sfugge e si sottrae a sé stessa) è rimasto lì perché era il cuore stesso del testo. Da allora credo di aver imparato a differenziare: mentre nel primo romanzo c’era, in qualche modo, tutto dentro (il saggio, la poesia, la digressione romanzesca, le narrazioni conchiuse come forme brevi), ho cercato da allora di riconoscere e di dare a ogni spinta il suo elemento. Così ora mi trovo davanti tre progetti letterari: un libro di racconti già chiuso, in cui quell’aspetto di cui discutevamo (la storia che sfugge a sé stessa) è diventata sia riflessione formale sul racconto come forma letteraria, sia tratto caratteristico di molti dei personaggi (una pulsione di morte sfavillante); un romanzo, in lavorazione, in cui simboli, digressioni e fughe oniriche sostituiscono in parte la tensione speculativa che invece teneva insieme La bomba voyeur; e infine un libro di saggi il cui tema è proprio il limite del linguaggio e della rappresentazione. Differenziare e affinare il campo non credo voglia dire rinunciare alla complessità – vuol dire, al contrario, intrattenere una relazione diversa, forse più matura, forse più difficile, con la scrittura e in qualche modo con il lettore stesso. Se ne La bomba voyeur si ha l’impressione che la voce narrante goda a fare violenza al lettore, da qui in poi vorrei invece che la voce narrante si avvicinasse al lettore con più garbo, con un vassoio in mano, sul vassoio un bianco (o un bitter) e un tortino al salmone, e non è detto che nel cibo o nell’alcol (o in entrambi) non si nasconda una goccia di veleno.
Vorrei riuscire insomma a fare dell’ambiguità non il tema dichiarato e ostentato dalla voce narrante, ma il tessuto segreto e portante della narrazione. Questo vuol dire forse adeguarsi più intimamente alle necessità che le storie che vogliamo raccontare, e il linguaggio con cui le raccontiamo, portano dentro di sé come un codice – un codice che precede e supera chi scrive, e di sicuro supera e sfonda le categorie editoriali dentro le quali si tenta di forzare tanto la letteratura quanto l’esperienza di lettura.
Per tornare all’esperienza di lettore, ma dall’altro lato, io ho trovato entusiasmante una soluzione che hai trovato in Tu che eri ogni ragazza: è quello spazio sospeso in cui due personaggi, A e B, commentano gli eventi. Commentando gli eventi, A e B finiscono per moltiplicarli; moltiplicandoli rendono possibile il contagio tra i tre principali assi narrativi del tuo romanzo.
“A – La mia storia è migliore, il grado di pietà oggettiva è maggiore, muore una ragazza.
B – Anche qui muoiono, muoiono tutti.
A – Quando?
B – Nel seguito.
A – Non vale.
B – Stiamo a vedere.”
(p. 75)
Di questo peculiare processo che avviene all’interno del tuo libro ho già scritto: “Questa circolazione non avviene mai in modo letterale ed evidente: è un contagio metonimico; le varie storie del romanzo segretamente si appartengono; A e B non potrebbero fare altro che permettere tale contagio; allo stesso modo, nell’Edipo Re di Sofocle, Tiresia, interpellato da Edipo, non può fare altro che ribaltare l’asse della storia dal fuori (la ricerca di un colpevole per lo scoppio del morbo in città) al dentro (il passato di Edipo, la sua sciagura involontaria). Si tratta dunque di un’operazione consapevole di manipolazione di strutture narrative classiche in vista di un effetto che ha a che vedere con la molteplicità”.
Mi pare che lo spazio dentro cui si muovono A e B nel tuo romanzo sia molto vicino al Laboratorio di cui discutevamo sopra. Ritieni sia ancora importante, nei progetti narrativi in cui sei coinvolta ora, mostrare questo luogo all’interno del testo narrativo? O invece questo spazio ha preso ad assumere una funzione diversa e a parte, come una sorta di condizione necessaria del testo, posizionato prima e fuori da esso?
EC: In questo momento sto lavorando a due progetti molto diversi. Un thriller transumanista, scritto con Antonio Vena, che uscirà l’anno prossimo, non so ancora dire quando di preciso, ma per il quale abbiamo già firmato un contratto con Autori Riuniti. Io ho sempre letto e amato la narrativa di genere, è una forma di racconto della realtà e del contemporaneo potente, capace di raggiungere tanti lettori, ma è anche una forma di scrittura molto codificata, nella quale è possibile far uscire fuori la propria voce a patto che questa agisca in modo sotterraneo, senza intralciare altri meccanismi che devono entrare in azione, quello della paura, del mistero, del dilemma morale. In questo caso penso che la voce autoriale sia costretta a trovare il modo di essere discreta, perché non deve arrestare la macchina veloce, in questo caso vogliamo che sia velocissima, su cui sale il lettore quando comincia a leggere. Quindi per quello che riguarda il thriller no, non ci sarà una voce esterna al racconto, una voce dal laboratorio. Ma sto scrivendo anche un romanzo nel quale ho ragionato molto sul montaggio, la cosa che mi piace fare in assoluto è assemblare le parti e giocare, oltre che con la lingua, con la struttura. In questo romanzo sto cercando di costruire un mistero su un fatto di sangue, una domanda che viene a crearsi a partire dalla forma in cui questa storia viene alla luce. Il riferimento chiaro per me è “Citizen Kane” di Orson Welles, ma anche il modo in cui Joseph Leo Mankiewicz, qui come sceneggiatore ma poi ha fatto la stesa cosa nel suo “All About Eve”, costruiva le sue storie in cui nulla viene dichiarato dalla voce autoriale tranne un solo particolare, un segreto del quale i personaggi della storia non verranno mai messi a conoscenza, ma che verrà svelato allo spettatore. Ecco, per realizzare questo effetto serve qualcosa di esterno al racconto, invisibile ai personaggi ma non al pubblico o ai lettori della storia. La famosa sequenza in cui veniamo a sapere cosa è Rosebud, per intenderci. Vorrei ottenere lo stesso effetto giocando con le voci narranti e con la forma della storia.
Emanuela Cocco è autrice teatrale ha pubblicato e messo in scena diversi drammi e monologhi, tra questi: I ciechi (2013, Nerosubianco edizioni; monologo finalista a Per Voce Sola 2013) Le madri atroci (2012, Feltrinelli editore; audio dramma prodotto da Fonderia Mercury; scritto con Sandrone Dazieri) Nuovi consigli alla piccola Peyton ( 2011, audio dramma prodotto da M.I.L.K.) Con Arido amore, Piero Gobetti (2011, in collaborazione con il Centro Studi Piero Gobetti) Lulu, Ruud e le altre (2010, Nerosubianco edizioni; monologo vincitore di Per Voce Sola 2010) Quando hanno steso il vecchio (2009, Edizioni Corsare; monologo finalista “Bianca Maria Pirazzoli” Teatro Libero di Bologna) Nel giardino (2006, Borgia Editore; 2014, Scena Muta; monologo vincitore Donne e Teatro). Con la compagnia Franz BiberkOff Teatro ha messo in scena i suoi spettacoli, scritto e realizzato audio drammi e Reading- spettacolo sulla narrativa e la poesia del Novecento italiano. Ha lavorato come operatore in unità di strada in progetti dell’educativa minori e famiglia del privato sociale, riguardanti il disagio giovanile e le donne vittime di violenza domestica. È redattrice della rivista di drammaturgia “Perlascena”. Suoi racconti e saggi critici sono stati pubblicati sulle riviste “Script”, “Verde”, “L’irrequieto”, “CrapulaClub”, “Achab”, “Donne Difettose”. Ha partecipato alle raccolte “Le parole sono importanti” (DOTS Edizioni 2018.), “Vocabolario minimo delle parole inventate” (Wojtek, 2019). Tu che eri ogni ragazza (Wojtek 2019) è il suo primo romanzo.
Alfredo Zucchi (1983) ha vissuto, studiato e lavorato a Napoli, Bruxelles e Barcellona. Dal 2014 è a Vienna. Ha fondato e co-dirige il lit-blog CrapulaClub, è redattore della rivista Cattedrale. Suoi saggi, interviste, traduzioni, recensioni e finzioni sono apparsi su Doppiozero, Sotto il vulcano, The Catcher, Nazione Indiana, Critica Letteraria, Senz’audio, Zest Letteratura Sostenibile, Pagine Inattuali, Verde Rivista, Guida42 e Narrandom, I libri degli altri. Scrive di letteratura anche sul blog personale https://labombavoyeur.com/ Per CrapulaClub ha curato i sei numeri della rivista d’approfondimento Ô Metis; insieme a Luca Mignola, dossier di approfondimento intorno a Bolaño, a Ricardo Piglia, al racconto, e a Twin Peaks; e il numero due della rivista Guida42. Membro del Commando Interpolazioni. Nel 2010 ha scritto e messo in scena la pièce teatrale Mozart – tale of an expat presso il BOZAR di Bruxelles. Nello stesso anno ha vinto il premio internazionale per la narrativa breve a Sea of words. La bomba voyeur (Rogas Edizioni, 2018) è il suo primo romanzo.