Dal titolo del libro (L’invenzione della casa. Storia di una trappola – Primiceri 2018) ci colpiscono due parole “invenzione” e “trappola” entrambi riferiti alla “casa” il cui termine trova origine nel concetto di “luogo coperto e al riparo”, quando è diventato una trappola e perché?
Anche a me ha colpito molto scoprire che la casa non è, come avevo sempre pensato, e come immagino siamo abituati a pensare tutti, una di quelle categorie date, ovvie, quasi una caratteristica innata nell’uomo, un postulato, ma ha una data precisa in cui nasce, unendo in sé una serie di idee prima indipendenti fra loro. È solo una delle molte consapevolezze che derivano dal vedere la nostra storia di umani non più ridotta agli ultimi cinquemila anni, ma ampliata alla nostra effettiva comparsa come specie Homo Sapiens, una storia che ha almeno trecentomila anni. È la visione della Storia Profonda, come hanno cominciato a chiamarla in ambito storico. Da qualche anno la cosiddetta preistoria è oggetto di grande attenzione da parte di diverse discipline e si comincia ad avere la consapevolezza di quanto sia non solo riduttivo, ma profondamente sbagliato considerare la nostra storia solo dall’arrivo della scrittura. Questa nuova visione regala un’ottica completamente diversa su ogni ambito umano e anche l’abitare ne esce completamente cambiato. Per esempio, ci si rende conto che la casa come la intendiamo compare solo nel Neolitico, come l’avere e il capitale, si sviluppa imitando il modello del granaio e fin da subito ha il compito di conservare i beni. È la scelta della coltivazione che ha cambiato completamente il nostro modo di essere, abbiamo sempre vissuto con un modello di vita mobile, solo negli ultimi cinquemila anni ci siamo fermati, intrappolati in un tipo di vita che, biologicamente, non è il nostro. L’ipotesi, o forse la speranza, è che ci possa essere un superamento di questa condizione che è esattamente quella che ci ha portato alla crisi attuale.
Quali sono i riferimenti di pensiero a cui si ispira per le riflessioni che propone nel suo libro?
Questo libro nasce dall’intuizione espressa nel titolo, figlia di un mio lavoro del 2012, Il sentiero dell’architettura porta nella foresta, matura in passeggiate in Appennino con Matteo Meschiari e cresce innaffiato con generose dosi di Guinness nei pub modenesi e bolognesi. Ivan Illich mi è stato molto utile per la formazione del mio modo di vedere l’ecologia, in particolare l’atteggiamento che sta dietro alla frase “Essere in grado di celebrare il presente e di celebrarlo usandone il meno possibile, perché è bello e non perché è utile a salvare il mondo”, che equivale a quello della mistica tedesca del XII secolo Hildegard von Bingen: “Dio ha creato il mondo e io voglio goderne, senza recargli offesa”. Attraverso il pensiero di Illich diventa evidente come in tutte le società industriali lo sviluppo ha avuto lo stesso effetto: ognuno è inserito in una trama di dipendenza da prodotti e beni al cui bisogno viene costantemente educato. La dipendenza da merci ha sostituito la capacità di ideare e costruire le proprie soluzioni, è avvenuto un mutamento importante: sono cambiati i desideri, la libertà non è più desiderabile. Un altro riferimento importante per la riflessione sull’abitare è l’artista Friedensreich Hundertwasser: “Le persone dovrebbero avere il diritto di modificare le case in cui vivono, tanto all’interno quanto all’esterno. L’abitazione, questa terza pelle dell’uomo, dovrebbe evolversi, modificarsi, trasformarsi; ostacolare questo processo è un atto criminale tanto quanto ostacolare la crescita e lo sviluppo di un bambino.”
Sappiamo che la questione ambientale è quanto mai di attualità, in che modo possiamo ancora fare la nostra parte partendo appunto dal ripensare la casa?
Nella cultura ecologica negli ultimi vent’anni è avvenuta una drastica riduzione dei temi di lavoro e una progressiva identificazione delle istanze ecologiche con le esigenze della produzione industriale. Questo ha spendo la carica potenzialmente rivoluzionaria della visione ecologica. Il sistema industriale ha scelto, fra le molteplici attenzioni ecologiche, le uniche da cui era possibile trarre profitto e ha fatto scomparire le altre, cambiando di fatto il punto di partenza del pensiero ecologico, che oggi non è più lo sviluppo dell’uomo, ma lo sviluppo del sistema industriale. Da questa operazione di riduzione sono rimasti soltanto i concetti di risparmio energetico, riciclo e poco altro. Sono forme che non solo non intaccano il problema, ma lo incancreniscono. Come direbbe il mio amico Meschiari, è come chiedere a un ladro di rubare meno. Se davvero vuoi risolvere, ferma il ladro. Smetti di comprare se vuoi davvero risolvere il problema dei rifiuti, per esempio, visto che si è generato precisamente da un sistema che prevede di consumare le cose e gettarle. Questa ideologia, perché di questo si tratta, può avere una data di nascita, nel 1932 Earnest Elmo Calkins, uno dei primi pubblicitari della storia moderna, pubblica a New York Consumer Engineering: A New Technique for Prosperity, dove sostiene che “le merci si dividono in due classi: quelle che usiamo, come le automobili e i rasoi di sicurezza, e quelle che consumiamo, come il dentifricio e i biscotti. Il consumer engineering deve far sì che si arrivino a consumare le merci che ora ci limitiamo a usare.” Dopo cinquant’anni di questa ideologia il mondo è diventato un’immensa discarica e il sistema industriale cosa fa? Trova il modo di guadagnare anche sui rifiuti e che sia un business notevole lo dimostra l’interesse della criminalità organizzata che viene ribattezzata ecomafia, per la gioia di chi ama l’ecologia e vede associato il termine ormai solo a elementi negativi, immondizia, criminalità, ecomostri, e via discorrendo. Ormai la parola stessa ecologia è talmente inquinata che risulta inutilizzabile. La casa fa parte integrante di questa ideologia. È solo uscendone che potrà ritrovare una nuova vita.
In che modo ii concetti di “smart city” e “urbanità sostenibile” si coniugano con le esigenze abitative moderne?
Sono piuttosto diffidente nei confronti non solo di ogni tipo di etichetta, ma soprattutto verso chi insiste sulle soluzioni che riposano, letteralmente, sulla tecnologia, come vedo spesso in chi usa questi termini. Non solo sono evidentemente uno strascico del vetusto e già fallito pensiero positivista di fine Ottocento, ma penso che ogni insistenza sulla tecnologia sia un sintomo di impotenza. Non è il martello a risolvere i problemi, non è lo strumento, cioè la tecnologia, è chi lo usa e soprattutto come lo usa. Usiamo la tecnologia da quando, più di tre milioni di anni fa, abbiamo iniziato a produrre strumenti, è cosa fare che va approfondito. È proprio qui il punto. La formazione ultimamente tende a restituire solo tecnici, gente che sa come fare, come usare le tecnologie e più sono complesse, più si mette in secondo piano il cosa fare. È un po’ come se il cosa fare sia dato per scontato, lo si sa già, e coincide con l’unica ideologia rimasta viva, quella che si è formata nel Neolitico, si è rafforzata con l’industria nell’Ottocento e ora è l’unica rimasta, il vero pensiero unico. Ricerche come questa che ho cercato di portare avanti nel libro hanno come obiettivo dare altre direzioni, sono testi militanti.
Lei è un architetto, come valuta i disastri eco-ambientali (eco mostri, infrastrutture impattanti, edilizia selvaggia) che hanno caratterizzato gli anni della economia del consumo?
Sono tutti risultati dell’ideologia unica che sta alla base del sistema industriale che ha le sue radici nel cambiamento avvenuto con la sedentarizzazione o, come sarebbe più esatto dire, con l’addomesticamento di noi umani nel Neolitico. Quando a imperare è la logica dell’avere e non quella dell’essere, non si costruisce più per il benessere dell’uomo, ma per il guadagno di pochi. È nella seconda metà del Novecento che questa ideologia è diventata l’unica disponibile e ora è ipocrita stupirsi dei risultati.
Cosa ci si deve auspicare per il futuro, il suo libro suggerisce delle formule?
Non suggerisco formule, propongo una caccia. Propongo di smettere di dibatterci come pesci in un acquario cercando soluzioni all’interno del sistema che ha generato il problema. Suggerisco di uscire dall’acquario, toglierci il costume da consumatore e riprendere a camminare come uomini, propongo di vedere il periodo che va dal Neolitico a oggi come un lungo Medioevo da superare, e come dal Medioevo si è usciti riscoprendo la cultura classica, si può uscire dal Medioevo profondo riscoprendo la cultura paleolitica, di cui non restano che tracce, profumi, segni, indizi da cercare, da studiare, da interpretare, come in una caccia, appunto, perché da questa caccia dipende la nostra stessa sopravvivenza. Il Pleistocene non è né un passato nostalgico né un futuro distopico, è adesso.
Maurizio Corrado è architetto e scrittore. Si occupa di ecologia del progetto da metà anni Novanta. Ha lavorato per giornali e televisioni, organizzato mostre ed eventi culturali, diretto collane editoriali, riviste e pubblicato oltre venti libri di saggistica su design e architettura ecologica, alcuni tradotti in Francia e Spagna. Insegna alla Scuola di Architettura e Design dell’Università di Camerino, all’Accademia di Belle Arti di Bologna e di Verona. È membro dell’Osservatorio permanente del design di ADI.