Atlante Appennino, Un’ecobiografia.
Piano B Edizioni, 2024
Opera prima di Elisa Veronesi, narra l’interazione tra storie di vita e ambiente, e invita ciascuno di noi a rintracciare quali sono i legami e gli incontri con il mondo naturale che hanno segnato o che potrebbero segnare la propria esistenza. Atlante Appennino è un’opera ibrida, dove confluiscono narrazione, saggio, immagini e biografia, in una mappatura precaria e abbozzata di un territorio appenninico, esercitata attraverso l’utilizzo dell’ecobiografia, una pratica che Elisa Veronesi riprende dal filosofo francese Jean-Philippe Pierron.
Per concessione dell’editore e dell’autrice vi proponiamo la lettura di un estratto | tutti i diritti riservati
LA FORESTA
Sentieri profumati d’ombra e resina
scroscio di fiume che precipita
pastello verde
con tinte vive al sole
è l’Abetina.
Qualche macchia di sangue sulla neve,
lucide lagrime di stelle
cristallizzate
un silenzio che mormora
è l’Abetina.
Rara perla nel cuore di un poeta
che l’accarezza di sospiri,
lembo di sogni
e sogno di una strada
è l’Abetina.
Ralfo Monti, L’Abetina di Civago
La vita comincia con la clorofilla, il pigmento verde dei vegetali. Dato che non possono nutrirsi di sostanze inorganiche, le piante captano grazie ai grani di clorofilla contenuti nelle loro cellule l’energia solare, che permette loro di sintetizzare degli zuccheri. Durante questo processo chiamato fotosintesi, liberano dell’ossigeno, base di tutta la vita animale e umana. Con la fotosintesi, il nostro pianeta cambia volto: si veste di verde, e sulla terra come nel mare, la vita si sviluppa in tutta la sua pienezza.1
Nella foresta il sentiero sale tra gli alberi. Lo si intuisce appena, continuamente rinnovato da funghi, foglie e dai passi dei camminatori. Le piogge gonfiano il terreno, la neve lo ricopre nella stagione del freddo e il caldo dell’estate che si allunga, lo sbriciola a valle. Abeti altissimi vagabondano nella luce, mentre in basso i più piccoli vagano al buio in decenni di attesa. Qualche abete bianco secolare, relitto del grande freddo, si nasconde tra faggi, pini e abeti rossi e risale lento le terre alte.
Boschi e foreste risalgono piano ovunque. Fermarsi e provare ad ascoltare questa processione, udirne i tonfi: rami che si spezzano, tronchi che fracassano al suolo, radici che si attaccano al terreno, sforzi costanti alla ricerca del fresco, dell’acqua, della luce. Fusti esploratori indagano nuovi tracciati o, dove possibile, tornano a ricoprire campi e brughiere in abbandono. Nel mezzo a tutti i rumori che abitano il bosco, ascoltare questo brusio radicale in movimento: il canto di un codirosso intramezzato da lunghe pause e quello insistente, ciarliero, di un beccafico. Il mormorio del sottobosco è accompagnato dal passaggio improvviso di una libellula a indicare la presenza non lontana dell’acqua, dal ronzio di mosconi luminescenti e dal passo lesto del coleottero che scalcia su una corteccia. Al limitare superiore della fitta vegetazione, intanata in qualche angolo, un’arvicola delle nevi lavora senza sosta allo smaltimento di piante e mirtilli e si prepara a uscire dal suo spazio invernale.
Immersi nella moltitudine sonora e animata che risuona tra gli alberi, oggi è difficile immaginare che le prime foreste furono luoghi silenziosi. Paludi di lussureggiante vegetazione immersa nell’acqua, solo qualche libellula a ritmare il crescere quieto delle piante, pioniere fuoriuscite dal mare.
Si entra nella foresta accompagnati da un freddo improvviso. L’infittirsi della vegetazione consente un ribaltamento delle normali condizioni climatiche: il bosco rinfresca di giorno e scalda la notte. L’umidità si fissa alla pelle e per un attimo raffredda il corpo abituato al fuori. Il tempo di mettersi in cammino e subito il corpo si riscalda e l’umido si trasforma in minuscole goccioline di sudore che scorrono sulle mani e la fronte. Nelle foreste, come nel bosco, si ha l’impressione di entrare. Sembra che la parola foresta sia riconducibile al latino foris, foras, che vuol dire fuori. Foresta viene da fuori, è un luogo situato fuori dall’abitato, ma anche tenuto fuori dalla legge comune, la legge degli uomini. Nella foresta si entra e, allo stesso tempo, ci si ritrova nello spazio del fuori, si entra in questo spazio uscendo dallo spazio abitato degli uomini. Dalla stessa radice derivano anche: mettere fuori, bandire, e pure foresto, forestiero, qualcuno che viene da fuori. Forestare significa dunque mettere al bando, tenere fuori, ma anche mettere foresta. La foresta è tutto quello che abbiamo lasciato fuori, che abbiamo relegato in spazi precisi, che in generale sul continente europeo sono spazi non lontani dagli abitati, foreste in gran parte artificiali, a utilizzo degli uomini. E così è anche per una delle foreste che mi piace attraversare durante i miei rientri in Appennino, nelle mattine di fine aprile, o più tardi, in ottobre.
L’Abetina Reale è una foresta di conifere che si trova nell’Appennino Emiliano, più precisamente sul crinale dell’alta valle del Dolo, al confine con la Garfagnana. Ci si arriva dopo aver attraversato il paese di Civago e avere percorso via delle Forbici fino all’imbocco della strada carraia. La strada asfaltata entra nel bosco appena dopo il paese, un paese che si srotola lungo la via, stretto tra i boschi a sud e contornato a nord da campi ormai incolti e dalle dorsali rocciose del monte Penna e del monte Ravino. È una foresta che nel Quattrocento gli Estensi cominciarono a sfruttare per il legname, costruendo una segheria idraulica che oggi è rifugio per i camminatori. La foresta venne utilizzata fin oltre il secondo dopoguerra, si costruì una teleferica per il trasporto del legno e dopo secoli di abbattimenti l’abete bianco secolare si è ridotto drasticamente. Il bosco come spazio del fuori è quindi entrato nella società umana sotto forma di legname con il quale sono stati costruiti gli abitati ed è servito, perlomeno in Europa, a costruire la società stessa. Persino i nomi di alcune località di queste parti prendono il suffisso dall’essenza arborea che li attornia: Giandeto, Pineto, Castagneto, Cerreto. Ma non fu solo una questione di legname, il bosco dava anche da mangiare ai maiali e nel bosco nascono i metati per far seccare le castagne.
La domesticazione della natura arborea da parte dell’uomo in questo angolo di mondo non ha tuttavia cancellato quella netta impressione di entrare dentro, che si percepisce alla fine della strada asfaltata, quando si trasforma piano piano in sentiero. Un sentiero battuto, certo, visibile e segnato dai segni rossi e bianchi del CAI, ma pur sempre altro rispetto all’asfalto che siamo ormai abituati a percorrere in macchina e a percepire poco, seduti su sedili imbottiti piazzati sopra a strati di lamiera a loro volta montati su pneumatici concepiti per attutire le sconnessioni della carreggiata.
Nel sentiero si entra a piedi, con scarponi che fanno rumore, magari accompagnati da bacchette altrettanto rumorose, ma è pur sempre una postura più vicina al terreno, una postura verticale, che recupera un antico bipedismo, un certo grado di nomadismo. Se si prevede di restare là fuori, o là dentro, per almeno un’intera giornata, allora si è muniti di uno zaino, di provviste, magari si farà tappa in un rifugio, e si prevederà un cambio, una giacca, che in montagna il tempo cambia veloce, e in certe stagioni non è difficile imbattersi in acquazzoni improvvisi. Oltre al freddo percepito sulla pelle anche la luce indica un altro mutamento radicale. Entrare nel bosco è entrare in una sorta di buio. Le ombre che si disegnano lungo il cammino nelle diverse ore del giorno sono figure sempre nuove, incontri improvvisati e la sensazione di essere circondati da qualcosa di antico e vivo rende il camminare un’esperienza che si rinnova ad ogni variazione del sentiero. Il freddo, la luce e il silenzio. La salita ci obbliga a fermarci più volte, riprendere fiato, bere un po’ d’acqua, e questo fermarsi arresta i rumori prodotti dagli scarponi e dal nostro passo sempre troppo pesante. Dopo qualche chilometro, ancora i rumori della strada lontana – l’accelerazione di una moto, il rombo di una corriera che scala la marcia in un tornante – fino a che non si arriva in un qualche punto, un punto qualsiasi, nel quale i rumori si dissociano pian piano dalle attività dell’uomo che li produce per diventare solo suoni lontani, fino a cessare del tutto nel giro di qualche altro tratto di sentiero.
Trovarsi nel cuore della foresta è stato considerato, e lo è ancora, come qualcosa di molto speciale; qualcosa di radicalmente diverso dal semplice camminare lungo i suoi margini – o dal conoscere, o dal sentire, la direzione verso cui ci si dovrebbe dirigere per raggiungere il margine della foresta. (…) Ci giriamo dall’altra parte e vediamo foresta, foresta, foresta. La foresta pervade la mente – non sei più un soggetto e la foresta non è più un oggetto. Il dualismo è superato.2
E allora ci si ritrova, seppure in una foresta domesticata del sud Europa, in uno spazio che non saprei se definire il fuori, ma che è forse più appropriato chiamare, come fa Baptiste Morizot, riprendendo i cercatori di legna del Québec, uno spazio di inforestamento. Che è come quei cacciatori chiamavano il loro rientro nelle foreste dopo essere stati a commerciare in città. Inforestarsi3 è questo movimento grazie al quale non entriamo semplicemente in uno spazio, ma ne siamo investiti, è lo spazio che entra in noi e ci osserva, ci attraversa. Il movimento allora non è a senso unico, non siamo i soli ad attraversare la foresta, ma ne siamo, allo stesso tempo, attraversati.
Inforestarsi non esige per forza una foresta, ma semplicemente un altro rapporto ai territori viventi: il doppio movimento di attraversarli in un altro modo, collegandosi a loro attraverso altre forme di attenzione e altre pratiche; e di lasciarsi colonizzare da loro, lasciarsi investire, lasciarli accomodare dentro di noi.4
Entrare dentro lo spazio del fuori, con la consapevolezza della durata limitata e prossima alla domesticazione della nostra vita moderna, può ancora diventare un’esperienza preziosa che ci consente non tanto un allontanamento dalle attività degli uomini, quanto un avvicinamento ad attività più antiche, attraverso le quali ci siamo evoluti nel corso di milioni di anni e che solo le società recenti hanno relegato, prima a tratti e poi sempre più esclusivamente, in un immaginario fuori, separato dall’apparente comodità di spazi chiusi, puliti, dove solo pochissimi animali hanno avuto diritto di accesso. Nel corso di questa scissione i boschi hanno cominciato a popolarsi di creature misteriose, figure mitiche, potenti, che si caricavano di tutto quello che la civiltà non poteva più digerire e decise di relegare in un altrove lontano.
Creature come lo Sgnifro e l’Om Sarvadghe iniziarono ad aggirarsi tra boschi e foreste, nei quali, appena oltre il limitare, avevano luogo riti sciamanici e offerte. E così, mentre nella valle del Po si disboscavano le foreste e l’esercito romano occupava la pianura tracciando un confine immaginario ma persistente tra civilizzazione e selvaggio, l’Om Sarvadghe, che Boiardo e Ariosto mettevano in scena nei loro poemi, risale lento in Appenino, dove questo mito resisterà un po’ più a lungo.
In questo luogo è ancora possibile attraversare una foresta millenaria nella quale pare risuonare la storia profonda della grande foresta temperata che ha abitato l’Europa per oltre diecimila anni, e della quale si ritrovano tracce a millesettecento chilometri di distanza, nella Bialowieza. Risuona l’eco di tutte le foreste, una storia lunga oltre quattrocento milioni di anni e che ha cambiato completamente la superficie terrestre. Camminiamo su un terreno roccioso tenuto assieme da una moltitudine di radici intrecciate a filamenti di miceti, un terreno rinnovato da funghi, micro-organismi e tronchi caduti che ospitano insetti e vegetali che alimentano la pedosfera, un terreno attraversato da torrenti che si originano appena oltre il sentiero e scendono a valle, percorrendo l’Appennino.
In Europa l’area forestale è cresciuta di 17,5 milioni di ettari nell’ultimo quarto di secolo. L’Italia ha visto triplicare in un secolo la propria superficie boschiva; boschi e foreste continuano a ricoprire campi e aree agricole in disuso. Su queste superfici alberate si è generato nel tempo il così detto paradosso del fuoco. Se non si lascia spazio e tempo al fuoco di attraversare ciclicamente le foreste, l’accumulo di foglie secche, rami e detriti diviene un combustibile capace di alimentare fuochi difficili da gestire. Tra l’estate boreale del 2019 e l’estate australe del 2020, Siberia, Amazzonia, California e Australia bruciano. Ogni incendio ha peculiarità locali non riproducibili, se l’Amazzonia brucia per far posto a coltivazione di soia e altre piante da esportazione, in Grecia e Portogallo gli incendi sono stati difficilmente gestiti per mancanza di fondi e mezzi adeguati.
Se c’è una divulgazione di cui abbiamo bisogno è quella in grado di spiegare in maniera chiara e coinvolgente che cultura e natura, uomo e ambiente, crisi climatica e diritti umani sono in realtà due facce di uno stesso unico sistema. Che la resilienza del bosco è, anche, la nostra resilienza. Forse non è un caso che la parola “umano” derivi dal latino homo, dalla stessa radice di humus. Terra.5
1 Liberamente tradotto da Heidi Steiger, Mystères des plantes, Editions Mondo, 1990.
2 Arne Næss, Siamo l’aria che respiriamo. Saggi di ecologia profonda, Piano B Edizioni, 2021, p.81-83.
3 In italiano si ha il termine imboscarsi, comune riflessivo di imboscare, con il significato di “addentrarsi in un bosco, entrare nel fitto di una macchia per nascondersi: come lupo tacito s’imbosca Dopo occulto misfatto (T.Tasso); la lepre s’imboscò al sopraggiungere dei cani. Ma anche, mettersi in agguato in un bosco, e per estensione in altro luogo, per tendere un’imboscata: i briganti s’erano imboscati dietro le rocce; una piccola vanguardia di bravi era andata a imboscarsi in quel casolare diroccato (Manzoni)”. Vedi Treccani, imboscare in Vocabolario – Treccani. Il termine francese tuttavia, viene ripreso da Baptiste Morizot il quale lo ricerca e lo utilizza durante le sue ricerche sul pistage degli animali nel bosco e connota precisamente ciò che viene verso di noi e ci modifica quando entriamo in uno spazio come il bosco o la foresta.
4 Liberamente tradotto da Baptiste Morizot, Sur la piste animale, Babel Collection, Acte Sud, Arles, 2021, p. 25.
5 Giorgio Vacchiano, La resilienza del bosco, Milano, Mondadori, 2019, p.166.