Birra scura e cipolle dolci | John CHEEVER
Traduzione: Leonardo G. Luccone
Illustrazioni: Otto Gabos
Prefazione: Christian Raimo
Era impossibile stare con John Cheever per più di cinque minuti senza vedere qualche storia prendere forma: vecchi imbarazzi si intensificavano con straordinaria rapidità fino a diventare favole e, non appena faceva scorrere lo sguardo intorno a sé e strascicava poche parole sorprendentemente concentrate con quella sua voce rapida e educata, ciò che ti circondava prendeva a pulsare di magia. (John Updike)
John Cheever affermò che un semplice test per valutare la bontà di una narrazione fosse legato alla capacita di quest’ultima di suscitare interesse. Quell’interesse che «evoca suspense, coinvolgimento emotivo e una prolungata richiesta di attenzione».
Non viene predeterminato uno scopo, un tema da sviluppare, eppure le storie di Cheever custodiscono in profondità delle particelle di senso (convinzioni, osservazioni e riflessioni sul reale) che insieme all’intreccio trovano spazio e contribuiscono a dare corposità al racconto. Il feeling con il lettore si crea su una linea di partenza comune, quasi come se ci confrontasse in un ambito privato, confidenziale. In seguito lo scrittore mette in gioco la sua “professionalità”, la sua sensibilità, qualità che emergono senza forzature, incastonate in una frase, o come armonia che ammanta di sé personaggi e luoghi.
I racconti contenuti in Birra scura e cipolle dolci (antologia pubblicata da Racconti edizioni, traduzione a cura di Leonardo G. Luccone) permettono di fare la conoscenza con uno scrittore che percorre i suoi anni di formazione. A eccezione di L’opportunità (pubblicato nel 1949) sono racconti elaborati fra il 1931 (quando Cheever aveva 19 anni) e il 1942. Argomenti e ambientazioni sono perlopiù in relazione con i cambi di residenza a cui fu costretto durante gli anni della Grande depressione, che visse in condizioni di estrema povertà.
Cheever inizierà fin da allora a esplorare gli umori della strada, a plasmare il suo stile che si svilupperà pienamente a partire dagli anni Cinquanta e Sessanta. Descrive nelle sue storie gente semplice, che combatte contro i propri vizi, che lotta per affermarsi o rimanere a galla in una società in disfacimento sotto i colpi della crisi economica. Tratteggia personaggi in cammino, ripudiati o in cerca di occasioni migliori, che nel loro vagare attraversano cittadine termali, zone industriali in dismissione o quartieri portuali.
Una discreta parte dei racconti è ambientata in ippodromi di provincia, o comunque legata al mondo delle scommesse, dove peccato e redenzione si alternano in un susseguirsi di vincite memorabili e rovesci della fortuna. L’ippodromo rappresenta il microcosmo della precarietà, mentre in lontananza si percepisce l’esistenza della grande metropoli, ammaliante e allo stesso tempo imperfetta, dove ascesa e perdizione si incrociano con l’esattezza di una formula algebrica. La tranquillità economica, l’acquisizione del benessere, il riscatto sociale, sono le prospettive che accomunano i personaggi tratteggiati in Birra scura e cipolle dolci, uomini e donne fermi a un bivio che ambiscono a conquistare una quiete il più possibile duratura, che annulli le preoccupazioni presenti e che preservi dai cupi rimbombi del futuro.
Sorprende – anche in questi racconti giovanili – la capacità che ha lo scrittore americano di esplorare e descrivere l’animo umano, le risorse che gli sono proprie. I gesti consueti, la quotidianità, celano vibrazioni e scarti emotivi che innervano il “cuore” della narrazione. È sufficiente un dettaglio per far scaturire un’atmosfera di attesa, per far suscitare nel lettore interesse e immedesimazione. Scrive Christian Raimo nell’introduzione alla raccolta: “Cheever non è un narratore morale, non è interessato ai grandi conflitti tra bene e male. Ma piuttosto è un contemplatore, io lo definivo un «teologo della natura umana». Oserei di più, direi che Cheever è un teologo della natura in sé, e l’uomo è parte di quella natura. Davvero nulla di umano gli è alieno”.
I tredici racconti inseriti nella raccolta certificano il talento dello scrittore americano. A volte si riscontra in essi poca fluidità, un certo sentimentalismo straniante, l’impazienza nel voler giungere a uno svelamento finale, ma sono elementi di disturbo fisiologici in un normale processo di maturazione stilistica. Per contro emerge l’esattezza, il nitore delle frasi, la capacità nel rendere vivo il paesaggio, di delinearne le distanze, i cromatismi (anche emotivi) che obbediscono ai ritmi del tempo.
Amy avverte il ticchettio di ogni orologio, il gocciolio di ogni grondaia. Avverte i passaggi del giorno e della luce, mattina, pomeriggio, la confusione del crepuscolo, sera. Avverte la primavera e il volgere della stagione. C’è una rapida increspatura di verde tra i due orti, è il grano a modellarla. È un verde terribile, che è gocciolato sul paesaggio come acqua gelida. Il fiume è in piena. Le piogge martelleranno calde e amare sul tetto di lamiera. E lei tutto questo non può fermarlo. Ha mani scarnificate e nervose, che stridono di un’energia strana. Non può alzarle e far sì che il tempo si fermi e resti immutabile, per sempre inverno. Lei tutto questo non può fermarlo con le sue mani, così come non sarebbe in grado di arginare una cataratta o un’onda gigante.
Come tanti altri, in quegli anni, Cheever era incantato dallo stile di scrittura di Ernest Hemingway. Vedeva in lui un modello, un maestro da cui prendere esempio per approdare a un’elaborazione efficace della realtà. L’assimilazione dei principi emingwayani, legati in particolare a una certa sobrietà sintattica, lo portarono a imbrigliare, almeno in parte, il proprio immaginario, a depotenziare il proprio arsenale creativo.
In seguito (già a partire da Bayonne, La spogliarellista, La principessa, tutti pubblicati tra il 1936 e il 1937) Cheever giungerà a superare questa visione di una narrativa “in sottrazione”, permettendosi in tal modo di dare libero sfogo al suo istinto romantico, alla sua sensibilità nostalgica e al suo disincanto. Si pose così idealmente al fianco di un altro protagonista imprescindibile della letteratura statunitense, autore in grado come pochi di rivelare le specificità e le contraddizioni del suo tempo. “A poco a poco, l’ingrandimento stava diventando la chiave di quello che poi diventerà il suo stile. La sua solidarietà con il lettore diventa sempre più ampia, la sua voce narrativa più a suo agio e rilassata e meno distante nel tono. Questo processo di allargamento sboccerà alla fine in quel mondo fantastico popolato di miti che diventerà, quindici anni più tardi, la caratteristica narrativa «à la Cheever». E così l’irrequieto neofita dovette cercarsi un altro maestro di stile, e lo trovò in Francis Scott Fitzgerald”. (dalla postfazione di George W. Hunt S. J.)