Rubrica Budda nel bosco a cura di Tiziano Fratus*
Estratto da Shinrin nōto – Appunti dalla foresta. Un percorso zen per spiriti selvatici
Poesie di un venditore ambulante di tè
Gekkai Genshō (1675-1763), noto in vita col nome di Baisaō, è una figura ancora scarsamente nota in Italia, ma sono certo che lo attende una maggiore notorietà. Nonostante le sue scelte lo abbiano condotto al di fuori dei comportamenti consueti del proprio tempo, Baisaō è stato noto e rispettato, anzitutto a Kyōtō, la città nella quale vive quasi ininterrottamente dal 1735 alla morte, nell’estate del 1763, Natìo di un villaggio del sud, sull’isola di Kyūshū, Hasuike, non distante da Saga e Nagasaki, il suo nome di nascita è Kikusen Shibayama. Il padre muore quando il figlio ha nove anni, per ragioni non precisate il giovane entra nel tempio zen di Ryushin, retto dal maestro Kerin Dōryō, allievo del fondatore del lignaggio ōbaku, il cinese Ingen.
Nel 1696, a ventiquattro anni, Genshō si mette in viaggio per studiare in diversi templi, fino al 1723 quando muore la madre. L’anno successivo, a quarantanove anni, il monaco decide di abbandonare la vita comunitaria e si reca a Kyōto. Qui attua un’idea a cui sta pensando da tempo, alimentata da una passione che coltiva fin da ragazzo: il tè. Diventa baisaō, ovvero un venditore ambulante, figura abbastanza diffusa negli strati più umili della società giapponese, attività svolta da scansafatiche o persone che non hanno imparato un vero mestiere; spesso infatti si tratta di uomini di una certa età che si mettono a rivendere tè di scarsa qualità. Ma non è questo il caso di Genshō che invece conosce bene le diverse qualità, infatti frequenta alcuni dei più rinomati produttori, come è il caso di Sōen Nagatani (1681-1778), nel villaggio di Tōkei, nei pressi di Uji, dal quale apprende tecniche e novità; il monaco errante s’ingegna e offre un tè “nuovo”, il sancha, il tè verde ricavato dall’infusione delle foglie in acqua calda. Il tè che al tempo va per la maggiore, considerato la bevanda degli intellettuali e delle autorità religiose, è il matcha, che si ottiene mescolando una polvere di foglie triturate, secondo un procedimento particolare che richiede strumenti adeguati, spesso costosi. Ora, il fatto che un monaco vada in strada e venda il proprio tè alimenta una polemica, poiché ai monaci zen è proibito guadagnare dalle proprie attività, e infatti Genshō lo offre gratuitamente agli amici, ai conoscenti e ai passanti; chi vuole può donare delle monete, infilandole in due tubi di bambù. Molti lo sorseggiano senza versare alcunché, altri invece donano cibo o qualsiasi cosa possa essere utile.
Per vent’anni Baisaō occupa diversi posti in e attorno alla città, mosso dal desiderio di stare in località belle o panoramiche. Con sé ha sempre una grossa cesta che chiama senka, ovvero covo o tana dei saggi. Ci sono pervenuti dei disegni che rappresentano gli utensili che Baisaō si porta dietro: un bollitore, una teiera e alcune tazzine in ceramica, sullo stile delle stoviglie usate in Cina, che nelle principali città giapponesi vengono importate a partire dal XVI secolo. Un primo contatto era avvenuto grazie al maestro Eisai Myōan (1141-1251), che si era recato in Cina in due periodi, fra il 1169 e il 1191, tornando poi in Giappone per fondare il primo tempio zen di scuola rinzai, il Kennin-ji di Kyōto; il monaco porta anche un trattato dedicato al tè. I grandi templi del rinzai divengono anche scuole di studio dedicate alla cultura cinese e al tè, perfezionando le prime cerimonie con le consuete forme essenziali. Fra Cinquecento e Settecento infatti vengono tradotti in giapponese anche i testi basilari dedicati al tè, e viene perfezionata la chanoyu, la cerimonia del tè, con la nascita di case da tè di vario tipo e qualità. E nascono anche i giardini del tè, li descrive molto bene la studiosa Rossella Marangoni nel suo dizionario dedicato allo Zen: «Ispirato in origine al romitaggio di montagna, il giardino del tè è in genere costituito da uno spazio verde di piccole dimensioni in cui un sinuoso sentiero di pietra (tobiishi) reca allo chashitsu, il padiglione del tè, e il cui scopo è quello di infondere nell’ospite della cerimonia un sentimento di solitudine, di distacco dal mondo e di calma interiore. Le piante sono scelte con cura in funzione del fitto fogliame al fine di dare un’impressione di armonia, di rispetto, di purezza, di tranquillità (wa, kei, sei, jaku), secondo le regole dettate dal maestro Sen no Rikyu (1522-1591) e, soprattutto, un’idea di naturalezza accuratamente perseguita. […] Le regole di composizione […] prevedono la presenza di cancelli di bambù, padiglioni per il riposo dell’ospite (maichiai), una lanterna in pietra e, infine, una vasca in pietra (tsukubai) su cui è poggiato un mestolo in bambù dal lungo manico per la purificazione rituale.» Ecco i consigli che Sen no Rikyu dava per la scelta delle essenze botaniche: «Alla cerimonia del tè ben si adatta il pruno, il crisantemo d’inverno, le foglie gialle cadute, il bambù verde, i vecchi alberi e la brina all’alba.»
Ricordo il delizioso giardino da tè che c’è a Tokyo, nel cuore del Giardino Rikujien, dove ho sorseggiato il mio primo matcha in terra d’origine, in uno dei momenti più pacificati dell’intero viaggio in Giappone di cui ho scritto nelle prime selve di questo stesso libro. Poco importa che intorno vi crescesse una conurbazione urbana di circa quattordici milioni di abitanti!
Ma torniamo a Baisaō: molti artisti lo vanno a trovare con regolarità, talora per discorrere di letteratura e poesia, talora per vivere un’esperienza di contemplazione, non a caso lo studioso francese François Lachaud ha definito il nostro “un Socrate dell’estremo oriente”. Jozan, il samurai che si ritira nella sua casa di campagna per coltivare letture e scrittura, beveva sencha, così come i monaci nei templi del lignaggio ōtokan, tradizione nella quale Genshō si è formato.
Nel 1745, quando Baisaō compie settant’anni, rinuncia ai voti religiosi e adotta un nome laico, Kō Yūgai: Kō da kō-shi, uomo di alto pensiero, e Yūgai da vagare oltre il mondo, ossia colui che vaga nel mondo con un pensiero illuminato. Non proprio un nome modesto. Dieci anni più tardi, a causa della fragilità della condizione fisica, decide di smettere, brucia i suoi preziosi utensili e trascorre gli ultimi anni a comporre poesie e calligrafie, molto richieste, tanto che riesce a campare grazie alle donazioni. La poesia d’altronde lo accompagna per tutta la vita. Due sono le pubblicazioni: Baisanshū chafu ryaku (1748), ovvero Raccolta di documenti del tè dalla montagna dei pruni, e Baisaō gego (1863), Versi di un vecchio venditore di tè, che gli viene donato, poco prima di morire, dai suoi amici e ammiratori.
Fra i luoghi che Baisaō visita si annoverano: il Tōfuku-ji, fondato nel 1236 da Enni (Shōichi Kokushi, 12020-1280), uno dei primi monaci ad andare in Cina per ottenere il riconoscimento di un maestro e che al ritorno fonda un tempio, il primo dello zen a Kyōtō; il Monte Higashi, in uno spazio fra i pini e due templi che in seguito è stato spianato per fare spazio all’attuale giardino del Museo Nazionale; quindi la collina di Narabi, il bosco di Tadasu, ricco di criptomerie, aceri e querce secolari e dove fa molte camminate; il Rinsen-ji, di fronte al fiume Oi, il tempio fondato da Musō Sōseki, luogo nel quale partecipa alle celebrazioni dei quattrocento anni della morte del grande maestro. Trascorre gli ultimi anni nel villaggio di Shōgō-in, a Okazaki, a nord-est della città, occupando una stanza in un’abitazione prossima ad un tempio Tendai.
Al fondo di un autoritratto in versi, composto alla fine della sua vita, Baisaō si definisce «erede legittimo nel lignaggio ortodosso del maestro Lu T’ung e tramite della via zen della quarantacinquesima generazione dal Bodhidharma.» Lu T’ung o Lu Yu, vissuto nel Settimo secolo e morto nell’804, è stato un maestro ch’an cinese, autore del primo trattato sul tema, il Cha-ching o Classico del Tè. Da allora, per i saggi, il sancha è la bevanda che facilita l’illuminazione. Il senchado, la via del tè, è quella di cui Baisaō si sente discepolo per tutta la vita.
Ecco una scelta delle sue poesie che ho tradotto, come consueto, dalla versione inglese, che potete rintracciare nel volume Baisaō. The old tea seller, a cura di Norman Waddell.
I.
Sono vecchio, pelle e ossa,
voi siete la mia ciotola da mendicante,
il mio vivere e il mio morire
dipende da voi solamente.
II.
Sono andato stamane
in centro città
immerso a fondo nella polvere del mondo
ma libero dai legacci terrestri.
Ho lavato la mia veste e la ciotola
nel fiume Kamo.
La luna un disco perfetto,
che increspa una mente acquatica.
III.
Scegliendo come casa le vie affollate
proprio accanto al cuore delle cose,
solo un amico può condividere la povertà,
questo bastone scheletrico e legnoso.
Conoscendo le strade del silenzio
dentro il chiasso della vita di città,
ricevo la vita così come viene
e chiunque io sia è reale.
IV.
Montata la bancarella questa volta
sull’argine del fiume Kamo
gli acquirenti siedono e svogliatamente
discutono su chi sia oste e chi sia ospite.
Bevono una tazza di tè
e il loro lungo sonno ha fine,
risvegliandosi realizzano
che sono gli stessi di prima.
V.
I pini si stagliano fra le nuvole
dritti nel cielo azzurro,
siepi di trifoglio scintillano di rugiada,
ondeggiano nella brezza autunnale;
mentre mi immergo nell’acqua fresca
sulla riva del fiume,
una gru bianca e solitaria
viene saltellando verso di me.
Tiziano Fratus abita in una piccola casa ai margini del bosco, medita, legge, scrive e ascolta la natura. Nel suo peregrinare ha esplorato le foreste maestose per cucire i capitoli di una storia umana, arborea e spirituale e ha coniato concetti quali Homo Radix, Dendrosofia e Bosco itinerante. In California ha perlustrato i più vasti, alti e annosi alberi del pianeta, in Giappone ha visitato templi, canfori millenari e isole-foresta, in Italia incontra i patriarchi vegetali presenti nelle città, nei boschi, nelle riserve, sulle montagne e nei giardini storici. In vent’anni di scrittura e labòrio ha composto silvari, collezioni di alberografie, quaderni di meditazione, raccolte di poesie, romanzi forestali e fiabelve gotiche. Fra le sue opere si ricorda Giona delle sequoie (Bompiani). Sito: Studiohomoradix.com