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Rubrica: Buddha nel bosco 

estratto da Il tessitore di foreste,
già Shinrin nōto (Edizioni dell’eremo, 2021)

Piccola bussola per orientarsi nel buddismo zen
Tiziano Fratus

Quando siedo per meditare in bosco, quando incontro un grande albero secolare contro il quale mi appoggio, oppure quando mi inchino in studio, alla mia sequoia-Buddha, mi ripeto mentalmente una formula: «Dammi la forza di trarre nutrimento e di coltivare i quattro voti» che Sakyamuni fece e che ogni buddista ripete quotidianamente. Nel tempo mi sono leggermente distaccato dalle formule classiche e che si ritrovano sui libri, li ho personalizzati:

Gli esseri viventi sono innumerevoli,
faccio voto di rispettarli e proteggerli.
A questo mondo le brame sono inesauribili,
faccio voto di respirgerle e sradicarle.
In vita gli insegnamenti sono infiniti,
faccio voto di cercare di capirli e apprenderli.
Il sentiero del Buddha è lungo, faticoso
e periglioso, faccio voto di percorrerlo.

Zen. Buddha (con o senza acca). Satori. Illuminazione. Zazen. Meditazione seduta. Meditazione camminata. Tempio. Vuoto. Mu. Sangha. Ritiro spirituale. Maestro. Scuola. Eremita. Pace interiore. Dharma. Via. La Via. Discepoli. Allievo. Montagna. Cos’altro? Giappone. Cina. Haiku. Zenzen. Gozen. Dōgen. Rinzai. Tōkyō, Kyōto, Osaka, Nara. Kamakura. Nichiren. Sutra. Kōan. Mondo. Monaco. Punto. Queste sono alcune delle parole che conosciamo e che utilizzeremo nel caso in cui qualcuno ci domandasse: che cos’è lo zen? Sai che cos’è il buddismo zen? Che cosa ne sai dello zen? Potremmo integrare forse con termini quali spiritualità, religione, visione della vita. Esistenza contemplativa. Avendo letto non pochi volumi dedicati al buddismo e al buddismo zen, credo di aver capito che esiste un modo didattico, didascalico, di scriverne, da studiosi, anzitutto. Non pochi maestri, soprattutto in tempi a noi prossimi, sono stati e sono ancora dei cultori della storia dello zen, conoscendone episodi, biografie, opere, aneddoti riguardanti i patriarchi del passato. Eppure, come ricordava lo studioso americano Reginald Horace Blyth (1898-1963), la storia dello zen è la storia di momenti, non è una storia di idee, uno sviluppo di pensieri da sistematizzare e decifrare; ogni volta, ad ogni maestro, ed in ogni tempio o ogni scuola, tutto pare approfondirsi, la pratica, le idee, la comunità, la trasmissione. Ogni volta è un salto, una danza unica, una sinfonia che non sarà mai ripetuta uguale a se stessa. Nello zen non esiste progresso, si medita e ci si applica per vivere nel presente e quindi ogni maestro, ogni insegnamento, ogni tempio, addirittura ogni scuola, è un atto unico.

Secondo Sheng Yen (1931-2009), guida del Ch’an Meditation Center di New York e autore di molti libri, lo zen «è ineffabile», sfugge a qualsiasi definizione. Eihei Dōgen, fondatore della scuola Sōtō Zen, la più diffusa oggi in Giappone e in Europa, nel capitolo Menju, Trasmissione diretta, del suo capolavoro filosofico dal titolo Shōbōgenzō, ovvero Tesoro dell’occhio della vera legge o del vero Dharma, scrive: «Come l’acqua che fluisce da molti luoghi diversi a formare un fiume, similmente i numerosi rami della Via del Buddha fluiscono verso la Legge. C’è una perenne eredità che mantiene la lampada della trasmissione eternamente accesa e chi trasmette è diverso solo nella forma, non nell’essenza» (traduzione del monaco Sergio Oriani).

Thomas Merton (1915-1968), il noto poeta, filosofo, conferenziere e padre trappista, ha dedicato un saggio di grande profondità allo zen, fin dal titolo manifesta la sua grazia, il suo tocco preciso e leggero: Zen and the Birds of Appetite, ovvero Lo zen e gli uccelli rapaci. Ecco come cerca di far quadrare il cerchio di un’eventuale definizione dello zen. Una carogna putrescente e uccelli che volteggiano in cielo. C’è chi inizia un percorso spirituale per ottenere qualcosa – potere, posizione, lustro, la vita eterna, piccole inezie del genere – e così si librano in cielo i rapaci. «Lo zen non arricchisce nessuno. Non c’è alcun cadavere da trovare. Sul luogo in cui si crede che vi sia, gli uccelli vengono per un po’ a volteggiare. Ma presto volano altrove. Quando se ne sono andati, il “nulla”, “nessun corpo” era lì, tutt’a un tratto appare lo zen: era stato sempre lì, ma gl’insetti non l’avevano toccato perché non era il loro genere di preda.»

Alan Watts (1915-1973), divulgatore delle pratiche spirituali asiatiche in Nord America, ha composto uno dei testi più letti, nel corso degli ultimi sessant’anni: The Way of Zen, La via dello zen, uscito nel 1957 e tutt’ora ristampato in molte lingue. Al principio del primo capitolo leggiamo: «Il buddismo zen è una pratica e una visione della vita che non appartengono a nessuna categoria formale del moderno pensiero occidentale. Non è religione o filosofia; non è una psicologia o un tipo di scienza. È un esempio che è noto in India e in Cina come una “via di liberazione”, ed è analogo sotto questo riguardo al taoismo, al vedanta e allo yoga. Come sarà presto evidente, una via di liberazione non può avere nessuna definizione positiva. Dev’essere suggerita dicendo ciò che essa non è, un po’ come uno scultore rivela una figura rimuovendo le schegge da un blocco.» Oggi molti studiosi e maestri criticano la versione personale che Watts ha dato dello zen, soffermandosi soprattutto sulla diffusione che ebbe nella generazione dei figli dei fiori e degli hippy in Nordamerica, di cui però non può essere considerato responsabile Watts che, non scordiamolo, da ragazzo è stato allievo di Sokei-an, come vedremo il fondatore del primo centro di pratuica zen a New York, e amico di molti altri maestri zen; e infatti l’immagine dello scultore che sbozza è corretta e ci verrà in soccorso più volte.

Terminerei questa piccola rassegna di tentativi di dare forma a ciò che una forma non può avere, a quel ne ha detto un monaco tailandese, Buddhadasa (1906-1993, il nome vuol dire Servo del Buddha): così come l’albero della Bodhi – l’illuminazione – il ficus sotto il quale il Buddha raggiunse la liberazione, la chiarezza, la profonda consapevolezza, è cavo, altrettanto il buddismo ha centro nella dottrina della vacuità, nel vivere con mente vuota, sgombra, in assenza di quell’ego a cui noi siamo doppiamente legati.

L’arrivo del buddismo in Giappone viene storicamente datato 552, quando una delegazione coreana in visita alla corte dell’imperatore Kinmei (509-571), dona una statua di Buddha e alcuni sutra in lingua cinese. Alcuni decenni dopo l’imperatrice Suiko (592-628), il Principe Shōtōku (574-622) e l’imperatore Shōmu (701-756) apportano riforme essenziali: adottano una amministrazione burocratica su modello cinese che coordina i territori provinciali ad un governo centrale, accettano i caratteri della scrittura cinese e fondano i primi templi buddisti. Nara, o Heijōkyō, diventa nel 710 la prima capitale – lo resterà fino al 795 quando si sposta a Kyōto – viene eretto il Tōdai-ji, realizzato fra il 738 ed il 752, che ospita Dai Butsu, il Grande Buddha, la prima statua dedicata in Giappone a questa figura leggendaria: era alta sedici metri e custodita nella più vasta costruzione lignea al tempo del mondo. All’interno dei nuovi palazzi trovano spazio anche i capostipiti di sei “sette” o “scuole” buddiste. Ne scrivono in dettaglio Daigan e Alicia Matsunaga, professori e direttori di centri di studi a Tokyo e Hokkaido, nel loro saggio storico Fondazione del buddismo giapponese (1974-76, Foundation of Japanese Buddhism), disponibile purtroppo soltanto in lingua inglese. Le sette si chiamavano Kucha, Jōjitsu, Ritsu, Sanron, Hossō e Kegon. «L’importazione di queste sei sette introdusse improvvisamente fra i giapponesi gli sviluppi di oltre mille anni di buddismo in India e Cina […] Sotto il manto delle sei sette di Nara, i semi del buddismo Tendai, Shingon, Zen, Terra Pura e Nichiren vengono impiantati in embrione e preservati fino a quando sarà maturo il tempo nella società», ovvero fino all’epoca della nascita delle grandi scuole del buddismo nipponico, il periodo Kamakura (1192-1333). Esistono diversi saggi esplorativi dedicati a questo periodo, vi segnalo Re-visioning Kamakura Buddhism, a cura di Richard K. Payne (1998), professore a Berkeley.

Nell’804 l’imperatore Kanmu (735-806) organizza una spedizione in Cina, due navi con a bordo commercianti, ambasciatori e uomini di cultura, fra i quali due monaci, Saichō o Dengyō Daishi (767-822) e Kūkai o Kōbō Daishi (774-835), sbarcano nel porto di Ningbo; i due monaci incontrerano maestri e porteranno in Giappone testi e riti sui quali fonderanno le rispettive scuole buddiste: la Tendai, basata soprattutto sullo studio dei sutra, e la Shingon, al contrario esoterica. A queste si aggiunge la scuola della Terra Pura, importata nel dodicesimo secolo da Hōnen (1133-1212) e propagata dall’allievo Shinran (1173-1263), che promette una sorta di neoparadiso oltre la vita, la Terra Pura per l’appunto, religione che diventa molto popolare fra i ceti meno abbienti.

C’è una minima storia che mi piace condividere che riguarda il primo monaco zen del Giappone. Non un grande maestro fondatore di templi, circondato da truppe di seguaci laici e religiosi, tantomeno generatore di grandi opere scritte e ripetute di millennio in millennio. Al contrario è una figura quasi epica e leggendaria. Si chiamava Kakua, nasce nel 1142 e a trent’anni si reca in Cina per apprendere il buddismo; nel 1175 rientra e l’imperatore del tempo lo chiama a corte. Egli ci va e si siede al suo cospetto, l’imperatore chiede Che cosa ha imparato dai maestri cinesi? Kakua rovista nel suo abito e ne estrae un flauto, lo suona emettendo una nota soltanto. E tace. Mette via il flauto, si inchina ed esce da palazzo. Nessuno lo vedrà più. Si crede che sia andato a meditare fra le montagne ma non si conoscono eventuali eredi, tantomeno l’anno di morte. Un singolo gesto e via.

Negli anni successivi diversi monaci giapponesi s’imbarcano per il continente dove studiano, apprendono, ricevono l’ordinazione e rientrano fondando scuole e templi. Eccezione a questa regola è rappresentata da Dainichibo Nōnin, vissuto nella seconda metà del XII secolo, che studia i testi cinesi per proprio conto, inizia a praticare e manda nel 1189 due allievi in Cina per chiedere il riconoscimento della sua illuminazione. Un maestro accetta ma la sua nascente e prima scuola zen nipponica, la Daruma-shū – Daruma è il nome giapponese di Bodhidharma – viene aspramente contrastata dalle altre scuole buddiste, è quindi obbligata a chiudere. Alcuni seguaci continuano a ritrovarsi, anche dopo la morte del maestro, avvenuta probabilmente intorno al 1194, e confluiscono in seguito nella comunità di Dōgen.

Eisai Myōan o Yōsai (1141-1215) è considerato il primo vero divulgatore dello zen in Giappone, è il fondatore della scuola Rinzai. Compie due viaggi in Cina dai quali riporta esperienza – ordinazione da monaco e sigillo del Dharma – e molti testi. Ripropone nei templi della scuola Tendai dove si è formato lo studio del Sutra del Loto e soprattutto introduce lo zazen, così come lo aveva appreso in Cina, quanto l’uso del te quale bevanda che concilia la meditazione. Nel 1199 fonda a Kamakura il tempio Jufuku-ji e nel 1202 a Kyōto il Kennin-ji, il primo tempio zen nella capitale.

Seguono Ryonen Myōzen (1184-1225) ed Eihei Dōgen (1200-1253), il primo purtroppo muore in Cina durante il suo addestramento e il secondo, l’allievo, invece rientra e fonda la scuola Sōtō. Ora, in questi primi casi la storia purtroppo ci insegna che in un paese storicamente ripiegato su se stesso come il Giappone, le prime volte e i primi tentativi incontrano spesso tragici sviluppi, e infatti la scuola fondata da Nōnin viene sciolta per le pressioni di altre scuole buddiste in seno all’imperatore, o meglio viene brutalmente sciolta, il tempio dato alle fiamme, ma una parte dei seguaci continua a ritrovarsi e praticare anche dopo la morte del maestro, sebbene in clandestinità, fino alla confluenza con la nascente comunità di Dōgen, il quale rientrato dal Giappone incontra le sue difficoltà a fondare una via autonoma, opera incerta finché non trova un eremo a Echizen, ovvero distante da Kyōto e dalle sedi delle altre scuole, sotto la tutela di un signore locale che lo protegge e finanzia la trasformazione del suo eremo in monastero. E non dimentichiamo il trattamento violento, barbaro, che i cristiani ricevettero a queste latitudini.

Non tutti gli studiosi sono concordi su questa ricostruzione temporale. Ad esempio Daigan ed Alicia Matsunaga sottolineano che già nella scuola Tendai si pratica una forma di meditazione molto simile alla meditazione zen, poiché il maestro del fondatore Saichō, Gyōhyō (722-797), era stato allievo del cinese Dao-xuan (702-760), noto in Giappone col nome di Dōsen, che aveva appreso le tecniche del ch’an, trasmettendole ai discepoli. Saichō diventa monaco nel 786 e si ritira in un eremo sul Monte Hiei, a nord di Kyōto dove, di ritorno dal viaggio in Cina, fonda la sua scuola.

Nei primi duecentocinquat’anni del nuovo millennio, in cui lo zen mette piede e inizia a strutturarsi, sorgono anche altre scuole che arriveranno a noi: Terra Pura e i seguaci del loto di Nichiren. Le diverse sette del buddismo della Terra Pura, il cui fondatore è Ryōnin (1072-1132), sperimenta in meditazione l’illuminazione, esattamente il quindicesimo giorno del quinto mese del 1117, all’età di 46 anni, quando il dio Amida gli appare e gli rivela il pensiero che diventerà l’essenza della scuola. Sì, quando noi ne leggiamo possiamo alzare sopracciglia e spalle, viviamo d’altronde un’epoca di scetticismi vasti e radicati.

Nichiren (1222) studia nei monasteri di montagna della Terra Pura e Tendai, poi si sposta a Kamakura dove studia le caratteristiche delle diverse scuole, arrivansdo alla conclusione che il vero buddismo dovesse essere soltanto uno e fondato su dei sutra appartenenti alla tradizione. Quando torna, nel 1242, sul monte Hiei. Decide che quest’unica via è la scuola Tendai, che pone al centro gli insegnamenti del Sutra del Loto. Torna fra la gente e si stabilisce in una capanna nella periferia di Kamakura, parte che predichi in strada – ma è un dato messo in discussione dagli storici – e tiene incontri nella abitazioni di laici e in spazi pubblici. Ninchiren recupera un legame profondo con la fondazione del buddismo in India, preferendole a tutte le credenze successive di matrice cinese. Lo sviluppo della scuola sarà pooi assicurato dai sei discepoli – curiosamente tutti iniziano con la lettera n: Nikkō, Nikkō (ma è un altro), Nisshō, Nichirō, Nichiji e Nitchō – che il maestro elegge durante la sua vita.

La quantità di opere disponibili, tradotte in uno scrupoloso italiano, quanto nelle lingue originali, sono un tesoro inestimabile. Le parole – i dialoghi, le trascrizioni, i pensieri – di maestri quali Dōgen e Linji, Huang Po e Bassui, Bankei e Keizan, Sawaki e gli altri “risvegliati”, coloro che la tradizione buddista indica come i Patriarchi sono un dono talmente vasto da provocare vertigine. Per anni la parola patriarca mi indicava, unicamente, il grande albero, ora ha assunto una dolce ambivalenza. Abbiamo dunque una fortuna sfacciata a vivere in questo tempo, per quanto, come ogni tempo, precario, rissoso e rischioso. Mai così tanti libri, mai così tanta saggezza è stata a disposizione, liberamente, per chi ne voglia fare conoscenza ed esperienza. Di tutto questo bisogna pur essere grati.

Nella vastità di pubblicazioni disponibili segnalerei alcuni libri che potreste offrirvi quali antipasto: anzitutto Taisen Deshimaru, Il vero zen (SE Studio Editoriale, circola anche un’edizione Mondadori). Quindi due francesi: l’ingegnoso e poetico Erik Sablé (1949), autore del Dizionario del buddismo zen (Il melangolo), e Jacques Brosse – lo abbiamo sfiorato nell’introduzione – storico, botanico, filosofo, accademico di Francia, nonché allievo di Deshimaru che lo ordina monaco zen nel 1975, e padre di volumi quali Zen e Occidente (circolano due edizioni italiane, Pisani e Lindau) e I maestri zen (Borla). Alfine uno dei classici che abbiamo già incontrato, La via dello zen (Feltrinelli) di Alan Watts.


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Tiziano Fratus abita in una piccola casa ai margini del bosco, medita, legge, scrive e ascolta la natura. Nel suo peregrinare ha esplorato le foreste maestose per cucire i capitoli di una storia umana, arborea e spirituale e ha coniato concetti quali Homo Radix, Dendrosofia e Bosco itinerante. In California ha perlustrato i più vasti, alti e annosi alberi del pianeta, in Giappone ha visitato templi, canfori millenari e isole-foresta, in Italia incontra i patriarchi vegetali presenti nelle città, nei boschi, nelle riserve, sulle montagne e nei giardini storici. In vent’anni di scrittura e labòrio ha composto silvari, collezioni di alberografie, quaderni di meditazione, raccolte di poesie, romanzi forestali e fiabelve gotiche. Fra le sue opere si ricorda Giona delle sequoie (Bompiani). Sito: Studiohomoradix.com

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