Se ne avessi l’opportunità costringerei i cittadini italiani prossimi alla maggiore età nel sostenere un ulteriore esame obbligatorio, un questionario ampio, un po’ come si usa attualmente negli esami di maturità. La chiamerei “prova di inserimento alla nazionalità”, esigerei dai futuri cittadini una preparazione elevata e come argomento unico sceglierei i romanzi di Leonardo Sciascia. Pur di realizzare il progetto sarei disposto a ridurre la prova a tre romanzi: Il giorno della civetta, A ciascuno il suo, Todo Modo, opere necessarie per rintracciare una linea invalicabile tra luce e ombra, per separare i Capitano Bellosi, Rosa Nicolosi, Paolo Laurana dai Don Mariano Arena, l’Avvocato Rosello, Luisa Roscio, Don Gaetano e il Presidente. Il candidato dovrebbe compenetrare lo sguardo inquisitorio di Sciascia avvalendosi, inoltre, dei film di Elio Petri e Damiano Damiani e delle personificazioni di Gian Maria Volonté, Marcello Mastroianni, Claudia Cardinale e Mariangela Melato. Eroi di cellulosa nati sulla carta, editi e proiettati tra il 1966 e il 1976, un decennio problematico per il Mondo, l’Italia, il Mezzogiorno e dintorni. Due lustri che aprono le crepe di una nazione malamente puntellata, attanagliata dalla ricerca di appigli, appoggi, compromessi. Chi tenta di resistere ai morsi della fame, chi si abbandona alla sete di potere, chi vorrebbe proteggere ideali che neppure il sole di Sicilia riesce ad illuminare. «L’Italia intera è fatta di tanti personaggi simpatici cui bisognerebbe tagliare la testa», così sì legge in A ciascuno il suo, romanzo dal titolo evocativo, precetto preso del diritto romano, risalente dal latino unicuique suum, ossia “dare a ciascuno il suo”. Lo apprende lo sfortunato Paolo Laurana sollevando un frammento di lettera anonima, ma per comprendere se risulti una minaccia oppure un avvertimento servono ulteriori indicazioni fornite, forse, da Todo modo, titolo strappato dagli esercizi spirituali di Ignazio di Loyola. «Todo modo para buscar la voluntad divina» o meglio «Ogni mezzo per cercare la volontà divina» recita integralmente il verso gesuita. Non si direbbe una minaccia, tantomeno un avvertimento, bensì qualcosa di peggiore, un giuramento estremo, un atto di fede in cui tutto è lecito in nome di un’Idea.
All’interno del romanzo si registrano discorsi pericolosi, sudditanze sanguinose, nevrosi di spietati regolatori di un tessuto sociale reso asfittico. Uno scenario spettrale dove non vince la giustizia, ma trionfa una legge occulta, applicata per interesse e nel quale regna una mostruosa illusione. Ciò che appare non corrisponde al vero e conferma un dilemma echeggiante fin da Il giorno della civetta: «La verità è nel fondo di un pozzo: lei guarda in un pozzo e vede il sole o la luna; ma se si butta giù non c’è più né sole né luna, c’è la verità». La linea che divide il genere umano viene tracciata, la penna scruta un popolo abituato a un sistema corrotto, figlio di uno Stato più assente di un padre snaturato. Il malcostume blocca gli arti, paralizza i movimenti e si avviluppa come un serpente, l’animale che tradisce con la lingua e strozza con la spira. Davanti alle connivenze, alle ingiustizie, agli omicidi, ai crimini; agli abusi che affollano la terra sicula e le mura dell’Eremo di Zafer, al lettore non è concesso voltare la testa, deve vedere, ascoltare, confrontarsi. L’autore di Racalmuto non si mette alla lavagna per scrivere i buoni e i cattivi, ma lascia al pubblico l’onere e la responsabilità di scegliere. Con spirito critico squadra i vizi di un vassallaggio dispotico, abbrutito da logiche che frammentano la realtà e l’animo umano. Esistono zone di luce e di ombra, non semplicemente i buoni o i cattivi, ed è la sprezzante bocca di Don Mariano a dichiararlo: «esistono gli uomini, i mezz’uomini, gli ominicchi, i pigliainculo e i quaquaraquà».
La suddivisione si complica, viene chiamata in causa l’Etica, la branca filosofica che studia i fondamenti razionali, il comportamento individuale. Ogni cittadino, ogni essere umano si rapporta quotidianamente con essa, dunque sceglie se proteggerla o violarla, e sono proprio gli effetti delle varietà deontologiche ad attrarre Sciascia. Gli affiliati a un’etica corrotta, sciaguratamente, sovrabbondano, sopravvivono sereni e invisibili, trincerati dentro meccanismi che tutelano il Potere, la Rispettabilità, il Denaro.
«La beffa più grande che il diavolo abbia mai fatto è stato convincere il mondo che lui non esiste» potrebbe sembrare una frase di Sciascia, eppure la recita Kevin Spacey in I soliti sospetti , un film lontano migliaia di chilometri dal suolo italiano. Dentro la battuta hollywoodiana, tuttavia, si può ben ritrovare lo sforzo delle scrittura coraggiosa di Leonardo Sciascia, una fatica letteraria tutta finalizzata a smascherare l’esistenza del demonio, una temerarietà artistica inossidabile pure davanti a interrogativi preoccupanti, come quello sputato ancora da Kevin Spacey: «Come si fa a sparare al diavolo e se sbagli?». Un dubbio che nel corso dell’intera carriera non avrà risparmiato nemmeno il temerario Sciascia il quale, senza spavento, spara al diavolo ovunque lo veda apparire. Leggere i romanzi dello scrittore scoperto dall’Einaudi, innamorato di Pirandello e della politica, permette di assistere alla creazione di una ragnatela, all’intreccio di linee dalle forme particolari. Una prosa in equilibrio tra senso civico e letterario, una scrittura senza attenuanti, dove l’accusa viene scagliata sebbene il gigante sia immensamente grande per poter essere catturato.
Per questo motivo, non l’unico, Leonardo Sciascia meriterebbe di diventare “prova di inserimento alla nazionalità”, perché le capacità di gridare al complotto, di segnare i fatti, di allenare la memoria, scoperchiare il vaso di Pandora e non concedere sconti dovrebbero diventare qualità indispensabili anche dei futuri cittadini italici. Studiando certi romanzi si scoprirebbero ataviche incapacità, antichi ricatti e pessime abitudini di una Penisola che avrebbe potuto essere molto meno stagnante, una terra abituata a criminalizzare i deboli poggiandosi sul meschino adagio: «tutti colpevoli, tutti assolti». Sciascia non la pensa affatto così e in Il Candido ovvero un sogno fatto in Sicilia la presa di posizione appare incontrovertibile: «Tutto quello che vogliamo combattere fuori di noi è dentro di noi; e dentro di noi bisogna prima cercarlo e combatterlo», bisogna partire da dentro per cambiare il fuori, non attendere il contrario.
Leggendo Sciascia, dunque, si acquisisce la rara possibilità di assemblare i pezzi, prendere coscienza delle involuzioni, indignarsi profondamente e, magari, iniziare a chiamare cose, persone, azioni con il nome più appropriato, seppur scomodo. Conoscendo uno dei maggiori autori che l’Italia letteraria abbia mai prodotto si otterrebbe una diretta conoscenza di un popolo attendista, pronto ad accusare ma non ad essere accusato, potendo così bene scegliere da che parte vivere se nella luce o nell’ombra, se schierarsi dalla parte dei Paolo Laurana oppure accanto ai Don Mariano. Dopo aver sostenuto la “prova di inserimento alla nazionalità” nessuno potrebbe dichiarare di non esserne stato informato, fingere di non sapere, poiché “la lettura sarebbe uguale per tutti”, almeno quella. Sarebbe un esame in più, è vero, l’ennesimo di un paese imbrigliato dalle scartoffie e obblighi burocratici, ma risulterebbe di certo più utile di molti altri. Risulterebbe una prova preziosa, alleverebbe probabilmente cittadini meno opportunisti, meno pavidi, ma verrebbe richiesto un grande atto di coraggio e forza attiva. Senza tutto ciò non ci sarebbero risultati, perché come lo stesso Sciascia appunta: «Un’idea morta produce più fanatismo di un’idea viva; anzi soltanto quella morta ne produce. Poiché gli stupidi, come i corvi, sentono solo le cose morte».
Ad un Paese, soprattutto al nostro, mai come ora serve vita e non morte, serve stare con coerenza da una parte e, possibilmente, non da quella buia.