di Paolo Risi
Il tracollo degli ecosistemi non più come possibilità, cuore narrativo trascendente, ma come fuoco antagonista e fattore quantificabile. Da prospettiva presumibile a terreno fertile per una visione a cavallo fra presente e futuro, l’innesto della scienza – progresso e curiosità sistemica – nel corpo e nella sostanza fragile dell’uomo. Fantascienza, narrativa sci-fi: leggi naturali, implacabili, a stretto contatto, anzi immerse nella babele degli affetti, onde umorali senza una direzione. In Elbrus (Armando Curcio Editore) il futuro è straniante: lontano fino ai margini del mito, vicino perché la scienza, ora più che mai, delinea orizzonti e orientamenti ineludibili.
Il riscaldamento globale era stato largamente sottovalutato dai governi e dalla stessa opinione pubblica e aveva iniziato a compromettere seriamente la sopravvivenza dell’uomo e delle altre specie viventi.
In parole povere la terra (A.D. 2155) è diventata invivibile, i migranti – non più solo economici – sciamano nelle regioni più a nord per sottrarsi al naufragio collettivo. L’equilibrio, l’omeostasi della specie, richiede soluzioni che oltrepassino l’ecologia; si percorre la strada dell’editing genomico, per adattare la fisiologia umana all’esplorazione e alla colonizzazione di nuovi sistemi stellari.
Nel romanzo la ricerca di una soluzione parte dal corredo cromosomico di un Viaggiatore, individuo alieno non troppo difforme che, guarda caso, ha come architrave della propria essenza la capacità di comunicare oltre il segno ingannevole, dentro una dimensione collettiva e realmente empatica. Il Viaggiatore è un superstite, primo pilota di un astronave alla deriva che lambisce l’orbita terrestre e che trasmette un segnale di aiuto verso il pianeta-obiettivo; verrà tratto in salvo e usato per estrapolarne le componenti appropriate, osservato per comporre un quadro – nonostante tutto – lacunoso, paragonabile a un mosaico antico martoriato dal tempo, del quale fossero sopravvissuti piccoli frammenti qua e là, assolutamente insufficienti per ipotizzare il soggetto della rappresentazione.
Gli ingredienti sci di Elbrus sono vividi, traggono sostanza e ispirazione da rigorosi studi accademici, e hanno il pregio di elevare la narrazione senza appesantirla o renderla un diversivo, un trastullo immaginifico per pochi eletti. C’è complessità, nitore nei dettagli e nelle ipotesi di sviluppo tecnologico, ma c’è anche la problematica del rovello interiore, della crisi, quando nel romanzo guadagnano il proscenio i sentimenti, le scelte morali, l’esigenza di affrontare un percorso di redenzione. I personaggi riempiono i vuoti di un destino comune: la tenacia di un giornalista old school che fra inciampi e volontà ferrea entra nella cattedrale del “complotto”, gli azzardi e le retromarce di Daniel Dunn, scienziato chiamato a integrare i molteplici aspetti del proprio agire nel mondo, Lubomir e Andrus, figli irrisolti dell’ibridazione genetica, e poi il delirio, l’ambizione di chi si sottrae alla sovranità dei processi naturali scansando la componente primaria, per poi ritrovarsi a considerare, con amarezza, l’abbaglio perpetrato: abbiamo giocato a fare Dio e ci deve essere sfuggito qualcosa di mano.
I limiti e la ferocia si contrappongono, sono il carburante del romanzo – avvincente – di Giuseppe Di Clemente e Marco Capocasa; ma a impreziosire il meccanismo, a fornire occasioni di identificazione, è la volontà di connettere il tutto al nucleo indissolubile dell’amore, dei sentimenti che delineano sbalorditive traiettorie spazio-temporali. Comunicazione come reticolo ultraterreno, ultimo miraggio di permanenza. Il clone di Elbrus, il prodotto da laboratorio per surrogare l’Uomo nella conquista dello spazio, custodisce in sé il valore non riproducibile, la possibilità di mettersi in contatto con le proprie origini: Mark è nel suo corpo e al tempo stesso in quello di tutti gli altri, un sorprendente senso di libertà lo sta strappando via dalla carne dei suoi muscoli, dal cemento della base, portandolo oltre lo spazio conosciuto, attratto da un luogo lontanissimo ma familiare.
Giuseppe Di Clemente nasce a Roma nel 1976. Appassionato fin da ragazzo di astronomia e fantascienza, la necessità di comprendere talune dinamiche della nostra esistenza lo porta a conseguire la laurea in economia, il che dà un’ulteriore impronta alla sua personalità, contribuendo a una visione complessa e contraddittoria del mondo. Nasce così il suo primo romanzo Oltre il Domani (L’Erudita – Giulio Perrone Editore, 2019), un racconto trasversale, dove la fantascienza è genere e pretesto per interrogarsi sul futuro degli uomini.
Marco Capocasa, antropologo molecolare, deve la sua passione per la fantascienza alle letture dei classici di questo genere. Laureato in Scienze Biologiche e in Antropologia Culturale, successivamente ha conseguito un dottorato di ricerca in Antropologia Molecolare. Autore di decine di articoli su riviste scientifiche internazionali, insieme a Giovanni Destro Bisol ha recentemente pubblicato due libri di divulgazione scientifica: Italiani. Come il DNA ci aiuta a capire chi siamo (Carocci, 2016) e Intervista impossibile al DNA. Storie di scienza e umanità (il Mulino, 2018). Elbrus è il suo esordio nella narrativa del fantastico.