COME SONO DIVENTATA UN ALBERO | Sumana Roy
traduzione di Gioia Guerzoni
Aboca edizioni 2022
commento di Paolo Risi
Nel libro della scrittrice indiana (in cui si intrecciano storia letteraria, teologia, filosofia e botanica) non solo si pone l’obiettivo di “immaginare il punto di vista degli alberi”, ma riesce effettivamente a renderlo.
In natura bisogno e desiderio coincidono, configurano un principio di autodeterminazione: non c’è surplus, l’ostentazione è inverosimile. In senso contrario si staglia il criterio umano, in cui il “dominio del visivo” (del riempirsi lo sguardo) ha posto in secondo piano il modello vegetale, lo ha reso accessorio rispetto allo sfolgorante progredire della Storia.
Del resto una delle prerogative degli alberi è il loro essere silenziosi; un abitare il mondo che respinge ogni forma di protagonismo. L’autrice ammira la loro silente operosità, avverte consapevolezza nel modo in cui le foglie di bambù reagiscono al vento. In fatto di suoni gli alberi sono frugali, a conferma di una predisposizione all’essenza, all’utile e desiderabile.
Sumana Roy assembla autori, artisti, filosofi che si sono occupati del mondo vegetale; cerca conferme, mentre una sorta di “ritorno alle radici” sta trasformando la sua vita: Non me ne importava più nulla delle scadenze sul filo del rasoio; e appena ho cominciato a pensare agli alberi e a scriverne, mi sono lasciata alle spalle i gesti, le posture e i traumi di una vita vissuta al ritmo del calendario.
Il vissuto dell’autrice confluisce in un’esplorazione sistematica, di assonanze e nessi culturali. Cita Nandalal Bose, pittore indiano dal tocco modernista, la cui opera non può che istillarle sentimenti di affinità. Riemerge dalla pratica artistica un’istanza comune, una dimensione di cittadinanza, entro cui non ero l’unica a vedere l’albero come un essere umano o l’umano come un albero.
E sempre percorrendo il sentiero trascendente l’autrice sottolinea il rapporto del poeta Rabindranath Tagore e di suo figlio Rathindranath (esperto agronomo) con l’identità arborea, e in particolare con la dimensione spirituale e terrena del giardino. Tra il 1919 e il 1938 Rathindranath si dedicò alla creazione del giardino di Uttarayan e dei cinque edifici circostanti, complesso in cui Tagore padre trascorse i suoi ultimi anni di vita. Oltre alla bellezza e alle specificità che muovono a stupore, i doni del giardino – ci suggerisce il poeta bengalese – sollecitano uno scambio emotivo, dialogano da pari a pari con l’animo umano. “Vivevo nella casa d’angolo nell’Uttarayan di Santiniketan. In cortile, il mio amico Pearson, che ormai non c’è più, aveva piantato un bideshi, un albero straniero. Dopo una lunga attesa, l’albero cominciò a rivelare la sua identità con grappoli di fiori blu a ogni nodo. Quel colore mi ha sempre dato molta felicità, e ogni giorno, quando gli passavo davanti, mi fermavo e rimanevo in silenzio a guardare i fiori. Volevo anche parlargli come un poeta, ma non avevo un nome con cui rivolgermi a lui, per questo l’ho chiamato Neelmonilata, il rampicante blu iris”. (da Banobani. Parole della foresta, Rabindranath Tagore).
Nell’arte (e in certe forme di ecologismo) non mancano suggestioni che accostano la sessualità umana al mondo vegetale. Sumana Roy scandaglia anche questo aspetto, ponendo la carnalità, dato pulsionale e concettuale, come presupposto all’interrelazione di forme. All’origine il riconoscimento di una compatibilità, di un principio fondativo, e nel disquisire confidenziale trova spazio l’ironia, la visione disincantata, come quando la scrittrice indiana, confessando la propria tendenza alla possessività, si abbandona a una sorta di rassegnata benevolenza, considerando il fatto che la vita vegetale, per sua natura biologica, non comprende la monogamia; la lealtà è un concetto alieno, l’adulterio una cosa quotidiana.
L’idea che esistano dei canali di raccordo fra animali e vegetali permea l’intera opera edita in Italia da Aboca. Alle leggende, alle narrazioni che contemplano, fra le altre cose, la trasformazione dell’essere umano in albero e viceversa, si affiancano le argomentazioni di curatori di giardini e botanici, i quali registrano giorno per giorno processi e strategie di adattamento delle specie arboree. A tal proposito Sumana Roy chiama in causa il botanico Jagadish Chandra Bose, fervido interprete e sostenitore della corrispondenza pianta-persona. “Una pianta protetta con un vetro dagli agenti esterni sembra rigogliosa, ma poi si scopre che la sua funzione nervosa superiore si è atrofizzata. Però, se si colpisce questo esemplare gonfio e debole, gli urti creano dei canali nervosi e risvegliano le funzioni deteriorate. E non sono forse i colpi una forma di avversità che sviluppa una sorta di resistenza virile, dimostrandosi ben più utili di una protezione ovattata?”.
Solidità, la capacità di opporsi all’instancabile perdersi e ritrovarsi. Il bosco, territorio del mistero, diffonde una metodologia di perfezionamento, volta a considerare l’eventualità di perdersi (immancabilmente) come fruttifera, indenne da schemi e obblighi sociali. Lontano dall’essere un luogo d’incanto (sapevo che anche i boschi, proprio come le città, avevano mire espansionistiche) l’ecosistema incontaminato configura l’opportunità di donarsi, e di ricevere in cambio la rivelazione dell’appagamento, dell’incertezza in quanto opportunità.
L’assidua ricerca di armonia, di pienezza interiore, avvicina sempre più l’autrice a una bellezza non contaminata dalla presenza umana. I dilemmi e le speranze che angustiano il cuore umano non trovano accoglienza nelle piante, presenti unicamente a se stesse, appagate in quanto esseri viventi. Viene scartata l’ambizione, la spinta a fare qualcosa di diverso o fuori dalla norma, e in ciò si riconosce l’attitudine a sottrarsi alla condizione di dukkha, di sofferenza.
Come gli alberi, non volevo più del necessario: nell’esperienza dell’immedesimarsi emergono, come riscontro e anello di congiunzione, le fondamenta e le interpretazioni della dottrina buddista. Leggendo gli insegnamenti del Buddha, cominciai a rendermi conto che quello che chiedeva agli uomini – di abbandonare avidità e desiderio e tutto ciò che causava sofferenza, specialmente la vanità che ci rende ossessivi nella nostra mania di controllo – era di condurre una vita da albero. Mi sembrava che la Via di Mezzo del Buddha, tra l’austerità e l’edonismo, fosse una via per diventare come un albero. Perché tra tutti gli esseri viventi, solo i vegetali non sono né golosi, né ascetici, né avidi, né anoressici.