di Giovanni Nuti e Annalisa Ciampalini
Il dialogo come premessa.
Il termine dialogo (dal latino dialŏgus, in greco antico διάλογος, derivato di διαλέγομαι “conversare, discorrere” composto da dià, “attraverso” e logos, “discorso”) indica il confronto verbale che attraversa due o più persone come strumento per esprimere sentimenti diversi e discutere idee non necessariamente contrapposte.
Nella filosofia socratica il dialogo è uno strumento che, tramite interrogazioni tra due o più interlocutori, mira alla soluzione di un problema iniziale per giungere a una “verità” condivisa, da rimettere sempre in discussione. Socrate non lasciò niente di scritto della sua filosofia perché pensava che la parola scritta fosse come il bronzo che percosso dà sempre lo stesso suono. Lo scritto non risponde alle domande e alle obiezioni dell’interlocutore, ma interrogato dà sempre la stessa risposta. Per questo i dialoghi socratici appaiono spesso “in-concludenti”, nel senso che non chiudono la discussione, perché la conclusione rimane sempre aperta, pronta a essere sottoposta nuovamente al dialogo.
Questa premessa metodologia del dialogo, la scelta di un argomentare “in-concludente”, sempre “aperto” ad un successivo dialogo, è particolarmente urgente riguardo al tema dell’infinito trattato al “confine” tra matematica e poesia.
I dialoganti come dramatis personae.
Questo dialogo sull’infinito si svolge tra Annalisa Ciampalini, matematico e poeta, e Giovanni Nuti, medico, poeta e curatore della rubrica Sezione Aurea di questa rivista on-line. Annalisa ha pubblicato recentemente Le distrazioni del viaggio, Samuele Editore; Giovanni ha dato alle stampe la nuova edizione di Lumen, Ensemble Editore. Entrambi i testi sono attraversati da elementi che richiamano al mondo della matematica, della geometria e della fisica, perché gli autori sono in qualche modo “maschere di un dramma” – attualissimo – che mette in scena l’aspirazione ad una riconciliazione tra Arte e Scienza, per un Nuovo Rinascimento, per citare Arturo Onofri, poeta italiano, grande quanto dimenticato.
I dialoganti non sono soli in questa avventura che vede il rigore della matematica, ma anche la sua componente intuitiva, avvicinarsi alla purezza della parola poetica e questa a quella. Citiamo di seguito solo alcuni nomi: Robert Musil, Paul Valéry, Karl Wierstrass, James Clerk Maxwell, Augustus De Morgan, William Rowan Hamilton, James Joseph Sylvester, William Kingdon Clifford e altri ancora.
Il dialogo avviene attraverso la modalità duplice dell’argomento e della domanda: ogni voce dialogante contiene una possibile risposta e un’intrinseca e successiva domanda.
G – Se penso all’infinito – strano questo oggetto, è un oggetto? – mi tornano alla mente, non ovviamente, i versi di Giacomo Leopardi, soprattutto: “interminato / Spazio di lá da quella”. Già, “spazio”! Nel manoscritto autografo è scritto “spazio” e non “spazi” come più spesso si legge. Il plurale connota in modo letterario la dimensione spaziale; mentre, a me pare, che il singolare “spazio” dia ragione di una descrizione geometrica e fisica di questo interminato spazio, che mentre il poeta “si finge nel pensiero” pure gli sfugge dalle mani nel suo farsi appunto interminato. Che sia questa una caratteristica dell’esperienza umana dell’infinito, lo sfuggirci di mano? Intendendo per “mano” non solo una metafora dell’esperienza comune, ma anche un simbolo del “metodo”, della téchne direbbe il greco antico.
A – Un oggetto? Molto interessante. Personalmente trovo difficile pensare all’infinito come a un oggetto, per non dire impossibile, ma posso fare un tentativo, cercando di non smarrire il buon senso che deve accompagnarci in ogni momento di questo dialogo. Ebbene: se fosse un oggetto materiale esso dovrebbe, ad esempio, possedere estensione, occupare uno spazio, avere una qualche caratteristica che ce lo renda percepibile. Ma non sono mai venuta in contatto con un oggetto materiale che, per qualità e caratteristiche, mi abbia fatto pensare: “ecco l’infinito”. E nemmeno riesco a intravedere questa possibilità. Se invece fosse un oggetto inesistente, allora dovremmo chiamare in causa una rappresentazione mentale che raffiguri un oggetto che non è l’infinito, ma che lo identifica completamente. E che caratteristiche dovrebbe possedere tale oggetto inesistente? Dovrebbe possedere proprietà che rimandano a una forma, a un’estensione? Proprio non saprei. Quindi concludo che non sia possibile rappresentare l’infinito con un oggetto; o almeno, la nostra mente non sembra essere predisposta per questo tipo di astrazione. Per me l’infinito è un’idea che fino dai tempi remoti si è impadronita della mente dell’uomo. Forse è nata per contrasto con la finitezza, come risposta alla condizione umana che da sempre sappiamo essere precaria. Probabilmente l’idea si è generata nel momento in cui l’uomo si è trovato di fronte a grandissimi spazi, a un orizzonte sempre irraggiungibile, a stelle inavvicinabili. Non è il momento giusto per approfondire certe questioni, ma di certo l’infinito è diventato motivo di riflessioni amplissime e articolate in filosofia, in matematica, in fisica. Forse neanche in questa epoca ha trovato una giusta collocazione, è mobile nella nostra mente, non è stato imbrigliato in una definizione univoca che soddisfi, al contempo, le varie scienze, le arti e la percezione umana. Piuttosto l’infinito viene evocato, credo, tramite esempi, emozioni, attraverso l’arte. Se penso all’infinito e alla poesia, mi tornano subito alla mente i versi di Leopardi: perché tu dici “non ovviamente?”
Per me essi si presentano all’istante, quasi fossero l’effetto prodotto dall’accostamento poesia/infinito.
Ad essere sincera non ho sentito risuonare l’intero componimento poetico, ma solo alcuni frammenti di versi, più precisamente: “Dell’ultimo orizzonte il guardo esclude”, “Interminati spazi al di là di quella”, “profondissima quiete”. E ancora: “suon di lei”. A ben vedere il temine “infinito” non compare tra le parole citate. “Suon di lei” e “profondissima quiete”, in particolare, non si riferiscono esplicitamente a uno spazio sterminato, ma senza dubbio sono frammenti fortemente evocativi. Essi sono in grado di lasciarci col fiato sospeso per lo stupore, come quando, improvvisamente, ci troviamo di fronte a qualcosa di inconcepibile per bellezza, grandezza o rarità, qualcosa che non è fatto per stare nel nostro piccolo spazio. Leopardi, nello Zibaldone, chiarisce bene alcuni concetti. Vediamo cosa ha da dirci a proposito del “suo infinito”. Consideriamo questi periodi: “L’antico non è eterno, e quindi non è infinito, ma il concepire che fa l’anima uno spazio di molti secoli, produce una sensazione indefinita, l’idea di un tempo indeterminato, dove l’anima si perde, e sebben sa che vi sono confini, non li discerne, e non sa quali sieno.”
E dopo: “Circa le sensazioni che piacciono pel solo indefinito puoi vedere il mio idillio sull’infinito, e richiamar l’idea di una campagna arditamente declive in guisa che la vista di una certa lontananza non arrivi alla valle; e quella di un filare d’alberi, la cui fine si perda di vista, o per lunghezza del filare, o perch’esso pure sia posto in declivio […]”.
In quanto uomini ci perdiamo di fronte agli “interminati spazi” che sempre ci sfuggono e non si lasciano né conoscere né descrivere. La poesia può riuscire, tramite la particolarità del suo linguaggio, a farci intravedere i bordi degli spazi sconfinati? Nella tua intensa nota introduttiva a Lumen scrivi: “Se la Scienza è solo ciò che si può dire logicamente, resta fuori tutto un mondo, taciuto, che non si può dire; forse la parte più importante.” Ci sono versi che arrivano a svelare, anche solo per un attimo, ciò che il linguaggio corrente non dice?
G: – Non credo che l’infinito sia un oggetto e se lo volessimo descrivere come tale ci troveremmo dentro un paradosso di incompletezza: dovremmo descrivere ciò che sta là fuori, ma anche la tipologia della descrizione e infine noi stessi, soggetti della descrizione. Descrivere il soggetto (della descrizione) ci porta sempre ad un regresso infinito, ad un arretrare verso un punto di vista privilegiato di oggettivazione, un acrocòro interiore che non raggiungiamo mai. Tutto non è mai tutto. Penso piuttosto che l’infinito sia significativamente una modalità del nostro pensiero, una qualità non computazionale, o meglio meta-computazionale. Come se il nostro pensare fosse sempre Ad Infinitum, anche se si appunta ad un tema finitissimo: ma esiste un tema finito? Quando scrivo “non ovviamente” riguardo al testo di Leopardi, alludo ad una tendenza stereotipata di “leggere” i classici, come se fossero acquisiti e dipanati una volta per tutte, ma l’argomento ci porterebbe fuori rotta. Decisiva la tua domanda sulla differenza tra linguaggio comune e linguaggio poetico, ma quali sono le differenze? Che tipo di azione fondamentale opera la poesia sul linguaggio? Dalle tue parole pare di poter dire che se il linguaggio poetico dis-vela, quello comune vela, nasconde o, per citare Heidegger, dimentica.
A – È interessante che tu veda questo ipotetico oggetto come una teoria formale con tutte le caratteristiche che consentono di applicare i teoremi di incompletezza di Gödel. Ed è veramente sorprendente come le stesse proposizioni che usiamo per negare la possibilità che l’infinito sia un oggetto, inizino a delineare un pensiero che, seppur per pochi istanti, considera anche questa inconsistente evenienza. Comunque sia, a questo punto possiamo abbandonare l’idea che l’infinito sia un oggetto, e vediamo di andare alla ricerca dei suoi riflessi, delle sue manifestazioni più interessanti. Dici che l’infinito potrebbe essere una modalità del nostro pensiero, e io sono pienamente d’accordo con te. Credo sia una specie di vizio [Anche G. Bruno parlava di Vizio riferendosi alla ricerca, come eroico furore] generato dalla nostra mente, un’idea che si insedia nel nostro modo di pensare, forse in contrapposizione all’imperfezione e alla transitorietà che ci qualificano. Interessante è il fatto che tale processo mentale si riscontra anche in matematica. Il grande matematico Ennio De Giorgi, quando fu insignito della laurea Honoris Causa in filosofia, disse che era stupito dal fatto che riusciamo a studiare il finito solo se lo pensiamo immerso in uno spazio infinito. Ecco una parte del suo discorso pronunciato in quella occasione: “Uno dei paradossi della matematica è questo: per studiare le cose più concrete bisogna passare attraverso la riflessione su concetti che invece sembrano superare completamente la nostra esperienza sensibile. Questo è un dato che ci fa pensare: tutto ciò che noi riusciamo a vedere nel finito ci appare incomprensibile e disarmonico, se non lo pensiamo come parte di un quadro più ampio di grandezza infinita.”
Tu chiedi: “Che tipo di azione fondamentale opera la poesia sul linguaggio?”
Difficile rispondere in modo esaustivo, posso solo tentare una strada.
Credo che la poesia possa compiere sul linguaggio diversi tipi di azioni, ma forse il motivo per cui i poeti cercano ossessivamente musicalità, immagini, potenza evocativa, è perché, in maniera più o meno consapevole, vogliono arrivare a pronunciare l’indicibile, ad accostarsi all’essenza della cosa, dell’evento.
Heidegger, in una fase successiva rispetto a quella in cui è stato concepito Essere e tempo, matura la convinzione per cui il linguaggio non si limita ad essere un mezzo per capirci, ma ha il compito di dischiudere gli enti, e la poesia è intesa dal filosofo nel suo significato originario, che è appunto quello di creare, produrre.
Possiamo scrivere una poesia di getto, ma spesso la rivediamo, la limiamo, forse per avvicinare sempre di più quel fulcro che vogliamo svelare, dotare di anima.
I tuoi versi hanno chiaramente un’anima: da dove nasce?
G – C’è un verso di Lao Tzu che recita: “Il più grande quadrato non ha spigoli”. Per altro ipotizzo che questa immagine, contenuta nel Tao Te Ching (VI – III sec. a. C.), sia una primissima testimonianza di geometria non-euclidea: un quadrato che all’infinito subisce una deformazione circolare conseguente alla curvatura dello spazio. Ma porto in dialogo la citazione di Lao Tzu per un altro motivo: come metafora della co-incidenza di finito-infinito. Nello stesso luogo il filosofo scrive: “La più grande immagine non ha forma”.
Dove può avvenire questa coincidenza e questo immaginare oltre la forma? Quale linguaggio può contenere tutto questo? Interessante la parola “fulcro” che tu introduci per qualificare il cuore della funzione dis-velatrice della poesia. Ma fulcro è il punto “0 di spostamento lineare” di una leva capace di imprimere un movimento ad un peso che non potremmo spostare direttamente. Fulcro quindi è mezzo e non fine. Tuttavia credo che tu non abbia commesso un errore. Qual è il fulcro, questo misterioso “zero”, che ci permette di sollevare il velo dell’ente se non il “pensare”? E qual è il cuore infinito dell’ente se non ancora pensiero? Nel pensare mezzo e fine coincidono, finito e infinito.
Ancora, cosa c’è di indicibile per esempio in una pietra se non il suo pensiero, il suo Logós direbbero gli antichi filosofi greci? Una pietra, oltre a forma e sostanza, ha un pensiero?
Anima Mundi: dove Essere e Pensare sono la medesima cosa, come scrive Parmenide nel suo poema. Giungo a questa congettura: la poesia o è lingua dell’anima mundi, dove soggetto e oggetto coincidono, dove le cose mute parlano, o è vanità di parola.
A – “La più grande immagine non ha forma”: un’espressione antica che viaggia da secoli, interpretata e scrutata da sguardi e culture diverse. Ci colpisce per quel senso di vertigine che lascia, per la sensazione di avvicinamento a qualcosa che sfugge. Ma l’immagine non è stata definita infinita, bensì la più grande. Se tale immagine risiede nella realtà, dove siamo anche noi, dovendo essere la più grande di tutte quante, non può che contenere tutto, noi compresi, motivo per cui risulta difficile attribuirle una forma. Ma potremmo pensare che questa immagine sia un luogo mentale, un posto sterminato che la mente assegna a un ente mancante di forma, o che ne possiede più di una. L’infinito, e dicendo infinito non escludo a priori altri concetti, ha la particolarità di manifestarsi secondo varie modalità. Ad esempio: i punti di un segmento sono infiniti, sono l’esempio di un infinito attuale, in quanto sono già dati e non devono essere costruiti mediante accrescimento. Ma l’immagine del segmento, la sua forma limitata riescono a darci l’idea di tale infinità? Il cielo stellato suggerisce l’esistenza di spazi di cui non percepiamo i contorni, ma possiamo dire che tale illimitatezza equivale all’infinito? Eppure, fenomeni come questi, pur essendo differenziati tra loro, confluiscono nella nostra mente collaborando a delineare il concetto di infinito. Per il romantico l’infinito è soprattutto un sentimento, la sensazione del sublime, ed è costruito da coloro che per sensibilità, o per genialità, riescono a superare i limiti imposti dalla ragione. Forse pensare l’infinito consiste anche nel cercare di dare una forma precaria al luogo mentale destinato a ospitare l’infinito stesso. Tale forma deve essere appunto precaria, cambiare in continuazione, in modo che l’infinito abbia ancora senso, in modo che possa continuare a possedere quel quid per cui da sempre risulta solo a tratti immaginabile.
Il pensiero che pensa l’infinito, pur non giungendo mai a un punto di arrivo, compie un’azione straordinaria: vivifica la mente, stabilisce relazioni tra esperienza e astrazione, mette l’uomo sulla soglia che separa il dicibile dall’indicibile, il visibile dall’invisibile.
Forse è lo stesso pensiero creativo che tenta di dare voce agli oggetti, di scoprire relazioni tra le loro posizioni, di rompere la membrana che ci rende unici ma anche soli. Spero che la parola della poesia sia anche questo voler andare oltre, non voler dimostrare nulla, trasformare il pensiero in vita.