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Donne che nuotano con le balene: la poesia, il contagio, i patti necessari.

di Serenella Iovino

Intorno a Krill  di Gabriele Belletti
Marcos y Marcos 2015


Un getto d’acqua esce / oltre la superficie del mare. / Per un solo istante / è Dina / che ritorna / a respirare.

A volte la realtà sembra fatta di bizzarri cunicoli. Fatti e libri comunicano, e non importa quanto tempo ci vuole: prima o poi la strada la trovano, e quando s’incontrano le cose di colpo rivelano un significato che le trascende e si mettono a dialogare. Mi è successo con Krill di Gabriele Belletti. Nel risvolto di copertina Fabio Pusterla, uno dei nostri più grandi poeti, lo definisce uno “strano libro” e difatti lo è: a partire dal titolo, che richiama uno dei primi anelli della catena alimentare oceanica, quei microcrostacei di cui si nutrono le balene. È effettivamente un libro strano, Krill. Lo è perché non è una semplice raccolta di poesie ma un lungo poema, e oggi non se ne scrivono tanti. E lo è per quello che racconta e per come lo fa. Krill si muove su due scene. La prima è intima, di un’intimità assoluta: è la storia di Dina, un’anziana signora in casa di riposo, colta in “lentissima agonia” (ancora Pusterla) e vegliata dal figlio e da un’altra ospite. L’altro scenario è invece ampio e lontanissimo, ma calato su una vicenda molto concreta: il disastro della Deepwater Horizon, la piattaforma petrolifera della BP che, mentre Dina si consuma nella sua agonia (aprile-agosto 2010), inonda l’oceano con milioni di barili di petrolio. Le due storie camminano parallele in un gioco cinematografico di primi piani e inquadrature aeree, silenzi molecolari e rumori meccanici. A un certo punto però l’inatteso succede. Dina smette di essere Dina e diventa una balena; si ritrova a nuotare in quel mare, in fuga dall’“orrore petrolifero”. Lontana dalla sua stanza e da tutto il resto, Dina “s’inabissa, cerca le correnti, si dirige senza saperlo verso il krill, il nutrimento che innescherà forse una rinascita, schiuderà un oltre” (Pusterla). È così che d’un tratto la vediamo risalire dai fondali marini:

“Un getto d’acqua esce / oltre la superficie del mare. / Per un solo istante / È Dina / che ritorna / a respirare”.

Ripensavo a Krill, nei giorni in cui migliaia di Dine, nelle case di riposo di tutto il mondo, lottavano con la loro personale “lentissima agonia”. Pensavo alla solitudine abissale di questi uomini e donne che avevano energie creative, passioni, corpi parlanti, gusti rabbie piaceri; libertà. E pensavo all’altra Deepwater Horizon: quella del contagio assurdo, propagato senza una ragione intelligente nelle RSA lombarde e non solo, dopo che scelte sconsiderate hanno esposto all’infezione persone già di per sé fragilissime. I quotidiani hanno seguito la vicenda dall’inizio. Su Repubblica, ad esempio, Di Feo e Foschini il 16 aprile hanno scritto che i vertici della Regione Lombardia “hanno smistato i malati di coronavirus tra le persone più deboli, quelle che più di tutte andavano protette. (…) Residenze sanitarie assistite (…) si sono trasformate in micidiali bombe batteriologiche”. A fine aprile Hans Kluge, direttore della OMS per l’Europa, ha dichiarato che in Europa e nel mondo la metà delle morti per Covid-19 è avvenuta nelle residenze per anziani.

Anche questo è un disastro ecologico di proporzioni oceaniche. Anche qui, migliaia di creature vulnerabili si sono trovate soffocate da un’onda vischiosa che le ha travolte all’improvviso fino a farle spiaggiare in totale solitudine. E quel che è peggio è che quest’onda le ha costrette a travolgerne altre, a farsi tramite di un pazzesco spillover in un contesto in cui fare errori, in teoria, era più difficile che non farne. In pratica, invece… Mentre il quadro generale delle responsabilità scappate di mano sembra abbastanza chiaro, la magistratura si sta occupando di far luce sui singoli passaggi del disastro. Ma, come in tutti i disastri evitabili, resta la meraviglia triste che sia stato possibile. Krill mi ha fatto vedere tutto ciò.

Com’è potente l’immagine di Dina che diventa balena. Com’è rassicurante vederla fuggire oltre l’onda nera. Immergersi nelle profondità e tornare respirare, sciogliendo in un soffio quella fame d’aria di cui ancora si muore. Nuotare negli abissi non è facile, non cancella le tempeste, non mette al riparo. Eppure, la libertà prodotta da questa metamorfosi è salvifica: fosse anche solo la libertà di andarsene via. Dina-balena torna a essere padrona del suo destino, e il suo è il tentativo coraggioso di uscire da una vita senza finestre, spinta verso un unico capolinea possibile, e di andare dove c’è nutrimento, e silenzio, e spazio. Anche rischiando tutto.

Oltre le barriere / Che invalicabili sembrano / a chi non le attraversa, a chi non è / nella condizione di attraversarle, / in quegli spazi, / silenziosi a volte, / a volte in tempesta, / la balena / resta”.

Attraversare barriere invalicabili è esattamente il contrario di quello che tante persone, specie alla fine della loro vita e adesso ancora di più, possono fare. Ma che significano davvero, queste barriere?

Recenti ricerche oceanografiche proverebbero che, sospesi i traffici marittimi per il coronavirus, la produzione dell’ormone dello stress nelle balene è calata. È presto per valutare l’impatto reale di questo stato di cose. Sono però convinta che i grandi disastri che feriscono l’oceano e quelli consumati nelle case di riposo siano parti dello stesso contagio. È il contagio della perdita di attenzione per ciò che non rientra nella narrativa del profitto e della produzione—anche nella sanità. Se una RSA diventa una bomba epidemiologica non ha senso prendersela con il virus, come non ha senso prendersela con il petrolio se succede un disastro come quello della Deepwater Horizon. E nemmeno vale parlare di destino. Se queste cose accadono, al netto di dolo e malafede, è solo per un’imperdonabile distrazione che portiamo nel mondo. È l’attenzione che manca, quando si firma un’ordinanza regionale o quando si gioca con la vita di specie che non siamo noi: quella tensione all’altro, quel rivolgergli lo sguardo, senza fingere che ciò che non si vede non esista. E allora ha ragione un altro poeta, Franco Arminio, quando dice che “più che l’anno della crescita / ci vorrebbe l’anno dell’attenzione”, e che

oggi essere rivoluzionari significa togliere / più che aggiungere, / rallentare più che accelerare, / significa dare valore al silenzio, alla luce, / alla fragilità, alla dolcezza.” [1]

Imponendoci di rallentare e di togliere, quest’emergenza è rivoluzionaria. Ma lo è anche nell’invito a ristabilire i legami con la vita fragile, a riconoscere tutti gli allarmi che non abbiamo voluto vedere, le pandemie che non ci hanno toccato, le guerre che non sono le nostre, le sofferenze di un mondo—umano e non—che non ha le parole per dirlo. Nei giorni in cui anziani morivano nelle RSA, sono state tante le Dine di varia natura tornate a respirare nei mari, in boschi e campagne, perfino nelle città. Certo, è necessario ora mettere ordine nel disordine della sanità e dell’economia, e curarsi dei cittadini. Ma perché dobbiamo ricacciarle indietro, quelle altre forme di vita? Perché non provare a immaginare una civiltà in cui chi è ai margini acquisti un concreto diritto di cittadinanza, un diritto all’attenzione?

Quando il pericolo ha uno spettro d’azione così ampio e investe i nostri rapporti con il pianeta, c’è bisogno di un patto tra le specie, ma basato su criteri diversi rispetto a quelli praticati finora. Una proposta viene addirittura dai Promessi sposi. Nel cap. XXXV, girando intorno al lazzaretto, Renzo s’imbatte in una baracca dove sono accuditi dei bambini. Ad allattarli ci sono balie e altre “donne in faccende”. Ma non sono sole. Con loro ci sono delle capre “fatte loro aiutanti”. Scrive Manzoni: “Era, dico, una cosa singolare a vedere alcune di quelle bestie, ritte e quiete sopra questo e quel bambino, dargli la poppa; e qualche altra accorrere a un vagito, come con senso materno, e fermarsi presso il piccolo allievo, e procurar d’accomodarcisi sopra, e belare, e dimenarsi, quasi chiamando chi venisse in aiuto”. Tutte insieme, madri umane e non umane, mammifere come la signora Dina e la balena, sono intente ad accudire creature piccole, mentre fuori c’è la pestilenza. Si potrebbe dire che insieme preparano il futuro; più semplicemente, però, ci parlano di una comunità che si rimette in piedi contando su tutti i suoi membri. A parti invertite, penso alle wombat mothers australiane (Val Plumwood la più illustre), che si dedicano ai cuccioli orfani di questi marsupiali, e al veterinario e scrittore langarolo Massimo Vacchetta, che da anni fa da madre a una comunità di ricci feriti e disabili. Sono solo esempi, ma chiunque si prenda cura di un animale, pensando che la sua vita abbia un valore intrinseco, entra tacitamente in questo patto. La verità è che, all’epoca della Sesta Estinzione e di questa pandemia, che nasce anche dallo sconvolgimento degli habitat, dovremmo ripensare radicalmente il nostro rapporto con gli altri animali, a partire dalle nostre abitudini alimentari.

E come di un patto tra le specie, c’è bisogno di un patto tra generazioni—non statico e lineare, ma innovativo, anzi sovversivo. Qui viene in mente un’altra immagine: la Caritas romana, cara a pittori come Rubens e Caravaggio. È la figura del vecchio Cimone condannato a morte per fame, che viene allattato segretamente in carcere dalla figlia Pero. È una scena paradossale, scandalosa quasi, ma proprio per questo capace di capovolgere l’ordine dell’ovvio secondo cui sono i figli a doversi nutrire dei corpi dei padri e delle madri. Tutto ciò ci sollecita anche a rivedere le retoriche “dinastiche” a cui spesso acriticamente ci affidiamo. Non ci fa bene, cioè, pensare alla terra come a una “madre”, al nostro paese come una “patria” o agli anziani che muoiono nelle case di riposo come ai nostri “nonni”. Se vogliamo essere credibili, dobbiamo amare la terra come si ama una figlia. Con la stessa tenerezza, la stessa preoccupazione di assicurale un domani, e non di accompagnarla fino a un certo punto per continuare senza di lei. Lo stesso con il nostro paese, e ancor di più con i nostri anziani. Dobbiamo buttarli nel futuro, pensando che il futuro ci precede sempre: è già qui nelle nostre decisioni, nella nostra attenzione, nei nostri errori, nella nostra libertà.

Dina-balena, madre-figlia, umana-non umana, morente e rinata, ci insegna proprio questo:

“Le parole si sradicano / dai loro padri significati. / Le acque madri aspettano / una nuova prole, / mentre i tempi si sono disgregati”.

 


[1] Franco Arminio, Cedi la strada agli alberi, pp. 149, € 14, Chiarelettere, Milano 2017 


Serenella Iovino è professoressa ordinaria di Italian Studies and Environmental Humanities all’Università della North Carolina.
Profilo completo QUI  / Seguila su: https://unc.academia.edu/SerenellaIovino


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