ECOFEMMINISMO: UNA BREVE INTRODUZIONE
Di Paola Saviano*
L’ecofemminismo vanta un’ampia letteratura critica, tuttavia, in Italia quest’argomento è ancora poco dibattuto. Ne fornirò qui un quadro introduttivo insieme ad alcuni aspetti contemporanei del movimento, includendo una prospettiva sulle culture non-occidentali. Vi illustrerò, inoltre, alcuni esempi significativi della maggiore preoccupazione che esso porta, ovvero la salvaguardia dell’ambiente partendo dalle tematiche di genere. Occorre che l’ecofemminismo sia quanto più trasversale e intersezionale possibile e che vada ad unire gruppi di interesse da Oriente ad Occidente che, attraverso mutualità e interdipendenza, si oppongano alla gerarchia eteropatriarcale per risolvere la questione ambientale e assicurare i diritti di tutte le categorie oppresse. Ho scelto di offrire solo un paio di esempi considerati maggiormente rappresentativi pur consapevoli che esempi di lotta per i diritti della donna e dell’ambiente sono presenti su tutto il pianeta. Si spera, in un prossimo futuro, che il dibattito sull’ecofemminismo possa essere ancora più ricco di spunti ma, soprattutto, che diventi il più divulgativo possibile, andando ad affiancarsi ad altre tematiche che sono riuscite a ritagliarsi uno spazio nel dibattito pubblico dopo anni di lotta. La salvaguardia dell’ambiente è la battaglia del secolo e non possiamo permetterci di perderla.
Definizione del termine ecofemminismo
Nella definizione Treccani, l’ecofemminismo è quella corrente del femminismo che si ripropone di coniugare la difesa dei valori e dei diritti delle donne e la salvaguardia dei territori, della comunità, della biosfera, della salute. Per ecofemminismo si intende anche un movimento che mette in relazione lo sfruttamento dell’ambiente e quello del corpo femminile come prodotto della cultura patriarcale. Il termine è stato coniato per la prima volta da Françoise d’Eaubonne nel testo Le Féminisme ou la mort nel 1974. Per d’Eaubonne, misoginia e disprezzo per l’ambiente sono due prodotti del capitalismo, in un’ottica che è al contempo, “patriarcale” o più precisamente, eteropatriarcale, (definizione di Stefania Barca1), “androcentrica” e “specista”. La base culturale ed economica del capitalismo è di per sé fortemente gerarchica e piramidale con la posizione apicale occupata dal maschio bianco eterosessuale. Una convinzione trasversale dell’ecofemminismo, (che conosce in realtà molte diramazioni e che non saranno qui oggetto d’analisi), è quella che bisogna partire dai diritti civili per poter contribuire alla causa ambientale. In poche parole, non si può parlare di ecofemminismo senza contemporaneamente includere tutte le minoranze che sono storicamente oggetto di discriminazione.
L’attuale sistema economico globale ha contribuito al deterioramento del legame tra uomo e natura. Ma non è sempre stato così. Carolyn Merchant, nel suo libro “La morte della natura” (1980), ripercorre la storia fino a individuare nella rivoluzione scientifica il momento di rottura di un rapporto che, da simbiotico, è diventato di coercizione: la sicurezza apportata dalle nuove scoperte scientifiche ha avuto sì, l’effetto di migliorare le condizioni di vita generali, ma ha reso, al contempo, l’uomo fin troppo fiducioso delle sue capacità e convinto di poter controllare e dominare la natura. Questa fiducia di piegare il pianeta alle proprie logiche è la base su cui poggia il sistema capitalista e insieme, quello eteropatriarcale. L’attuale crisi globale, al contrario, ha rivelato che esistono molte crepe al suo interno. La natura, infatti, nella definizione che Merchant stessa ne dà, è corpo vivo, dotata di “sistemi psicologici, sistemi circolatori come le maree, e un sistema riproduttivo che dava vita a animali, piante e minerali, e perfino un sistema espulsivo”2: un’immagine bellissima, tuttavia lontana da quella odierna, secondo cui la Terra è, invece, un mero prodotto di uso e consumo. Rosemary Radford Ruether in “Ecofeminism: symbolic and social connections of the oppression of women and the domination of nature”, come Merchant, parla della fine della sacralità della natura dopo l’avvento della Rivoluzione scientifica. Se le religioni monoteiste, infatti, credevano che la natura fosse una creazione divina e manifestazione di Dio, il Calvinismo prima e l’industrializzazione poi, hanno portato al progressivo scollamento della natura dalla sua dimensione sacrale con l’avvento della razionalità scientifica. L’idea di trascendenza verso un mondo migliore e ultraterreno sembrava non sposarsi bene al rispetto dell’ambiente. La Rivoluzione scientifica ha poi incorporato questo aspetto, consumando uno strappo definitivo che ha comportato l’alienazione del maschio dalla natura.
L’alienazione maschile ha delle radici storiche e culturali. Nella storia, infatti, si è costantemente riproposta una separazione di ruoli che ha privilegiato l’uomo per l’ambito della cultura, (e quindi della sfera sociale e lavorativa), mentre alla donna era attribuito quello della natura e dell’accudimento dell’ambiente domestico. Alla base di questa separazione, nasce il sistema di oppressione pocanzi descritto: considerandosi Altro rispetto a essa, l’uomo si è arrogato il diritto di sfruttare, conquistare e distruggere, ritenendo di avere di fronte a sé un oggetto di cui disporre a proprio piacimento. La scomparsa della natura va di pari passo con la sua reificazione, passaggio che ha comportato l’appropriazione e deprivazione delle risorse naturali tramite enclosures, privatizzazioni, colonizzazioni e conquiste.
Il principale obiettivo che l’ecofemminismo si pone è quello di correre ai ripari e liberare la donna e l’ambiente da questo sistema oppressivo e mortifero. La pandemia da Covid-19 e la crisi climatica attualmente in atto sono spie di una terra ormai corpo malato che non è più in grado di reggere le pressioni della produttività esponenziale a cui siamo abituati. Questo ritmo non è più sostenibile e stiamo cominciando a pagarne le spese, quando, invece dovremmo pensare alle generazioni future e alla pesante eredità che lasceremo sulle loro spalle.
Quadro storico introduttivo
L’ecofemminismo disegna una storia di lotta e resistenza iniziata alla fine degli anni ’70 negli Stati Uniti, periodo di profonda angoscia causato dal clima della Guerra Fredda e dal timore diffuso di pericoli di attacchi nucleari. È in questa cornice che i primi movimenti nascono e si sviluppano, sulla falsariga di quelli della lotta per i diritti civili, (con cui è condivisa una base comune), come ha ben descritto Benedikte Zitouni in “Distruzione planetaria, ecofemministe e politiche di trasformazione nei primi anni ‘80”. Geograficamente, la nascita del movimento si colloca ad Amherst, nel Massachussets, luogo in cui si tennero i primi incontri di gruppi di attiviste come il Women and Life on Earth che si riunirono per discutere di ambiente, diritti delle donne, militarismo, e diritto alla salute (Zitouni, 2020, 80). La spinta propulsiva venne data dall’incidente nucleare di Three Mile Island avvenuto in Pennsylvania nel 1979 che anticipò di qualche anno quello di Chernobyl. Il trauma del disastro di Three Mile Island portò i primi gruppi ecofemministi a organizzare incontri, proteste e performance. Zitouni dà un’ottima fotografia dell’epoca e documenta l’impegno a promuovere progetti a beneficio della comunità, come il sostenere piccole realtà autosufficienti o iniziative quali la permacultura, l’uso di lotti di terreno inutilizzati e la pulizia di discariche tossiche (Zitouni, 2020, p.82).
In Italia, Elisabetta Donini in “Donne, ambiente, etica e relazioni” testimonia che, negli anni ’80, si è sviluppato un movimento analogo proprio in seguito al disastro di Chernobyl, che, come nel caso di Three Mile Island, aveva sollevato problematiche quali la contaminazione del cibo e l’esaurimento delle risorse. Ciò aveva spinto le donne ad associarsi per mettere in discussione e contrastare un modello di sviluppo che di quell’incidente era stato la causa, così come delle conseguenze che aveva comportato. Cita Donini:
Dal sentirsi direttamente toccate nel concreto della vita quotidiana (quando divenne problematico il consumo di verdure a foglia larga o l’esposizione all’aria del bucato, giusto per richiamare i primi assilli del maggio ’86) al prendere iniziative per incidere sulle politiche economiche e sulle scelte energetiche e produttive, prese rapidamente forma un ampio movimento di donne che unirono alla critica dei modelli in atto la proposta di linee alternative. Su entrambi i piani fu cruciale riconoscere e denunciare gli squilibri e i dispoteri dell’impianto di genere che sottendeva quelle politiche e quelle scelte: la dimensione androcentrica e patriarcale della pretesa di dominio sia sulla natura sia sulle manipolazioni tecnologiche di essa, la polarizzazione al maschile dell’imperativo del progresso, della corsa al rischio, del gigantismo industriale… questi e molti altri furono i nodi attorno a cui si intrecciarono analisi condotte con occhi e voci di donne.
(Donini, 2012, p.3)
Oltre agli Stati Uniti e all’Italia, si possono fornire innumerevoli altri esempi: la protesta alla base missilistica di Greenhan Common in Inghilterra, la famosa Pentagon’s Action nel 1981 contro la corsa al nucleare, la recente marcia delle margaridas in Brasile contro la deforestazione della foresta pluviale, la resistenza delle donne Mapuche in Cile, l’organizzazione del movimento Naqa’a in Arabia Saudita.
In India, ad esempio, come sostiene Chiara Corazza, nel saggio “Il principio femminile/materno”, prima dell’introduzione dell’industria tessile, l’economia era basata sull’agricoltura di sussistenza, l’artigianato e il baratto. Il ruolo della donna indiana, in questa cornice, era quello tradizionale di cura della famiglia e della prole, un compito fondamentale ai fini del sostentamento della comunità. Questo tipo di economia e di società vennero poi distrutti prima dallo sfruttamento dell’imperialismo britannico, poi dal passaggio forzato all’industrialismo: le privatizzazioni delle risorse costrinsero, infatti, le donne indiane a lunghe ore di cammino per l’approvvigionamento, mentre gli uomini si dedicarono al lavoro in fabbrica (Corazza, 2012, 93). Ciò comportò la svalutazione del ruolo della donna, il cui contributo non veniva riconosciuto in quanto non monetizzabile, come quando si parla di lavoro domestico. Le società rurali sconvolte dall’industrialismo hanno di fatto obbligato le donne a lavorare per il mantenimento della famiglia, asservendo la donna al ritmo di produzione capitalista al pari dell’uomo.
In questa cornice, si mosse il movimento di protesta delle donne chipko, capeggiato dall’attivista ghandiana Sarala Behn. Le donne chipko venivano così chiamate perché facevano ricorso alla resistenza nonviolenta, abbracciando gli alberi e frapponendosi tra loro e l’ascia, per impedire che venissero abbattuti. Questa forma di protesta univa la lotta contro la deforestazione dell’Himalaya a quello dell’emancipazione della donna e si opponeva all’appropriazione delle risorse e ai danni causati dall’introduzione del neoliberismo in India, come afferma Corazza:
Gli effetti nefasti del neoliberismo con l’abbattimento delle dogane, l’introduzione dei diritti di proprietà con i brevetti alle sementi, la svendita e la privatizzazione delle risorse, l’appropriazione delle terre incolte per le monocolture […] si ripercuotono pesantemente sul mondo rurale indiano, sui piccoli agricoltori e soprattutto sulla donna. (Corazza, 2012, p.94)
Questo esempio, assieme a quelli finora forniti, dimostrano che, nonostante l’eterogeneità di scenari e contesti, il trait d’union di questi movimenti di protesta è la volontà da parte di un gruppo, principalmente di donne, di far sentire la propria voce in risposta a una grave minaccia percepita; una minaccia globale, che non riguarda soltanto il genere femminile, ma l’intera umanità e di cui l’attuale sistema economico globale è principale responsabile.
Il binomio natura e madre alla base dello sfruttamento eteropatriarcale
Un’altra questione da approfondire è quella che lega indissolubilmente la donna e la terra per il ruolo di genitrice comune a entrambe. La possibilità di creare vita è, tuttavia, l’elemento principale su cui l’eteropatriarcato basa il proprio sfruttamento, creando ruoli fissi e cristallizzati che non tengono conto del cambiamento della società. Il problema non consiste nel binomio donna-natura in sé, (cosa peraltro comune a molte culture nella storia e che si lega agli archetipi presenti nell’immaginario collettivo di molti popoli), quanto nelle aspettative della società odierna che considera ancora troppo spesso la donna un mero strumento riproduttivo o un contenitore vuoto da riempire, facendo leva sul senso di colpa e lo spirito di sacrificio. Stesso discorso vale per la natura: la visione androcentrica, di cui parlava Merchant, considera il pianeta alla stregua di un bacino di risorse infinito da cui attingere per il benessere dell’essere umano, che, in quanto specie privilegiata, non si assume la responsabilità etica di salvaguardare quello che è, in realtà, un organismo vivente. La donna e l’ambiente, secondo l’ottica capitalista ed eteropatriarcale, avrebbero, dunque, l’unica funzione di essere consumati dal sistema come prodotti usa e getta.
L’ecofemminista indiana Vandana Shiva in Staying Alive parlava di mal(e)development ovvero “malsviluppo” (dove in inglese è implicito il gioco di parole “male”, “maschio” e “mal” suffisso negativo), che si può leggere sia come malsviluppo economico, ma anche come malsviluppo del maschio nell’ambito del sistema eteropatriarcale. Da queste premesse, si evince che, se da un lato esiste un connubio tra donna e Terra, specularmente è presente quello dell’uomo-imprenditore che ha il controllo sull’ambiente, sui corpi e sulla riproduzione delle risorse che devono contribuire all’economia globale e all’aumento del PIL. (Donini, 2012, pp.5-9). Tuttavia, come sostiene Corazza, c’è qualcosa nell’equazione donna-madre-Terra che si può preservare, ovvero quei principi sani di nutrimento e cura del prossimo su cui fondare un modello di società inclusiva e basata sui valori umani. Se ciò avverrà, avremo educato le future generazioni a considerare l’essere umano non al centro, ma come una parte, seppur fondamentale, del tutto.
L’ecofemminismo da una prospettiva non-Occidentale
Dal quadro fin qui delineato, si evince che c’è un forte legame tra ecofemminismo e attivismo ambientale, seppur non siano mancate le critiche di essenzialismo. Secondo il Professor Muhamad Ali in “Integrating Islam and Ecofemism”, il dibattito tra problemi ambientali e discriminazione di genere è, infatti, lungi dall’essere semplice, dal momento che si intreccia continuamente con la dimensione politica, economica, sociale, culturale, storica e religiosa (Ali, 106). Ali ci offre, ad esempio, una visione esterna, in quanto non occidentale, che meriterebbe ulteriore spazio all’interno del dibattito. Secondo questa visione, l’ecofemminismo non è ancora oggetto di studio e di analisi nei movimenti ecologisti islamici poiché il rapporto tra donna e natura non è qui considerato un elemento centrale. Si predilige invece, la dialettica tra Oriente e Occidente e il ruolo giocato dall’imperialismo, che, come nel caso dell’India, avrebbe danneggiato l’ambiente e le società arabe con una modernizzazione e un’industrializzazione forzata. Le società arabe, infatti, attribuiscono all’Occidente la responsabilità di aver sfruttato le risorse endogene e inquinato i loro territori con l’introduzione di modelli di produzione dannosi (basti pensare a fenomeni quali l’agribusiness oppure al forte impatto ambientale causato dalla presenza di multinazionali e compagnie petrolifere in ambienti già caratterizzati da scarsità di risorse idriche). Da questo punto di vista, il ruolo della donna è passato in secondo piano e relegato a una sottocategoria a cui solitamente non viene data l’attenzione che meriterebbe.
Inoltre, va inoltre tenuto in considerazione il peso dal Corano nelle società musulmane. Nel Corano, infatti, sul piano ontologico, uomo e donna sono uguali di fronte a Dio, poiché giudicati in base alle loro azioni, mentre non ci sarebbe alcuna differenza per quanto riguarda le capacità spirituali, come sostiene la teologa Amina Wadud in “Qur’an and Woman: Rereading the Sacred Text from a Woman’s Perspective” (Wadud 1999, 34). Inoltre, il femminismo occidentale e quello islamico partono da presupposti diversi: il primo, prende le sue mosse dalla discriminazione biologica della società nei confronti della donna, il secondo si avvale del Corano per decostruire i pregiudizi su una presunta inferiorità delle donne nell’Islam, come riportato da Sarah Mohr in “Building and Islamic Feminism”, sintetizzando il pensiero di Wadud. Secondo i suoi studi e quelli condotti dalla Professoressa Nawal Ammar, qui, la relazione tra donne e uomini è sostanzialmente egualitaria e la disuguaglianza, laddove è presente, è più di tipo economico. I problemi odierni della donna musulmana sarebbero legati maggiormente all’eredità di alcune pratiche preislamiche o alle interpretazioni strumentali del Corano, come riporta Ammar in “Are Islamic Thinking and Ecofeminism Possible?”:
The equity that Islam grants women is not reflected in popular culture, economic opportunities, or formal substantive law. For instance, popular culture, as reflected in some Arabic proverbs, encourages violence against women (“if you break a girl’s rib, twenty-four other ribs will grow”), glorifies male offspring (“those who bear boys never die”), and encourages women’s dependence on men (“a straw husband is better than none”). Women’s participation in the paid labor force still remains marginal in most Muslim countries and the jobs they do take typically offer little power, prestige, or income. (Ammar, 2004, p.264)
Traduzione
“L’equità che l’Islam accorda alle donne non si riflette nella cultura popolare, in opportunità economiche o in leggi formali e materiali. Per esempio, la cultura popolare, come si evince da alcuni proverbi arabi, incoraggia la violenza contro le donne (“se rompi la costola di una ragazza, ne cresceranno altre ventiquattro”), esalta la prole maschile (“quelli che genereranno maschi saranno immortali”) e favorisce la dipendenza femminile dagli uomini (“Un marito fantoccio è sempre meglio di nessun marito”). La partecipazione femminile nella forza lavoro retribuita resta ancora marginale nella maggior parte dei paesi musulmani e i lavori svolti solitamente offrono poco guadagno, prestigio e potere.”
In questo passo, Ammar introduce un problema molto serio che è quello dell’accesso alle risorse e al mondo del lavoro. Ancora troppo spesso alle donne musulmane viene negata la possibilità di usufruire di opportunità che potrebbero migliorare la loro condizione economica e sociale. È proprio qui che questione ambientale e questione di genere vengono ad intrecciarsi. Infatti, garantire l’accesso alle risorse e i diritti secondo quelli che sono i veri dettami del Corano e dare alla donna un ruolo più attivo all’interno delle società arabe risolverebbe alcuni dei problemi che contribuiscono all’impatto ambientale tra cui, ad esempio, quello del sovrappopolamento:
The empowerment of Muslim women as humans is central to the discussion about population increase and its impact on the ecology. Unless we improve the conditions of Muslim women according to Islamic teachings, the discussion of family planning would be as relevant as talking to an incubator. This means including women as active participants in family, economic, and political decision making. This can only be made possible by improving the conditions under which they live and bringing equity and dignity to women. (Ivi, 2004, 265)
Traduzione
L’empowerment della donna musulmana dal punto di vista umano è centrale per quanto concerne il dibattito sull’aumento della popolazione e il suo impatto sull’ecologia. Se non miglioriamo le condizioni della donna musulmana secondo i precetti islamici, il dibattito sulla pianificazione famigliare sarebbe rilevante quasi quanto parlare di un’incubatrice. Questo vuol dire includere le donne come partecipanti attive nelle decisioni familiari, economiche e politiche. Ciò è possibile solo migliorando le condizioni di vita, dando equità e dignità alle donne.
La questione ambientale, dunque, va di pari passo con la salvaguardia dei diritti umani, civili e sociali non soltanto della donna, ma di tutte quelle categorie che non rientrano nei canoni previsti dall’eteropatriarcato. La questione femminile è ancora un tema estremamente attuale per il ruolo occupato nella storia dall’attivismo di donne che hanno lottato, ognuna diversa dall’altra per vissuto, provenienza, caratteristiche personali, con l’obiettivo di autodeterminarsi e ritagliarsi uno spazio di dibattito all’interno di una società gerarchica che troppo lungo ha tolto loro la voce. Ma questo è solo un tassello di un puzzle di storie di oppressione che si intrecciano le une con le altre. La mutualità e il recupero di un senso di collettività condiviso sono il punto di partenza per incidere su un sistema che, al giorno d’oggi, ancora crea compartimenti stagni, categorizza, divide. Creare interconnessioni tra le storie di lotta e resistenza globali permetterà di avere maggiore cura del pianeta su cui viviamo e di cui siamo parte integrante: una parte che, allo stato attuale, necessita di recuperare il suo legame ancestrale con la natura.
Bibliografia
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1 Definizione di Stefania Barca tratta dalla videorubrica “Le parole e le lotte: Pillole di un glossario in movimento”, di cui si raccomanda la visione: https://www.ecologiepolitiche.com/videoteca/le-parole-e-le-cose-eco-femminismo/.
2 Estratto di un’intervista raccolta da Marco Armiero in “Natura femminile, plurale: intervista a Carolyn Merchant”, pag 91.
Paola Saviano è nata a Caserta e ha studiato arabo ed inglese all’Orientale di Napoli. Nel 2014 ha svolto un tirocinio presso Banipal, rivista di letteratura araba in inglese di stanza nel Regno Unito. Ha perfezionato i suoi studi con un master in Lingue e Culture Orientali presso la sede IULM di Roma e ne sta attualmente svolgendo uno in traduzione letteraria ed editoriale dall’arabo all’italiano presso la SSML di Vicenza.”
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