Dal libro “L’oceano e altri giorni” (2005, Edizioni del Leone)
LE TARTARUGHE DI JUAN
(arribada delle tartarughe, Costa Rica 1995)
Pescatore pentito d’esser uomo,
stagliato d’aria densa
nell’incavo del giorno
Juan depone le sue lance arteriose,
certe liane che fissarono selci,
le rapide reti d’ingegno vegetale
che strinsero in rochi canestri
il conflitto d’argenti in movimento.
Attende l’eruzione del tramonto
sul plumbeo galoppo oceanico,
il rombo verde del fogliame
che perpetua latitudini,
il volume del colore che cade
nel pozzo nero della notte,
rivelando lingue di fuoco azzurro
nelle dimore inabitate.
Solide teste come pietre nude
di tartarughe ruminanti
affiorano a tratti dall’acqua cupa
arenandosi arrese lungo costa;
silenzioso come la sabbia
sommerge tra i flutti incendiati
il piccolo uomo Juan,
pescatore pentito o nuovo pesce,
sparisce nello strapiombo del sale
appagando le sue metamorfosi,
gravemente incorporeo vola
aggrappato al guscio cieco
delle sue immense farfalle.
Ricordo che tornerà sulla riva
con la notte nella gravida bocca
e un dono per me che sono rimasto;
dalle abissali evoluzioni
un frammento di goccia, o guscio, o stella,
che reco come amuleto notturno
dopo tanti luoghi o secondi;
ma basterà questa fragranza nuda
per l’ombra di una sola eternità ?
***
EL TREN QUE NUNCA LLEGA
(Cordillera Central, Costa Rica 1995)
Fugge un rettile di scaglie ferrose
strisciato su rotaie interminate,
soffiando sommersi reami
che un tempo furono comete
nell’arco delle aperte praterie,
portandosi un gregge di nomi crudi
che mai appresero a parlare,
ad esser microbi delle miniere,
bestie aggiogate nelle piantagioni;
ma questo treno che non giunge,
che non parte, che più non viaggia
dove l’attendono irti ricordi
alla lotta del puro sole irreparati,
ipnotici meticci all’orizzonte
come severe statue conficcate,
donne dense con figli e polli
sulle schiene fibrose come tronchi,
bimbi che giocarono nudi,
legnose stazioni che marcirono
sotto l’acqua di secoli ellittici
e vecchi accovacciati sulle scarpe
che prestarono al vento puntuali
le loro orecchie rosicchiate
accogliendo fragori d’altre terre,
cani randagi, rugosi e insolenti,
compagni di provvisori padroni
nell’orma di binari ingurgitati,
fino a che il giorno iniquo non travagli
e nuvole inferme sciolgano
arcoiris come pesci lucidi
nell’ora dell’arbitrio quotidiano
di questo treno che non giunge,
che non parte, che più non viaggia,
che anche noi attendemmo arresi
nella moltitudine silenziosa
di questa essenziale solitudine.
***
GIAGUARO
(Cordillera Sur, Costa Rica 1995)
Il netto giaguaro nel suo cuore notturno
incrocia il liquido sentiero che percorro
dove ombre da sempre necessarie
aumentano mucose lontananze.
I suoi occhi di fenditura gialla,
di strapiombo incendiato nel silenzio,
di giungla cupa dove la luce non giunge,
mi guardano freddi senza vedermi,
mi trapassano come fitte nere
inchiodandomi all’aria che si addensa;
così ci annusiamo appiattendo
la miscela dei nostri corpi,
la distanza guardinga che protegge,
l’attonita attesa dei nervi
che cattura l’ordine occulto
dell’acqua e della sete.
Sostiamo immobili, trattenuti nel fango
dalle nostre paure parallele,
dal puro istinto che conserva
il colore del mimetismo;
la pioggia che vive cadendo
ci sferza e ci svapora contro,
fluisce nei fiumi segreti
di questa selva visionaria,
obliqua la nostra fermezza
di momentanei minerali.
Lo squarcio nel cielo ferroso
fissa il tempo in metà inaccessibili;
ma il lampo nero non attende
l’esito del caso o della notte,
infila come una freccia perduta
il verde gocciolante che conquista
foglia dopo foglia la mia essenza.
Ma perdurerà l’ombra tesa delle selve
nel tuo netto cuore notturno,
o silenzioso, slegando mattini.
***
Dal libro “nuovomondo” (Passigli 2010)
Ma ho viaggiato, sì, ho viaggiato in terre
denudate e so che mai termina l’esodo
e sempre volge la densa aria del Sud
il suo pudico umore in vegetali
orbite, e nel sinistro umidore
tendono freschi stami e svettano linfe
in trasparente monito; ed è un lamento
di legno abbattuto o d’uomo negato
all’inagibile giorno con solo un piede
incatenato al palo, perché il futuro
è una terra d’intenti fradicia
di convenienze, se troppo lento
giunge il cambiamento e una specie
devolve il suo futuro, la memoria
di come è lieve il mondo e dal fondo
della selva stenta l’ombra che più
non genera il prolifico gettito,
si arrende all’istante presente e tutto
ciò che abbiamo, che ci resta volgendo
gli occhi, con sguardo in provvisorio
equivoco mira a distogliere l’uomo
dall’uomo, non intende ma usa come
moneta qualsiasi affanno, mutando
così l’attesa dimensione.
***
Ma se torniamo al primo istante, al gesto
in cui gli amanti si conoscono,
si odorano, si invadono, sguainando
perfette latitudini, stami e spiragli
dal vento escoriati, umidi d’improvviso
e necessari d’urgenza, destando
dove un esodo nuovo di metalli,
sudore e sostento agita gli occhi
con fiuti sconosciuti, e il reciproco
bene aumenta nel soffio lanceolato
d’un bacio; se torniamo dove tutto
è cominciato e segue senza muovere,
né accadere, né dividere, se copriamo
il tragitto a ritroso senza ledere nulla
con solo il tempo davanti, indietro fino
al placentare liquido, all’inedita
essenza e al complesso stupore, tuttavia
senza irridere la vera intenzione,
l’attesa dove tutto può nascere,
il giorno previo quando apparve vivo
il firmamento; tremerebbe allora
il possibile mondo, la terra
genitrice che slega mattini,
la manuale ruota che sostiene
il giogo dei villaggi e la donna
nel suo mulino rinchiusa.
***
Ma lontana è la terra e senza sonno,
in improvviso stallo le acque opache
accolgono inquinate chimiche e non c’è
che metallo nel futuro frastuono,
carte ignobili dalla stessa
frenesia sciupate che viaggiano colme
di elusioni silenziose, oceano
che amaro schiuma dietro l’ultima
nave, stanco di lignaggi umani;
selva vivida, disamorata e schiva,
spiegaci ancora la sintesi dell’aria,
la linfa necessaria o solo
l’ergersi del senso, perché la rondine
dormendo sogni di cantare e gli amanti
siano sempre animali di luce
circondati e di bellezza, come si aggrappi
al corpo l’atmosfera ricordandoci
gli etimi scomparsi e le specie
inevitabilmente perse; perché
era un dono infine questo mondo dove tutto
nasce, questo disgregato astro,
in apparenza, di fertilità
e fermezza, prima della somma
e dell’inchiostro, prima del miraggio
e dell’incuria, prima di tutto o forse
solo prima di tante vite
al dolore destinate.
***
Perché sempre si ricordi chi ha mentito, chi
di noi lo sgarro ha suppurato con fango e
sale, conoscendo ancor prima che l’uomo
estesamente ferito risulta senza fine
sconfitto e lascia nel vuoto future
discendenze, per certo intuendo
che l’ignoranza rende il mondo
una facile preda, o la fame che in tumultuosa
resa fuori accalca, con mosche sulle ciglia
accovacciate in paziente attesa
del suo costante ripudio e dell’ennesimo
procurato scialo; prima ancora di tutto
costui ha saputo il risultato
di tanta indifferenza con ogni possibile
variante e secretata strategia, tanto
a fondo il suo peso ha conosciuto
da non cedere all’incuria che preme,
al disadorno affanno o al condannato
nascituro. Ma la terra è dappertutto colma
di orizzonti e l’acqua tuttavia
non giunge dimezzata sulla riva,
mostra la luce al giorno come appena nata
il suo imparziale greto e salta vivo il pesce
tra le mani del mutuo pescatore,
come se ancora il mondo
fosse nuovo.
***
Dal libro “Viaggio incolume” (Passigli 2017)
Lui sente come monta questo magma in notti
fuorviate e allentate dai liquori, sotto cieli
buccellati da pianeti che gemono a fasce
sopra praterie e vivenze, l’assioma
lungo mesi inabitati e il lauto gravame
delle copule animali; lei sorpresa
sbigottita ad ascoltare il cronico e sordo
disaccordo della terra, con tutto
nei suoi pressi che respira e che lieve
s’irriga dentro un orcio necessario; i rosa
fenicotteri salpati durante
l’afflato zigrinato delle piogge, le doglie
che si odono cadere e sui legni l’arare
degli insetti senza un nome, l’armare
delle chele di scorpioni che sotto la coltre
hanno trovato un abituro, silenzio
delle nottole notturne che arieggiano
in volo questa cupida inflessione;
allora lei comprende come tutto
nel cogito esiste in una stessa dimensione,
un essere del tutto comprensivo e come
controvento l’aspra notte stia dicendo «vedi
la vita non lontano sta figliando, c’è
il suo aroma sulla costa e dentro l’aria, c’è
il suo azzardo con scintilla quasi umana, c’è
quel lezzo del melmoso alligatore che in ispidi
giorni sta ingoiando la sua preda e tutto
esiste in uno stesso movimento, in questo
inane inamidato spaziotempo, l’hai
sentito appena fuori dalla porta da sempre
socchiusa su una giungla o solo soglia
di un confine immaginato dal futuro.»
***
Ma voglio vivere finché non muoio – auspica lui
dal futuro approssimato – finché esisto
con qualcosa d’infinito che attende gli uomini
ogni volta che ricordano, ricordano
una volta e senza fine che furono amati
dal tramonto a un altro mondo, sconfitti
dal lucore senza dolo di tante stagioni
che le api inventarono, per renderci
sapevoli al miraggio di eteree fortezze
che domani svampiranno; perché
per ogni bacio c’è una lampada che accendono
labbra desolate che si amarono, cadendo
nello iato di ogni guerra che agli esseri tocca
di comprendere e lenire, oltre gli asti
che i corpi diteggiano
quando perdono il vero.
***
Tomaso Pieragnolo è nato a Padova nel 1965 e da trent’anni vive tra Italia e Costa Rica. La casa editrice Passigli ha pubblicato il suo ultimo libro “Viaggio incolume” (novembre 2017) e nel 2010 “nuovomondo”, finalista al Premio Palmi, Metauro, Minturnae, rosa finale del Premio Marazza e vincitore del Saturo d’Argento – Città di Leporano. Fra le sue precedenti raccolte “Lettere lungo la strada” (2002, premiato al Città di Marineo e finalista al Guido Gozzano di Belgirate), “L’oceano e altri giorni” (2005, finalista ai Premi Libero de Libero, Guido Gozzano di Belgirate e Ultima Frontiera di Volterra, vincitore del Premio Minturnae Giovani). Una sua selezione di poesie scelte è stata pubblicata in spagnolo dalla Editorial de la Universidad de Costa Rica e dalla Fundación Casa de Poesía (“Poesía escogida”, 2009). La sua attività di traduttore di poesia latinoamericana si è svolta dal 2007 in collaborazione con la rivista Sagarana, nella quale ha proposto principalmente autori del Costa Rica e del Centro America, non ancora tradotti in Italia, e con alcune case editrici che hanno pubblicato le sue traduzioni di Eunice Odio (“Questo è il bosco e altre poesie”, Via del Vento 2009, Menzione Speciale Premio Camaiore per la traduzione, e “Come le rose disordinando l’aria”, Passigli 2015 in collaborazione con Rosa Gallitelli, finalista Premio Città di Morlupo e Premio Città di Trento), di Laureano Albán, (“Gli infimi crepuscoli”, Via del Vento 2010 e “Poesie imperdonabili”, Passigli 2011, finalista Premio Internazionale Camaiore, rosa finale Premio Marazza per la traduzione) e di Juan Carlos Mestre (“Non importa ormai vivere bensì la vita”, Arcipelago Itaca, marzo 2019, Menzione Speciale Premio Camaiore per la traduzione).
Ha partecipato ad alcuni Festival di poesia nazionali (Pordenonelegge, Poetry Vicenza, Fiera delle Parole di Padova, Quota Poesia di Trento, Cartacarbone di Treviso) e internazionali (Festival di Poesia di Granada in Nicaragua e Festival Internazionale di Poesia Costa Rica).