PAESAGGI IN PRESTITO
Marion Poschmann, traduzione di Paola Del Zoppo
Del Vecchio Edizioni 2020
Il rapporto tra l’umano, la natura e quello tra la creazione poetica e la “realtà” sono le immediate chiavi di lettura di questa raccolta, trascinano con sé una scia di tematiche e riflessioni ben evidenziate da isotopie terminologiche e strutturali. Il sottotitolo “poesie didascaliche” è dunque dedicato a una poetica del nostro abitare il mondo. Il tono elegiaco, richiamato nella seconda parte del sottotitolo, è qui altrettanto importante: è il tono della ricerca della poetessa del proprio luogo d’osservazione. Paesaggi in prestito ha una struttura estremamente rigorosa, come rigorosa è l’aderenza all’occasione narrativa, la tecnica del “paesaggio preso a prestito” con cui si progettano, secondo antichi insegnamenti cinesi, porzioni di giardini, includendo parti del paesaggio che si ritengono di arricchimento per l’animo, e tagliando fuori dalla vista ciò che non è essenziale. Poschmann segue questa tecnica compositiva e ci presenta il giardino da lei concepito. In nove sezioni di nove poesie ciascuna, ci apre le 228 sue visuali sul Baltico, gli Stati Uniti, la Germania e l’Oriente, con particolare attenzione al Giappone, evitando accuratamente, o se vogliamo, evocando per sottrazione, i luoghi tipici della descrizione lirica tedesca, vale a dire il percorso del Grand Tour che tocca il vagheggiato sud. Ogni sezione è composta di testi di fattura totalmente differente, ed è in sé un’unica lunga poesia, non solo per la sua collocazione descrittiva, allocata, ma soprattutto per l’energia vorticosa sviluppata dalla concentrazione di “figure”. Il moto poetico che tende a scartare ed espellere ciò che non è necessario, e a inghiottire ciò che invece risulta essenziale, è ciò che rende possibile la focalizzazione, cioè la ricerca e la “decisione” di un punto di fuga, ma diventa esso stesso movimento irresistibile, in cui la continua stratificazione costruisce la trama dell’immaginario. (Estratto dal saggio conclusivo di Paola Del Zoppo, Paesaggi in prestito)
Per gentile concessione della casa editrice si pubblicano alcune poesie
Tutti i diritti sono riservati
UNA RISPOSTA AL GELO COMPLETAMENTE DIVERSA
Betulle, gialle. Febbricitanti betulle. Tra loro il vento
dal circolo polare e in quel vento la miseria
del territorio. Il pensiero di pantofole. Di nuovo attivo
l’immaginario di me tra pareti. Febbre di betulle. Carelia,
terra di Siena, limone. Ciò che ondeggia già
si propaga. Betulle febbricitanti
si rimestano nel latte bollente col miele, un moto
del cucchiaio e si lasciano andare al gorgo.
Siamo noi la nebbia d’autunno, soffice e onnipresente.
ANTICO
Frammenti in cant-style fluttuano nell’aria.
Le teste di uomini famosi pendono alle pareti. Tutto
di pietra. Il coro della marina canta il suo canto
dell’Apocalisse, a un volume che raggiunga anche
i veterani duri d’orecchio. Teste appese alle pareti di casa.
Ritratti privi di erbacce.
Il coro della marina canta il suo canto, nel Cafè tedesco
e la guida russa. Canta di prue orientate ad ovest, navi
e aerei rovesciati, come a provare l’esistenza della parte
anteriore, su cui scivola il sole, giorno dopo giorno in parata
sulle piazze cittadine, per ogni anima assoggettata che giri
nel sole di mezzogiorno.
Altrove, ossa e materia emotiva: medaglie, cartucce e ragazzi
in uniforme. Sentimenti, sedimenti, patrioti. Nella memoria
cosa decanta, cosa riposa? Tra lo strascinio delle scarpe di passanti
sconosciuti vanno uomini con canna da pesca e zaino mimetico.
Il loro eccesso collettivo è percepito in verde: a macchie, a righe,
paradisi per pesci.
MONACO E VERGINE
Dormi in posizione allungata e stabile sul ciglio
delle Alpi, sul ciglio della zona a quadri rossi che indica
sulle carte il pericolo di slavine. Uccelli planatori
si avvitano alle tradizionali immagini di regioni sciistiche
e l’aria viziata in tipiche quantità domestiche si raccoglie
negli angoli, sale fino alle sfavillanti nubi del mondo.
Eccoci in questa tensione di rocce e di neve.
Vorresti la segretezza radicale del paesaggio adulto,
contemplativo, vesti sacrali, ricchezza di pieghe
della lingua. Somigliava a un carlino agghindato d’argento,
via le sillabe come si gettano le bacche acerbe, palle di neve
dopo una frase lunga e intrecciata.
Le tue dita che sfuggivano completamente al controllo
sociale, giravano ancora sul feltro grigio
delle montagne, spingendo bandiere rosse e bianche
negli strati più deboli fino alla coltre invernale.
Indicatori del freddo toccavano i lembi
zone a rischio, diorami di neve.
VIE DEI CERVI — DA WANG WEI
Montagna vuota. Non si vede nessuno.
Solo voci umane che risuonano.
Siamo sistemati sotto i massi come in arresto.
Sospettati. Dai da mangiare alle carpe in terrazza
con la vista sulla parete a picco, la cima avvolta di nubi,
che trae energia da ciò che la circonda.
Eserciti in segreto le mani in pose che non ti si
addicono, mostri le nocche bianche come al tempo
in cui ricevemmo per regalo di compleanno
una manciata d’olio versata a luccicare nello stagno in giardino.
Tu allora passasti la notte all’incrocio di una strada
respiravi ondate di fari rotondi, una coperta
di lana sulle spalle, stampata con daini dal
manto puntinato, e tempestata
di pieghe da usura
come questa latifoglia, che scintilla
nella luce calante della sera, da cui all’improvviso
qualcosa ti cade addosso e ti impedisce di proseguire
uno scintillio empatico, una rete da caccia di
argento filato, che ti fa contorcere nell’oscurità.