POESIE VEGETALI /GREEN POEMS
Lino Angiuli
A cura di Maria Rosaria Cesareo e Barbara Carle
Edizioni di Pagina, Bari, 2021
di Antonio Lillo*
Poesie vegetali / Green Poems di Lino Angiuli, è un’opera antologica bilingue, italiano e inglese americano (ma non solo), a cura di Maria Rosaria Cesareo e Barbara Carle, pubblicata dalle edizioni di Pagina con il sostegno del Consiglio Regionale della Puglia. L’edizione, di grande pregio estetico, ha in tal senso una triplice valenza: antologica, recuperando una parte rappresentativa del lavoro poetico di Angiuli fin dai suoi esordi; critica, selezionando i testi e presentandoli in virtù di una particolare ragione “ecologica”; ambasciatoria, nell’ottica di un espatrio nell’ottimo (e non facile) lavoro di traduzione di Barbara Carle, assegnando ad Angiuli, anche in virtù della sua assidua attività di divulgatore, il ruolo di poeta più adatto a comunicare, o meglio ancora a “trasportare” una cultura nel nuovo continente. Lino è infatti condirettore di una rivista che ha per titolo programmatico incroci e che fa dunque dell’incontro, in una mitologia per certi versi affine a quella americana, uno dei suoi nodi cruciali.
Lui stesso, in un’intervista rilasciata alla Cesareo, ebbe a definirsi in tre aggettivi: «“umile” (da humus, salvando quindi la valenza semantica “post-rurale”); “provenzale” (cioè aspirante a praticare le cortesie del cuore promosse e promesse da certi solari climi culturali); “corale”, perché non so fare a meno di sentirmi mediterraneamente calato dentro un “noi”, un orizzonte plurale che trascende, nel tempo e nello spazio, la dimensione soggettiva all’insegna dell’agorà» (Atelier n.57, marzo 2010).
Già lì c’è tutto Angiuli, che tira le somme della sua poetica molti anni prima di venire raccolto in questo volume assai particolare per storia e carattere. Innanzitutto perché nasce, come Eva, dalla costola del precedente Addizioni (2020), che presentava l’originaria selezione di Maria Rosaria Cesareo, curatrice del Fondo Angiuli presso la biblioteca Mons. Amatulli di Noci. E poi perché nel suo plurilinguismo – in cui vengono a convivere oltre all’italiano e all’americano della Carle, il dialetto di Valenzano, “neoangiulismi” ovvero neologismi di pura marca angiuliana e pertanto intraducibili, e in un paio di casi altre lingue del mondo – non fa che riprendere e aumentare quanto realizzato in opere precedenti di cui Viva Babylonia (2007) rimane la summa. Dunque non va intesa come un’eccezione nella sua bibliografia, ma come un’opera in piena coerenza con un percorso ben delineato.
So mise a bagne
u core ind’alla notte
che le fasùele.
Me dj’e moulliá
lou min coer ’ndinz la nou.èt
coun li fasoel.
Ho messo a bagno
il cuore nella notte
con i fagioli.
I marinated
my heart during the night
with beans.
Haiku in lingua dialettale di Valenzano; traduzione in franco-provenzale di Giancarla Pinaffo; traduzione in lingua italiana dell’autore. La traduzione in lingua inglese è di Barbara Carle.
Non bisogna farsi ingannare dal titolo, Green poems potrebbe dare adito a una vena “ecologista” del poeta Angiuli; il quale avverte: «per me ecopoesia non vuol dire una poesia che si occupa del mondo naturale e del pianeta, ma una weltanschaung che propone il decentramento della posizione umana rispetto a quello delle altre creature e del cosmo come conditio sine qua non per acquisire un salto evolutivo». Basta leggere uno dei testi centrali del volume, So nate jind’alla terre de le pete [Sono nato nella terra delle pietre] per rendersi conto del senso di questa affermazione. È l’unico tratto dall’opera Daddò Daddà (2000) ed è posto come chiave di volta fra gli estratti di due raccolte seminali, Catechismo (1998) e Cartoline dall’aldiqua (2004).
La poesia è scritta nel dialetto di Valenzano, con relativa trasposizione italiana, e in essa il poeta riassume la propria “epifania vegetale” nel segno di una “umiltà” quasi religiosa, di una religiosità venata d’ironia: «Sono nato nella terra delle pietre / una debolezza all’orecchio / e un difetto al piede / mio padre e mia madre erano di campagna / campavano di fatica e non di soldi / e più di una volta mi portavano con loro / fu proprio là / in campagna / che imparai ad essere pianta / vidi il sole mezzo diavolo / e mezzo santo / fu là che senza libro né quaderno / trovai davanti in mezzo al fondo / nientemeno il padreterno / vestito verde da ulivo / a dire chi sei tu e chi sono io» (pag. 78). Da una parte si dipana un filo già lanciato da una lirica contenuta in La parola l’ulivo (1975) nella quale veniva riscritto addirittura il padrenostro (pag. 35): «padrenostro ulivo / che sei in terra e per fortuna ci rimani / dacci oggi il nostro tozzo di lotta quotidiana». Dall’altra chiude i versi una nota bassa che ha il sapore antico e definitivo di un motto popolare, perché in Angiuli il succo della terra dove mettere radici è pregno di storia e di voci: «fore se nasce fore se more» ovvero «in campagna si nasce e in campagna si muore».
Il motto riassume la filosofia che ha sempre accompagnato Angiuli fin dalla sua primissima raccolta, Liriche (1967), ancora venata di romanticismo postadolescenziale. Nel testo in apertura di questa raccolta invocava un luogo e un tempo per morire: «datemi un po’ di terra senza sole» (pag. 31). Presto si sarebbe accorto che il posto migliore per farlo era proprio l’orto dietro casa, luogo fuori dal tempo persino nella ciclicità delle stagioni, dove non è dato scomparire, ma rimescolarsi con la terra e poi rinascere pianta, frutto, ramo, filo d’erba. Da qui un percorso che lo porterà – attraverso gli sperimentalismi di raccolte importanti come La parola l’ulivo, Campi d’alopecia (1979) e dell’ormai introvabile e “provenzale” Amar clus (1984), sempre alternatisi a pregevoli e intense prove dialettali, specie nella sezione elegiaca di Di ventotto ce n’è uno (1991) – al capolavoro assoluto, per magia d’invenzione e musicalità sensuale del verso, di Catechismo, in cui il canto di Lino si dispiega, in «un sogno / troppo fintroppo meridionale» (pag. 73), in un vero e proprio canzoniere degli ortaggi (dalla nera melanzana al finocchio perpetuo).
L’orto festeggia l’onomastico del sole
fantasticando d’essere un deserto. Lentamente
assorto quasi inerte
calvi pensieri e guance di cera
il melone ce la sta mettendo tutta
per tradurre il letame in preghiera
e mostrare coram populo il miracolo
più che solenne della sera.
Tanto Catechismo concentra un luogo preciso dell’anima, quanto le raccolte successive esplodono in una geografia che spazia, sulla lingua, nel Mediterraneo e oltre. Le cartoline dell’aldiqua sono prima di tutto città invisibili, puntate sulla carta a tracciare i confini di un Sud edificato su fondamenta di vento, immaginato sopra una piantina. Se l’orto diviene misura di un tempo dilatato, di una storia tanto umana quanto archetipica, le cartoline sono puro spazio scenico, meta senza arrivo, mappa di una geografia del cuore in continuo mutamento, tutta in divenire e spesso basata sul potere evocativo di un nome. Ecco che scrive, in Saluti da Punta Meliso, poesia dedicata ad Antonioverri e a Salvatoretoma (tutto attaccato): «Che si dice da quelle parti? dove / sicuramente mirto è trasparente? e / melograno snocciola i suoi più garbati silenzi? / uno ad uno senza dare nell’occhio? / e che vi pare? del nostro destino? / sbattuto da mezzogiorno a mezzanotte? / come se dobbiamo pagare per forza / il pegno di un peccato? commesso / contro l’idolo guercio dell’assenza?» (pag. 83).
Da qui, da Marzagaglia, da Punta Meliso, dal monte dell’alba, ci si lancia rocambolescamente verso la sua ultima produzione, per certi versi la più rigorosa (specie nello schema metrico tutto basato su una rigida numerologia), eppure la più sperimentale e barocca. Barocco, avverte Lino, può far rima con scirocco (pag. 41), quindi con un vento che viene dal sud a renderci folli per scompigliare le nostre carte in tavola; ma come scrive lui stesso in Continente a sud: «io credo nel dio vento che significa / nel dio vento che parla al futuro» (pag. 53).
Non per nulla Addizioni è dedicato a Giordano Bruno. E Angiuli è a suo modo profondamente barocco, se svisceriamo il termine nei suoi più ampi significati: negazione della centralità dell’uomo nell’universo; tensione all’infinito; musicalità ardita e amore per l’arguzia, i giochi di parola con uso di termini che vanno dal prezioso al popolare al neologismo, fino all’italiano impastato col dialetto, con virtuosismi tecnici che attingono tanto alla tradizione letteraria quanto all’innovazione tipografica – basti vedere le griglie di alcune sezioni di L’appello della mano (2010), Ovvero (2015) e Addizioni, da lui stesso impaginate in qualcosa che non è più verso né prosa –. Barocco, ancora, come trait d’union del Sud, se è vero che il nostro Sud è intriso di barocco spagnolo, che ridisegna ogni cosa, persino i modi della fede, dalla facciate modellate nel tufo delle chiese fino ai santi di cartapesta e ai Misteri incappucciati nelle processioni. Ma barocco anche come aderenza al vero, al realismo, spesso declinato nel comico e nel popolaresco e inteso, in senso catechistico, secondo i dettami della Controriforma, per la diffusione di una “religione della verità” tesa a un rinnovato rapporto, nel segno della fede, con la realtà fenomenica del mondo.
Ecco che il poeta italiano forse più vicino ad Angiuli, per la costante tensione a spingere e allargare i confini della lingua, sconfinando nel gioco, nella cantilena, nel dialetto, nell’annullamento del singolo (io) nella pluralità delle voci (noi), prediligendo l’ambiente naturale e quotidiano, i campi, la stalla, riconoscendo dignità d’individuo al più umile dei fiori e amandolo in se stesso e non come metafora dell’uomo, suo povero riflesso, non è il salentino Vittorio Bodini, di cui pure Lino è un erede diretto nell’idea di poeta del Sud che guarda oltre il Sud, ma l’altoveneto Andrea Zanzotto.
Mi piace davvero squagliarmela dall’emisfero
dove vige l’obesità di zuccheri e farine zerozero
farcite con solite chiacchiere da cimici umane
imbambolate dal balletto di piatti e di bottiglie
voglio provare invece ad abitare dall’altra parte
dove campa la zucchina alla poverella dei padri
la spio finché non fa capolino tra foglie pelose
e fior di tromba che accompagnano il mattutino
sceso dal cielo insieme ad un odore novellino
quindi un coltellino in gamba me ne fa rondelle
coricate a pigliare il sole che sembra un leone
poi viene il momento della padella che fa frrr
in compagnia di un aglio compaesano pure lui
mentre l’aceto e la menta attendono impazienti
di far la parte loro e di finire il servizio col sale
ed ecco un miracolo degno di santo francesco
il seme tramutato in comunione di umile bontà
per ristorare l’anima la gola e pure il borsellino.
In un panorama lirico che ormai predilige l’asetticità del verso, spogliato di qualsiasi valenza ritmica, e uno sguardo il più possibile oggettivo, può spiazzare l’uso creativo, intimo, ammiccante e spesso giocoso della lingua di Angiuli, il suo verso plastico e musicale, pieno zeppo di rime interne e accostamenti arditi, di accenti ritmici, dettati da una facilità d’invenzione e da una verve istrionica che si traduce, dal vivo, in una non comune capacità interpretativa; lingua che non ha vergogna di mostrarsi e sa come non prendersi sul serio. Ecco che in Mi piace davvero squagliarmela dall’emisfero declina giocosamente e gioiosamente molte parole dei versi in -lino (capolino, novellino, coltellino, borsellino) così da rimandarle sempre al proprio nome Lino, demistificando l’io poetico invasivo in un diminutivo.
Il ricorso all’ironia o a una spiccata sperimentazione linguistica, però, non bastano da soli a rendere conto di un percorso così ampio e sfaccettato. Resta invece aperta l’interessante problematica del tema “vegetale” messo in evidenza da questa antologia, lì dove la poetica del Nostro fa continua fusione di persona e persone («tutto quello che mi fa sentire tuo e mi fa sentire noi», pag. 101), di persona e ambiente («dobbiamo rappezzarlo noi e ripiantarlo insieme», ivi); lì dove supera il “tu” di marca novecentesca e scarta l’io/occhio-camera caratteristico di questo primo ventennio del secolo – “io” che registra ma si esclude, osserva ma evita il contatto, in una sorta di timore-rifiuto-ripulsa del mondo – e gli oppone di contro, con innata leggerezza, un atto di riscossa vitalistica («per rivelarmi ad un tratto che il fiat era fatto di fiato», pag. 127) di continua riscoperta, di meraviglia, di assunzione del mondo di stampo quasi pentecostale (corpo che si mangia o si fa mangiare e infonde spirito), affine ancora una volta a certa poetica americana – che però si muove su ben altre vastità di spazi – ma condita dal sale di una saggezza popolare di pura marca meridionale, dove l’io si ridimensiona e si perde nel tutto di un fazzoletto di terra; viene toccato, accarezzato, provato, assaggiato, masticato, ruminato, digerito, assimilato e defecato; viene quindi riplasmato dal letame, attraverso la parola («tradurre il letame in preghiera»), in un corpo nuovo, pantagruelico e arcimboldesco, unico e “corale”, vegetale.
Chiudo allora queste note con un mio ricordo di Lino Angiuli, che nell’estate del 2020, parlando dell’appena pubblicata Addizioni, volle presentarmi di persona il protagonista della sezione finale della sua raccolta, a cui il poeta dava voce, indirizzata all’Umanesimo per dirgli addio. Era il Cappero cresciuto sul limitare dell’orto.