INTERVISTA A LUCIANO FLORIDI
Viviamo connessi e interconnessi, con l’avvento di internet e social media, la nostra vita e le nostre relazioni si intersecano in una realtà che non si può considerare più solo virtuale ma aumentata su piani di contenuto e di possibilità infiniti. Quali sono le implicazioni etiche e quali le riflessioni conseguenti?
Lo abbiamo chiesto al Professor Luciano Floridi, massimo esperto in materia, filosofo italiano, direttore di ricerca e professore di filosofia e etica dell’informazione all’Università di Oxford, Oxford Internet Institute, è anche Membro del St Cross College; Ricercatore Membro onorario del Uehiro Centre for Practical Ethics; Research Associate e Membro in Politica dell’informazione presso il Dipartimento di Informatica, nonché membro della Facoltà di Filosofia. Al di fuori di Oxford, è Professore a contratto (“Distinguished Scholar in Residence”) del Dipartimento di Economia, American University, Washington D.C.
Ringraziamo sentitamente il Professor Floridi per questo contributo.
La prima domanda riguarda la definizione della categoria “onlife” che si oppone a “online” e ne è un’evoluzione. La contaminazione semantica nel termine inglese suggerisce l’idea di una dimensione sociologica (e ontologica) molto ampia, in cui vedere la sovrapposizione di reale e virtuale che le ICT hanno comportato. Quali opportunità e minacce da questo stato di cose?
“Onlife” nasce dalla combinazione di “online” e “offline”. Ho coniato questo neologismo alcuni anni fa per evidenziare la natura ibrida delle nostre esperienze quotidiane, in parte digitali e in parte analogiche. Ancora negli anni novanta, accendevamo e spengevamo il modem. Ci “connettevamo” a Internet; o “andavamo” su Internet. C’era una netta divisione tra essere online e essere offline. Ma la telefonia mobile aveva già rivoluzionato il concetto di reperibilità (sempre) e collocazione (ovunque). Ci eravamo già abituati a chiedere “dove sei” al cellulare. Con la diffusione del Web e delle sue piattaforme, degli smart phones e tablets, e l’arrivo della così detta Internet of Things, ci siamo abituatati infine a interagire dentro lo spazio dell’informazione digitale. Non lasciamo mai l’infosfera, altro neologismo che ho introdotto tempo fa per parlare del nuovo luogo in cui passiamo buona parte del nostro tempo. Questo non vuol dire essere perennemente online. Vuol dire che non ha più senso chiedere “sei online?” a una persona che ha uno smart phone in tasca, magari uno smart watch al polso, mentre sta parlando con noi attraverso il Bluetooth della propria autovettura, seguendo le istruzioni del navigatore per districarsi nelle strade di Roma. Da un punto di vista sociale, il vero digital divide oggi è tra chi può vivere onlife e chi invece non può, o perché non è connesso o perché deve connettersi. Si pensi ai tipi di servizi erogati, alla socializzazione, al tipo d’istruzione e lavoro, alla riduzione dei costi, alla moltiplicazione delle funzioni e delle facilitazioni fornite dal digitale, e così via. Un altro modo per spiegare la stessa situazione è osservare che il digital divide si pone tra chi vive onlife, in smart cities, e chi invece vive in ambienti (città, periferie, are rurali) del tutto analogiche. Dobbiamo assicurarci che tutti abbiano le stesse opportunità. Perché sono le persone onlife che determinano la vita di quelle che onlife non sono.
In prospettiva la centralità della vita “digitale” nella vita “umana” sarà sempre più consistente, quanto conta la capacità di “autodeterminarsi” dell’individuo in questo rapporto, considerando la profonda relazione uomo-macchina, i cui confini sembrano sfuggire al controllo soggettivo?
La capacità di autodeterminarsi ha sempre avuto un altissimo valore. Ma oggi è soggetta ad una pressione nuova e intensa. Parte della vita onlife che conduciamo è vissuta in costante relazione con meccanismi e processi digitali automatici o autodeterminantisi che facilmente tendono a influenzarci. Senza scomodare scenari fantascientifici, o complotti internazionali, siamo sempre più soggetti a pubblicità, suggerimenti, scelte prestabilite, che influenzano il nostro comportamento silenziosamente, ogni giorno, senza che spesso ce ne accorgiamo. Il motore di ricerca di Google, per esempio, lascia come default una ricerca senza vincoli cronologici. Se si vuole cercare informazioni relative solo alle ultime 24 ore è possibile, ma richiede uno sforzo, che pochi fanno. Amazon ci suggerisce che cosa potrebbe piacerci, visto quello che abbiamo appena acquistato. Netflix ha delle raccomandazioni sul prossimo film che vorremmo vedere estremamente accurate, e moltissimi le seguono. La nuova versione del sistema operativo dell’iPhone ci dice anche quando e come dovremmo dormire. La nostra autonomia viene erosa. Piacevolmente. Pigramente. Il rischio è che si finisca per essere spupazzati dalle nostre tecnologie, che tendono sempre a rinforzare e non a sfidare le nostre inclinazioni e scelte.
Mi ha sempre impressionato l’incongruenza tra la facilità di accesso ai social, cosa che suggerisce l’idea di un utilizzo fortemente user friendly, e invece le complicatissime regole e norme che rendono “pericoloso” il mezzo ad un utilizzo non consapevole. Eticamente che implicazioni si possono leggere?
I social media sono disegnati per attrarre il maggior numero di persone il più a lungo possibile. Il loro fine ultimo è: tutti, sempre. Per questo sono come delle carte moschicide. Utilizzarli con consapevolezza, criticamente, piegarli alle proprie esigenze, adattarli alle proprie scelte, è possibile ma non è facile. Tra le tante implicazioni etiche di questa situazione, forse vale la pena evidenziarne due. Oggi si lascia troppa responsabilità per un uso salutare e intelligente dei social sulle spalle degli utenti. Siamo animali sociali, se ci si da l’opportunità di socializzare lo facciamo, in modo spropositato. Per usare un’altra analogia, è come aprire un negozio di dolci gratuiti a dei bambini ma dicendogli che poi sono loro responsabili per quello che mangiano. Troppo difficile e in parte ingiusto. “Non ci mettere in tentazione” si raccomanda il padrenostro. La seconda implicazione lampante è l’assenza di alternative. Usando la stessa analogia dietetica, ci sono solo ristoranti che vendono cose magari buone ma alle lunghe poco salutari. Fuor di metafora, lo stato dovrebbe intervenire, come fa (bene o male non importa, l’idea c’è) con parchi, biblioteche e informazione pubblica, in modo che chi vuole possa avere un’esperienza onlife non commerciale e commercializzata.
L’informazione transdiegetica della comunicazione digitale è un concetto molto affascinante, oltre a tradurre l’attualità della “grammatica” della rete. La nostra tradizione umanistica contempla un contesto di linguaggi tradizionale come ad esempio quello letterario in cui le narrazioni sono state finora intese come capacità di tradurre in “finzione” la realtà. Adesso si può dire di trovarci in una condizione di narrazione continua, realtà che diventa narrazione, storia massiva “onlife” appunto. Una realtà distopica? Quali sono in confini di cui tener conto?
La distinzione tra diegetico e non diegetico è classica. In una narrazione, tutte le informazioni interne sono diegetiche. Possono essere acquisite dai personaggi, che per esempio possono ascoltare il pianista che suona nel club in Casablanca. Quelle non-diegetiche sono invece esterne, e solo per noi, che guardiamo Casablanca e ascoltiamo la colonna sonora. Sappiamo già che le informazioni non-diegetiche (colonna sonora) possono diventare diegetiche (si pensi alla famosa scena di Apocalypse Now in cui la cavalcata delle valchirie fornisce sia la colonna sonora sia la musica ascoltata dai marines durante l’attacco degli elicotteri) e vice versa (si pensi allo sfondamento del quarto muro e all’interazione con il pubblico in Shakespeare). Ho introdotto il concetto di transdiegetico per evidenziare un nuovo fenomeno in cui la dinamica tra diegetico e non-diegetico è interattiva e controllata dall’utente. Si pensi ai videogiochi e più in generale a tutte le tecnologie digitali “wearable”, con applicazioni sportive e mediche di monitoraggio e valutazione del proprio stato di salute. Diventiamo noi stessi attori in una narrazione che, grazie all’interazione, rende certe informazioni diegetiche (le percepisco) o non-diegetiche (non le percepisco) secondo il nostro comportamento. Il mio peso in chili è un dato non-diegetico (non lo percepisco) che posso rendere diegetico appena salgo sulla bilancia, ma soprattutto posso interagire con esso, per esempio modificando la mia dieta. Questa è la transdiegesi. È una realtà né distopica né utopica, ma molto ricca di conseguenze in entrambe le direzioni, secondo come la gestiamo, o meglio impareremo a gestirla.
Ci illustra brevemente il concetto di “iperstoria”?
La storia si può definire in tanti modi ma uno classico ci dice che la preistoria finisce e la storia inizia quando una società scopre il modo di registrare il presente per usi futuri, il che vuol dire inventare una qualche forma di scrittura. Usando questo criterio, possiamo dire che la preistoria ha iniziato il suo declino circa seimila anni fa, con la comparsa della scrittura in Mesopotamia e in Cina. Non è ancora del tutto terminata perché sono rimaste alcune tribù amazzoniche che vivono ancora preistoricamente, cioè affidandosi solo alla memoria biologica della generazione vivente. Con la scrittura, la storia ha iniziato a collegare il benessere individuale e quello sociale con il progresso delle forme di registrazione e comunicazione umana. Questa connessione si è fatta sempre più stretta: si pensi alla trasmissione del sapere o alla codificazione della legge. Il momento più significativo è stato raggiunto con Gutenberg: solo l’invenzione della stampa può competere per importanza con l’invenzione dell’alfabeto. L’arrivo del computer ha comportato una terza radicale trasformazione: siamo passati dalla registrazione e comunicazione alla processazione delle informazioni. La connessione tra benessere e ICTs (Information and Communication Technologies) è diventata una dipendenza: oggi le società avanzate vivono e prosperano solo grazie alle strutture informazionali che le sostengono. È per questo che possono esser soggette a cyberattacks. Ecco che allora dobbiamo parlare di una storia ancora “più storica” della storia stessa: siamo passati dalla storia all’iperstoria.
In che modo convergono filosofia, etica e informazione?
Ogni epoca ha la sua filosofia, che pone le domane giuste e fornisce le risposte necessarie. Oggi è chiaro che la filosofia e l’etica di cui abbiamo bisogno deve occuparsi del fenomeno dell’informazione. Perciò la filosofia dell’informazione è la filosofia del nostro tempo per il nostro tempo.
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