L’agguato delle marionette – una conversazione con Ariel Luppino
(Nota e intervista a cura di Emanuela Cocco)
Quando il sipario si alza, sono già al loro posto, seduti davanti a un secchio, con in mano un coltello affilato, istigati da un coro di voci azzurre, a spellare, smembrare, eviscerare: sono i reclusi del Centro di Detenzione, i protagonisti di “Le brigate”, il romanzo di esordio di Ariel Luppino (Edizioni Arcoiris, 2020 – collana “Gli eccentrici” diretta da Loris Tassi, con la traduzione di Francesco Verde e la postfazione di Federica Arnoldi).
In un futuro non meglio specificato, a Buenos Aires, in Argentina, i diritti civili sono stati soppressi a causa di una terribile emergenza sanitaria, un’epidemia inarrestabile, forse generata dai topi, che ha preparato il terreno alla delirante dittatura del Milite, intenzionato a provocare un nuovo conflitto bellico per la riconquista delle isole Malvinas. Per arginare la diffusione del morbo, ma anche per esercitare senza nessun freno la propria vocazione alla distruzione e all’abominio, il Milite ordina ai suoi soldati, le brigate del titolo, di deportare gli infetti in appositi centri fuori dalla città, dove diverranno schiavi, utilizzati come forza lavoro, su cui sfogare sadici rituali di sopraffazione. I prigionieri, addetti alla pelatura dei topi, sono condannati a ripetere all’infinito determinati gesti raccapriccianti. Picchiati, stuprati, caricati sui camion e condotti verso carceri fatiscenti e segrete, in cui verranno torturati, umiliati, derisi, questi personaggi si trasformano presto in marionette spaventose, senza voce e dignità, che sembrano uscite da un macabro racconto di Thomas Ligotti. Ho coinvolto Ariel Luppino, autore argentino qui al suo esordio, in una conversazione sul labile confine che separa l’essere umano dalla marionetta, l’orrore che è insito nell’arbitrario esercizio del potere, sulla rappresentazione della violenza, il peso della storia e della tradizione nella creazione del mondo letterario e l’evocazione di un passato che a volte sembra prefigurare il futuro prossimo, in modo del tutto inaspettato.
MARIONETTE
E. C.
Per cominciare vorrei parlare con te di marionette. Il tuo romanzo ne è pieno. I personaggi, compreso il protagonista che è anche la voce narrante, vengono trattati come oggetti inanimati, a cui vengono tolti gli organi, sui quali vengono messi alla prova degli strumenti di tortura, che vengono vestiti e svestiti di continuo di ruoli e identità e manovrati dagli altri come non avessero volontà propria. La loro caratterizzazione li rende spesso simili a fantocci o marionette protagonisti di uno spettacolo assurdo, e questo mi ha fatto pensare all’opera di Thomas Ligotti. Lo conosci, ti sei mai confrontato con la sua poetica?
A. L.
Conosco Thomas Ligotti. Una persona che scrive “La cospirazione contro la razza umana” ha tutta la mia simpatia. Vedo i personaggi come possibilità narrative. La loro identità non è confusa, ma fluttuante. Credo che la nostra vita sia la narrazione che raccontiamo a noi stessi, in prima istanza. E poi agli altri. In un certo modo è una rappresentazione, e noi manovriamo parte dei fili. Ma non siamo soli in questo grande teatro che è la vita. E questo Ligotti lo sa meglio di chiunque altro.
STORIA E INVENZIONE
E.C.
Nel tuo romanzo un’orrenda calamità si abbatte su Buenos Aires e ci viene suggerito che la ragione di questo morbo è da ricercarsi nei topi, però poi in modo quasi irrazionale nel Centro di Detenzione si continuano a spellare, eviscerare topi e questi topi sono anche uno degli alimenti principali nella dieta dei reclusi. In una delle scene viene anche descritto un rito inventato dal Milite in cui il topo deve essere sviscerato e mangiato crudo, mi chiedo se forse ci stai dicendo che noi esseri umani siamo gli artefici della nostra rovina e che ci stiamo nutrendo di quello che poi ci ucciderà? C’è un tema ecologista nel tuo romanzo?
A. L.
Non lo so. Credo che questo sfugga alle mie intenzioni. Non dico che questo aspetto non sia presente nel mio romanzo: dico soltanto che non è stato intenzionale. In molti vedono nel mio romanzo una profezia, considerando che a Buenos Aires è stato pubblicato alla fine del 2017, però io non posso farmene carico. Ho scritto ciò che ho scritto. I lettori devono trarre le proprie conclusioni. Ma se io leggo le profezie come se fossero romanzi, perché gli altri non potrebbero leggere i miei romanzi come se fossero profezie o favole ecologiste?
E. C.
Un altro tema importante è quello della sospensione dei diritti che avviene a seguito dell’emergenza sanitaria, mi piacerebbe approfondire con te questo aspetto che trovo attuale. Come è nato questo scenario apocalittico che poi si è rivelato di anticipazione di qualcosa che due anni dopo, con le dovute eccezioni, ci siamo davvero ritrovati a vivere?
A. L.
Questo lo vivo con grande frustrazione. Perché all’inizio mi sembrava un argomento molto romanzesco. Ma alla fine la realtà è arrivata dove ero giunto io, anche se lo ha fatto attraverso altri mezzi. Ricordo di aver avuto un’idea pazza tempo fa a proposito di insetti che ne trasformavano altri in parassiti e li usavano come se fossero zombie. Scrissi un romanzetto molto delirante e divertente. Ma in seguito un’amica mi mandò una nota di una rivista scientifica molto seria che era più o meno come il mio romanzo, ma con una prosa che non aveva nulla di divertente. Allora scartai il romanzo, ma successivamente mi sono reso conto di aver fatto un errore, perché l’unica cosa che importa di un romanzo non è la trama bensì la grazia della sua prosa.
E. C.
A proposito di storia e realtà: nel tuo romanzo racconti, anche se in modo indiretto, con un trattamento letterario che si sgancia immediatamente dal resoconto dei fatti storici, la tremenda vicenda della dittatura argentina, con le carceri improvvisate, le sparizioni, il dolore di un popolo che veniva spiato e torturato, ma lo fai senza cadere mai nella cronaca o nella semplice ricostruzione storica, e crei di fatto un mondo a parte, un mondo che non esiste ma che somiglia in modo inquietante al nostro. Mi sembra che tu riesca a realizzare con la letteratura uno sconfinamento dalla storia ma senza abbandonarla mai del tutto, mantenendo con il passato un legame indissolubile. È come se con il tuo romanzo realizzassi una fuga interpretativa, come se tu dicessi: possiamo abbandonare questo mondo ma mai del tutto, fuggendo dalla storia la rivoluzioniamo ma la portiamo con noi, spingendo sempre oltre il confine tra quello che è stato e quello che abbiamo creato. La letteratura, quindi, è la nostra unica possibilità di eludere i confini geografici, politici e storici che ci costringono a una condizione dalla quale vogliamo fuggire? Può la letteratura ancora oggi avere una portata rivoluzionaria?
A. L.
Nella presentazione de Le brigate qualcuno ha detto che il mio modo di narrare il passato in maniera artistica, allucinata o allucinante, ci consente di vederlo meglio rispetto a qualunque descrizione realistica. Se il romanzo parla di un futuro, un futuro distopico ma decisamente possibile, possibile perché è un futuro già accaduto nel passato, ossia un futuro anteriore, questo non lo so. Ma ho fiducia nel potere rivoluzionario della letteratura, un potere proteso all’infinito. L’immaginazione è l’arma più potente che possediamo.
LA RAPPRESENTAZIONE DELLA VIOLENZA
E. C.
Restando ancora un attimo ancorati al tema della repressione dei diritti, dell’esercizio del potere in un regime dittatoriale, mi interessa molto discutere con te della rappresentazione della violenza. Leggere Le brigate mi ha riportato alla mente un saggio di Pierandrea Amato, In posa – Abu Ghraib 10 anni dopo (Cronopio, 2014) in cui l’autore riflette su quello che è accaduto nel 2004, quando le foto scattate all’interno del carcere irakeno di Abu Ghraib, in cui i soldati americani, in posa, sorridenti, si mostravano alla telecamera mentre torturano i prigionieri, vennero rese di dominio pubblico.
Il saggio di Amato inizia con una descrizione inquietante, una piramide di corpi nudi, una catasta di corpi e davanti a questi corpi, in posa, due soldati americani, vicini, come abbracciati. Nel saggio vengono mostrate diverse foto, scene che provocano repulsione, scene di violenza e sopraffazione che hanno in comune il fatto che i carnefici che vi sono ritratti, ridono, o sembrano scherzare con la violenza che stanno esercitando sul prossimo.
Anche il tuo romanzo inizia con delle scene di violenza che contengono elementi di distorsione umoristica, di negazione apparente del dramma che i reclusi stanno vivendo. I prigionieri sono i giocattoli dei soldati, proprio come gli uomini ritratti in quelle foto.
Ecco io mi chiedo se alla base di un romanzo come “Le brigate”, in cui tu crei un inferno per i personaggi, ma anche per i lettori, c’è stata da parte tua la volontà di creare immagini che rendessero evidente e problematica una crisi che ci coinvolge tutti, un legame tra la vittima e il carceriere che esce dalle carceri per raccontare la società in cui tutti viviamo? La tua costruzione letteraria, ambigua, e sorprendente, non ha forse come scopo proprio la chiamata a una interpretazione del testo che vada oltre il testo, una interpretazione che presuppone una presa di coscienza, un agguato etico al lettore?
A. L.
Per me Le brigate è un romanzo sulla rappresentazione della violenza, ma non sulla violenza. Tutto questo terrore e condizionamento sono presenti, ma questa atmosfera opprimente è interessante come qualunque altra situazione. Bisogna imparare a goderne. Nella letteratura si può godere. Nella vita non si può fare altro che soffrire per questo tipo di circostanze, ma la letteratura è qualcosa di completamente diverso dalla vita reale.
E. C.
E tu, come autore, sembri godere dello spaesamento che provochi nel lettore. Una delle cose che più mi ha colpito di questo romanzo è la voce narrante. Mi piacerebbe approfondire l’atteggiamento che come autore assumi nei confronti del pubblico. La tua prosa precipita il lettore in un inferno in cui non c’è tregua. Un parossismo di orrore e sofferenza, che però ha un trattamento letterario che definirei freddo, quasi irridente. Sembri desiderare prenderti gioco del lettore, metterlo sotto pressione e levargli anche il conforto di una identificazione con il narratore della storia. Perché questo assalto brutale al lettore?
A. L.
A me interessa la spettacolarità senza effetti speciali. E questo ci è dato dal linguaggio e dalle immagini che ne conseguono. Quando finiscono queste immagini, mi sembra che il romanzo sia finito. Quando questo avviene, non c’è più nulla da raccontare. Non mi piacciono i romanzi che sono una sorta di preghiera, che trovano un tono e vogliono sostenersi solo con quest’unico tono. Il lettore legge tre pagine e dice: “Ho capito tutto.” C’è una cadenza, una respirazione, un tono che suggeriscono qualcosa. Tutto ciò è importante, eppure un romanzo del genere perde di vista l’elemento romanzesco. D’altro canto, credo che al lettore non si debba mai dare ciò che si aspetta né ciò che cerca: bisogna lasciarlo godere della delusione e del piacere della novità. E il lettore non deve identificarsi con nessun personaggio della storia, bensì con lo scrittore; il lettore deve credere ciecamente soltanto nel potere della letteratura.
E.C.
C’è un momento sconvolgente nel romanzo, ed è quando il protagonista, questo personaggio senza nome, racconta un rapporto sessuale con la donna che ama e che vive con lui.
La cosa sconvolgente è la pervasività delle immagini violente, della realtà capovolta e piena d’orrore in cui i personaggi vivono, una realtà popolata di topi, di strumenti di tortura, parole umilianti, aggressioni fisiche e verbali, che invadono l’immaginario erotico delle vittime e che diventano per loro uno strumento di eccitazione e di soddisfacimento sessuale.
In tutto questo un autore si trova davanti al dilemma se far rivivere e creare, per renderlo visibile, lo spettacolo della violenza correndo il rischio di contribuire con la sua opera ad alimentarlo e promuoverlo. Spesso viene contestato alle opere che raccontano la violenza di esserne complici, di sdoganare la violenza in un’opera artistica che diventa portavoce di certi valori discutibili, e quindi di promuoverla all’interno della società che fruisce di questa narrazione. Tu cosa ne pensi?
A. L.
La violenza è nella lingua. La lingua è la materia con cui parliamo tutti i giorni e con la quale scriviamo romanzi, per questo a volte perdiamo di vista la risonanza che hanno le parole. Le parole incidono in noi in modo psicologico e questo a volte produce una perdita di prospettiva, una naturalizzazione che bisogna rompere. Bisogna far emergere l’odio e la violenza che si nascondono nel linguaggio. E a quel punto viene in superficie la violenza. E la si può percepire pienamente, ma la violenza già era lì: nella lingua, in attesa.
TRADIZIONE
E.C.
Come mi ha fatto notare Loris Tassi, quando abbiamo parlato del tuo romanzo, il tuo scagliarti in un certo senso contro gli epigoni di Juan José Saer (tu citi nel romanzo “Glossa” e chiami il tuo protagonista uno scrittore anti-saeriano) sta a significare che da parte tua affermi che la tua tradizione letteraria è un’altra, è una tradizione sotterranea, delirante, che ha come modelli non uno scrittore come Saer ma altri nomi, come Osvaldo Lamborghini e di certo Alberto Laiseca, che citi nel romanzo. Io ho trovato, infatti, molti punti di contatto tra la tua opera e quella di Alberto Laiseca.
Il parossismo della violenza, le descrizioni iperboliche degli atti di tortura, una tortura così mostruosa tanto da sembrare inverosimile, i cattivi da fumetto, caratterizzati in modo eccessivo, volubili, contraddittori, il loro folle libero arbitrio, l’insensatezza degli ordini e delle loro disposizioni.
Altro elemento da notare è il tono di derisione che investe la narrazione, l’assoluta libertà inventiva, la mancanza di melodramma.
Nel mondo de Le brigate tutto è orribile ma anche naturale e quotidiano. Niente è straordinario perché tutto viene ripetuto all’infinito, e sembra non esserci un limite da raggiungere nell’esercizio della sopraffazione da parte del potere. I ruoli non contano, il potere è sempre terribile e iniquo. Mi tornano in mente il racconto di Laiseca Il cecoslovacco o anche altri di Uccidendo nani a bastonate. Ci parli del tuo rapporto con la scrittura di Laiseca, dei punti di contatto con la sua voce letteraria e il suo immaginario e di come invece hai rielaborato in modo tuo personale alcune suggestioni già presenti nella sua opera?
A. L.
Laiseca e Lamborghini non hanno la pericolosità di Aira e Saer. Sono due scrittori impossibili da copiare. Potrei seguire tranquillamente la tradizione di Laiseca e Lamborghini -se questa tradizione esistesse- ma sarei sempre condannato a fare qualcosa di nuovo. Mi sembra che siano scrittori generosi anche contro la propria volontà. Voglio dire, sono generosi a forza di essere egoisti. Sono maestri che non permettono che ci siano discepoli. Per questo, ognuno deve essere il proprio maestro. E per questo Lasieca e Lamborghini sono i migliori maestri. Per questo sono così grandi. Sicuramente li sento affini, perché ridiamo per le stesse cose. Ma le nostre risate sono molto differenti.
E.C.
Ho notato un gusto nella tua opera per l’effetto scenico, il colpo di teatro, penso alla scena raccapricciante del teatrino in cui compare il burattino con la testa di topo. Mi chiedo se hai mai scritto per il teatro.
A.L.
Non ho scritto nulla per il teatro perché mi interessa che questa dimensione teatrale compaia nei miei romanzi. Per me nel teatro delle ombre cinesi, ad esempio, è una questione di forma: un espediente narrativo come qualunque altro. Il linguaggio entra in conflitto quando compaiono le forme: non si può ridurre un oggetto che presumibilmente è un coltello a un coltello. È come il quadro di Magritte “Questa non è una pipa”. La rappresentazione lì non implica l’oggetto. Questa rappresentazione è mediata da una tela e non è neanche l’oggetto della rappresentazione. Ha a che vedere con il fatto che ciò che è metaforico diventa letterale. È una spettacolarità senza effetti speciali. Questo è ciò che dovrebbe essere per me la letteratura. Poi si vedono grandi quantità di romanzi pieni di fuochi artificiali, e questo è ciò che mi interessa meno. Preferisco la teatralità della lingua.
PERTURBANTE E PAESAGGIO
E.C.
Mi interessa parlare con te del concetto di Perturbante. Cosa è per te Perturbante? Cosa, secondo te, traccia un confine netto, un limite tra umano e non umano?
A.L.
Ciò che ci rende umani è la capacità del linguaggio, o forse ciò che ci rende umani è la letteratura. Dalla Bibbia ad oggi tutto è stato un racconto, un romanzo dopo l’altro. E anche prima basta pensare ai poeti che recitavano i racconti delle Mille e una notte o cantavano i ditirambi ionici. Mi sembra importante sottolineare che, sebbene si pensi sempre alle origini orali della letteratura, sarebbe più interessante evidenziare le origini ritmiche. Parafrasando l’ebreo che scrisse la Bibbia (a cui mi sono inchinato con riverenza e rispetto nel corso dei millenni), all’inizio era il ritmo. I ditirambi furono cantati piuttosto che recitati, un po’ alla maniera dei tanghi di Goyeneche.
Questo è qualcosa di molto presente nella letteratura argentina gauchesca. Gli ottosillabi sono una metrica molto coerente con l’accentuazione del castigliano nella sua variazione del Rio de la Plata, poiché i dodecasillabi sono per la variazione spagnola: ecco perché l’età dell’oro. Ma la letteratura gauchesca ha una musicalità ottosillabica. Osvaldo Lamborghini trasferì quel ritmo in prosa (ricordiamo che la letteratura gauchesca è scritta in versi: da Hidalgo a Hernández, senza dimenticare Ascasubi). Questo è il grande contributo di Lamborghini alla letteratura argentina. Ma ancora una volta non è l’oralità come molti credono, ma il ritmo. Quindi Lamborghini non scrive con una punteggiatura normalizzata. Se si leggesse la Bibbia in ebraico, penso che si troverebbe ciò che io trovo nell’Opera di Osvaldo Lamborghini.
CONFINI
E.C.
Nel caso del tuo romanzo i personaggi sono sempre sul punto di varcare il confine tra la follia e la sanità mentale, sul punto di diventare disumani e anche la forma del romanzo opera uno sconfinamento dei generi. Quindi vorrei chiederti cosa è per te il confine? Qual è il confine, se esiste, che la letteratura non deve superare? Quale invece deve sempre proporsi di far superare al lettore?
A. L.
Ma a cos’è la follia? Un discorso inaspettato? Penso che l’unica cosa davvero inaspettata sia la letteratura. Penso che il narratore de Le brigate sia correlato – come ha notato Federica Arnoldi – ai narratori di Laiseca in romanzi come È il tuo turno o Avventure di un romanziere atonale. Ancora una volta, è necessaria un’assoluta fiducia nel potere epifanico della letteratura. Perché, come ho detto poco fa, la letteratura non arriva a una verità attraverso il ragionamento ma mediante la rivelazione. E il narratore de Le brigate non pensa: è in estasi (è qualcosa che prendo di nuovo in prestito da Federica Arnoldi). Non ci sono limiti nella letteratura perché non ci sono limiti all’immaginazione. In ogni caso, la lingua deve essere attorcigliata in modo da poter dire qualcosa di nuovo. I miei personaggi non sono meno disumani dei personaggi di Polleri o Bellatin, ma sono personaggi! Per il lettore sarebbe importante tenerlo presente. Il lettore non deve dimenticare che sta leggendo un romanzo, non sta guardando la vita, come direbbe Macedonio Fernández.
E. C.
Mi racconti come è stato vedere il tuo lavoro tradotto? Avevi paura fosse difficile riportare nella nuova lingua alcune parole e giri di frasi particolari? Il libro tradotto è un altro libro? Ti sei confrontato con il traduttore?
A. L.
Borges una volta ha detto che la sua mancanza di conoscenza dell’italiano era perfetta. E tale era anche la mia condizione quando si è presentata la possibilità della traduzione. Borges ha imparato l’italiano leggendo la Divina Commedia durante i viaggi in tram che faceva tutti i giorni. Attraversava la città da un capo all’altro per andare da casa sua alla biblioteca dove lavorava. Prima ha letto i versi originali e poi una traduzione in inglese. D’altra parte, io posso dire di aver imparato l’italiano leggendo Le brigate. In poche parole, Francesco Verde è stato il mio Dante Alighieri. Il ritmo mi ha affascinato: il ritmo dovuto in parte alla lingua e in parte all’inventiva del traduttore. Francesco Verde mi ha fatto pochissime domande. Ma quando mi ha inviato una citazione dall’originale, ho scoperto con stupore e persino terrore che non era scritta in spagnolo. Questa è stata una delle grandi scoperte che l’esperienza di traduzione mi ha portato. Conde De Boeck ha scritto sulla quarta di copertina de Las maquinas orientales (il mio secondo romanzo) che mi esprimo in “un infernale gaucho-lunfardo”. Sul momento l’ho preso come uno scherzo. Ma alla fine mi sono reso conto che questa battuta era molto seria. Francesco faceva domande su alcuni dettagli, ma non capivo come aveva potuto capire il resto. In altre parole, Francesco aveva un doppio o triplo lavoro: prima doveva tradurre in spagnolo e poi tradurre in italiano. Traduttori come Francesco Verde dovrebbero essere milionari, amati e rispettati da tutti. Cosa posso dire? È uno dei miei scrittori preferiti.
Ariel Luppino: ( Monte Grande , Provincia di Buenos Aires , Argentina , 1985) è uno scrittore argentino. Ha pubblicato i romanzi: Le brigate ,Club Hem, 2017 e Le macchine orientali , Club Hem, 2019. L’autore costruisce un progetto che si oppone all’attuale letteratura argentina, (noto il suo rifiuto degli scrittori contemporanei che seguono l’impronta di Juan José Saer ), e la sua scrittura viene accomunata all’estetica delle tradizioni trasgressive della letteratura argentina: Alberto Laiseca, Marcelo Fox , Osvaldo Lamborghini.
Emanuela Cocco ha scritto per il teatro e per la tv. È redattrice della rivista di drammaturgia contemporanea Perlascena. Suoi racconti e contributi critici sono stati ospitati su alcune riviste, tra queste: Achab, Script, Lo Spazio Bianco, Verde, L’irrequieto, CrapulaClub, Donne Difettose, Malgrado le mosche, Horror, Flanerì, Zest. Con il racconto Mappa ha partecipato alla raccolta “Le parole sono importanti”, Dots Edizioni, 2018. Con il racconto Demiurnare ha partecipato alla raccolta “Vocabolario minimo delle parole inventate”, a cura di Luca Marinelli (Wojtek, 2019). Collabora come docente alla Scuola Macondo – l’Officina delle Storie. Tu che eri ogni ragazza (Wojtek 2018) è il suo primo romanzo.
La traduzione di Barbara Stizzoli. | Tutti i diritti riservati.