I fratelli Michelangelo |
Vanni Santoni – Mondadori 2019
Antonio Michelangelo è un uomo che ha attraversato il Novecento: dirigente di alcune delle maggiori aziende del paese, artista riconosciuto in più campi, i suoi risultati pubblici sono eguagliati solo dai disastri privati che è riuscito a inanellare. Un giorno, dopo anni di silenzio, i suoi cinque figli, avuti da quattro diverse compagne, ricevono da lui un solenne invito a raggiungerlo a Saltino di Vallombrosa, la località in mezzo ai boschi della Toscana dove si è ritirato. Quattro di loro – Enrico, Louis, Cristiana e Rudra -, ognuno con aspettative diverse, si mettono in viaggio da Tel Aviv, Bali, Londra e Stoccolma per partecipare a questa misteriosa riunione familiare.
Santoni ci racconta le vite dei quattro fratelli e li conduce uno dopo l’altro verso l’appuntamento col padre: Enrico, cresciuto nella convinzione di essere figlio di un altro uomo, sta passando un periodo in Israele proprio alla ricerca delle radici del suo presunto padre; Louis si barcamena da anni tra lavoretti in un villaggio turistico di Bali, tentativi imprenditoriali nel subcontinente indiano e traffici illeciti; Cristiana, ossessionata dall’ambizione di emergere nella scena dell’arte contemporanea, si sposta convulsamente tra le capitali europee di tendenza in cerca di una svolta; mentre Rudra, sportivo e biologo, si è trasferito giovanissimo il più lontano possibile dalla sua famiglia disfunzionale, ha sposato un ragazzo svedese e oggi lavora in una scuola materna. Per la prima volta nella storia della famiglia, i fratelli saranno sotto lo stesso tetto: cosa vuole da loro Antonio Michelangelo? È forse in fin di vita? Vuole disporre delle sue ultime volontà? Oppure ha deciso di rivelare ai figli qualcosa di importante, terribile, inconfessabile?
Una galleria di personaggi memorabili, ognuno geniale e fragile a modo suo; un intreccio tanto solido quanto imprevedibile; una penna che spazia con maestria tra i registri letterari: siamo di fronte all’opera della maturità di un romanziere puro, capace di costruire un’epica familiare contemporanea degna del Wes Anderson dei Tenenbaum e del Franzen delle “Correzioni”.
qualche domanda all’autore:
in dialogo con Vanni Santoni
La figura del padre Antonio Michelangelo, rappresenta il connubio di concretezza manageriale e culto delle arti, auspicabile in molti contesti di lavoro e che ci ricordano figure di ispirati uomini d’azienda. Come arrivi alla scelta di questo personaggio, possiamo leggervi un messaggio?
Antonio Michelangelo è nato abbastanza tardi. Ha cominciato a formarsi davvero, a uscire dallo stato di ombra, quando Enrico era già in buona parte scritto, Louis iniziava a prendere forma e c’era già una idea di Cristiana. Inizialmente la sua “chiamata” doveva essere un modo per raggruppare questi personaggi, oltre a Rudra (e Aurelia che poi non andrà), ma attraverso i loro ricordi ha preso via via più consistenza, fino a diventare a ogni effetto il quinto protagonista. Il suo stesso nome nasce inizialmente – ben prima di scoprire che i primi cognomi “Michelangelo” furono registrati al censimento del 1861 e quindi di arrivare a tutte le cose che quel cognome porta con sé nel libro – dal ribaltamento di Michelangelo Antonioni, dato che inizialmente non immaginavo un eclettico, un uomo universale minore, versato in tutto ma davvero geniale in niente, oltre che uomo d’azienda, ma un genio in un solo campo. Le cose sono poi cambiate, ho capito che sarebbe stato più interessante, ma soprattutto più adatto al libro, per ragioni che lascio scoprire alla lettrice e al lettore, così. Ovviamente pensavo a figure, prettamente novecentesche, di uomini d’azienda capaci anche di essere artisti affermati come ad esempio Volponi, ma poi, come sa chi ha letto I fratelli Michelangelo, il personaggio è diventato molto più istrionico di simili modelli, a tratti quasi cialtronesco, e ha trovato però anche un afflato ulteriore nella sua vocazione spirituale.
Una domanda all’editor: vista la consistenza “massimalista” del tuo romanzo ti chiedo come si gestisce e come prende forma un intreccio così complesso come una saga familiare? Quali sono i vantaggi di questa scelta e quali le insidie?
Riprendo in parte quanto raccontato alla rivista Il rifugio dell’Ircocervo: l’idea di scrivere un romanzo di un certo respiro, ambientato in tanti luoghi nel mondo, la covavo addirittura dal 2009: dopo Gli interessi in comune, che era già corale ma ambientato quasi solo nel Valdarno, abbozzai un libro che poi non ha mai visto la luce, in cui c’erano due fratelli che giravano l’Europa; era diviso proprio per città e strutturato per alternanze. Il fratello era un perdigiorno che faceva una sorta di Interrail fuori tempo massimo; la sorella una raver che girava i luoghi più improbabili del continente al seguito delle carovane free tekno (ripensandoci, fu lì che cominciai a elaborare la mia esperienza in quel mondo e quindi ad affrontare temi emersi poi più dettagliatamente in Muro di casse). Dietro ai viaggi dei due fratelli c’era anche l’ombra di una storia familiare, sebbene completamente diversa da questa: la loro era una famiglia vittima della noia; il padre e la madre erano diventati degli esseri inerti, sordi a ogni stimolo. Si trattava dunque di un romanzo del tutto differente, ma in cui cominciava a filtrare l’ambizione di realizzare una grande narrazione transnazionale.
Quel testo alla fine rimase inedito e lo accantonai senza troppi lutti, del resto era appena arrivata la proposta di Laterza per un “Contromano”, che divenne poi il fortunato Se fossi fuoco arderei Firenze. Nel 2012, prima di buttarmi sulla saga di Terra ignota e su Muro di casse, mi tornò l’idea di provare a fare il “grande romanzo”, un’idea che si manifestò sotto la forma di tre immagini scollegate tra loro. Nella prima c’era un tizio che andava a trovare un suo amico in un carcere di un paese in via di sviluppo; mi sa che avevo appena letto un reportage da una galera dominata dalle “maras”, quelle gang giovanili centroamericane efferatissime, e mi ero immaginato una scena in cui uno andava a trovare un suo amico a cui avevano rotto tutti i denti… Era una scena interessante perché chi non ha denti parla in modo ridicolo, sicché c’era un contrasto tra l’estrema drammaticità della cosa e il fatto che fosse buffa – il che la rendeva ancora più tragica. All’inizio la scena era nata così, scollegata da qualunque aspirazione narrativa, anche se sapevo che poteva andare da qualche parte: chi erano quei due? Perché uno era dentro e l’altro fuori? Da lì sarebbero nati Louis Michelangelo e il suo amico-socio Carlo Felici.
La seconda immagine nasce da un gesto: un giorno, mentre stavo guardando la mia biblioteca, mi prende lo sghiribizzo di trascrivere tutti i volumi in mio possesso, di fare una sorta di catalogo. Ora, la mia biblioteca è all’apparenza abbastanza disordinata, dato è divisa per “aree di potere”: i libri per me più importanti – quelli che emanano più mana, se vogliamo – sono nel mezzo, quelli di media potenza stanno intorno, e quelli che non hanno potere magico sempre più ai lati… Al di là di questo, mi misi a trascrivere i vari titoli, e la cosa affascinante fu che di ogni libro subito si legava a dei frammenti di biografia; mi ricordavo dove l’avevo letto, comprato, o chi me lo aveva regalato. Questa scena la troviamo in piccolo nella parte di Enrico: lui a un certo punto va alla casa dei genitori a San Giovanni Valdarno e vede dei libri, specialmente quelli che lo avevano persuaso a fare Lettere, e inizia a capire che forse erano arrivati in casa attraverso Antonio Michelangelo. Lì ovviamente ho cambiato tutto: i libri di Enrico non sono per forza i miei preferiti; alcuni sì, ma tendenzialmente sono sia i libri più adatti a lui e al suo carattere, sia una sorta di legenda dei testi citati all’interno del libro stesso. Tutto l’apparato intertestuale, invece di essere posto in una nota finale con un elenco di libri citati, sta dentro la biblioteca di Enrico.
Terza immagine: un medico, donna, potente, un primario, alla fine della giornata di lavoro in ospedale dice alla caposala di voler stare in pace; si chiude nell’ambulatorio, si fa un’inframuscolo con la ketamina dell’ospedale e si scioglie nel più totale rilassamento. Da questo nucleo è nato il personaggio di Aurelia, primaria del San Raffaele di Milano; poi però il personaggio ha preso tutt’altra direzione: lei è una donna rigorosa che non ruberebbe mai un farmaco dell’ospedale per farne uso voluttuario, quindi questa scena è scomparsa; ma l’idea di un personaggio medico che stesse in una posizione un po’ esterna ai fatti nasce da lì.
A partire da questi primi embrioni, e da altre immagini ancora scollegate sorte dopo, ho lavorato per un annetto, ed è nata, ancora molto in controluce, la figura di Cristiana, perché un’altra cosa che volevo fare era approfondire il mondo dell’arte contemporanea, ambito che seguo da sempre e di cui mi affascina in particolare il suo essersi liberato dal medium. Puoi usare tutto: la pittura, la scultura, i video, le foto, il corpo, i luoghi, i più diversi materiali – anche i rifiuti o i liquidi organici! – fino alle parole, alle pure idee… Questa è una grande cosa, anche se può portare l’arte più concettuale (e ovviamente l’arte concettuale poco riuscita) ad accuse di “fuffa”. Ma se ci pensiamo, il fatto che un’arte si sia del tutto scollegata da qualsiasi supporto è una cosa molto bella. Oltre a Cristiana, era apparso Rudra: un’altra cosa che mi interessava, anche se ancora l’idea precisa non c’era proprio, era quella di raccontare l’anima di un mistico nella testa e nel corpo di uno che mistico non è.
Ripresi i lavori nel 2015 e lavorai tutto l’anno a I fratelli Michelangelo, definendo meglio le figure dei protagonisti: le parti di Enrico e di Louis le avevo quasi tutte scritte; Cristiana cresceva molto, e un pochino anche Rudra. Apparve poi Antonio Michelangelo: la chiamata del padre doveva essere all’inizio quello che agli insegnanti di scrittura piace molto definire, con Hitchcock, “MacGuffin”, ovvero il pretesto per scatenare gli eventi. In realtà poi Antonio Michelangelo si è rivelato essere molto di più – è cresciuto, ha preso spazio, fino ad avere una posizione centrale. In molte recensioni viene addirittura definito il protagonista del libro, anche se è quasi sempre disegnato “in negativo”, attraverso i ricordi, i punti di vista e le parole degli altri personaggi. Ho interrotto di nuovo i lavori nel 2016 per scrivere La stanza profonda (e anche L’impero del sogno, che, sì, ho scritto davvero in un paio di mesi); dopodiché ho lavorato negli ultimi due anni a questo, prima con una enorme fase di schematizzazione volta a mettere tutto al suo posto, e poi con la stesura di tutto ciò che mancava: contando solo il “tempo reale”, ai Fratelli ho lavorato quattro anni, ma probabilmente senza i tempi di studio, attesa e sedimentazione che ho avuto nell’arco 2012–2019 non sarebbe venuto così articolato.
Ci sembra di vedere una linea di continuità con le figure del tuo precedente “Personaggi precari”, che, in quanto a forma, invece predilige la sintesi e la narrazione per piccoli cluster, potrei dire. I personaggi precari popolano il tuo mondo narrativo e mi rimandano l’idea di un personale viaggio attraverso i meandri di una contemporaneità che hai fotografato in luoghi e momenti diversi, e per la quale hai trovato il filo conduttore di un realismo animato da “moderni ultimi”, che si lasciano vivere o che dislocano le loro vite in realtà diverse (virtuali e ludiche). Cosa ci vuoi raccontare esattamente di noi?
Non è implausibile che i Personaggi precari costituiscano una sorta di “codice alfa” della mia narrativa, di certo la loro produzione, durata nove anni, è stata anche una grande fase di apprendimento. Anche Raoul Bruni, nella sua recensione su Alias, li ricorda in più punti. Non sono sicuro però che i “Pp”, o i personaggi dei miei libri realistici come Gli interessi in comune, che tornerà finalmente in libreria a ottobre dopo vicende ai limiti del credibile, Se fossi fuoco…, Muro di casse o La stanza profonda, o ancora quelli di estrazione più borghese di questo ultimo I fratelli Michelangelo, siano “ultimi”. Siamo noi quella gente! E poi, come dissi a suo tempo in un’intervista a Typee, sono convinto che i precari – parlo anzitutto in termini esistenziali –, gli outsider, e quindi i raver, i giocatori di ruolo, i lettori, i sognatori, i visionari, i rivoluzionari, i ribelli, gli anarchici, i disadattati, tutti coloro insomma che non si rassegnano ad accettare il mondo che gli è dato ma si ostinano a immaginarne altri, siano i veri giusti, ieri come oggi – e come domani.
per concessione di autore e casa editrice è possibile leggere un ESTRATTO QUI