Proponiamo con piacere una occasione di riflessione offerta dal saggio “Il dono del rancore” Sefer 2015, della professoressa Laura Tappatà, filosofa e docente all’Univeristà Cattolica di Milano, che ha posto in chiara dicotomia dialettica due termini culturalmente distanti, ricavandone una prosepettiva di pensiero che crediamo aiuti a porre le basi di un vivere più equilibrato e consapevole.
Per una disamina di questo interessante contributo ho rivolto all’autrice alcune domande, traendo spunto da alcuni brani dal testo stesso.
Partendo proprio dall’incipit: Il mantra, “il perdono è l’ornamento dei forti”, ha dominato il nostro modo di pensare e ha creato una tenace immaginazione morale; nella sua accezione religiosa e spirituale ha forgiato il modo umano di agire” mi pare chiaro l’intento di “smarcare” il perdono da un’apologia religiosa..
vuoi raccontarci?
Da donna con una certa ricchezza esperienziale, da filosofa che ama ancora studiare e ricercare, da persona agnostica e, proprio per questo, sempre alla ricerca della spiritualità nelle sue differenti forme e nelle sue essenze, ho raggiunto la consapevolezza che la nostra natura umana è regolata da forze potenti, emozioni, sentimenti, desideri, che vanno amministrati con saggezza ma che, di certo, non hanno nulla di divino e che trovano il loro equilibrio solo grazie all’uso sapiente della ragione.
Credo che noi si agisca seguendo le nostre passioni e una delle esperienze più totalizzanti della nostra esistenza è quella che ci vede assaporare il dolore e la sofferenza psicologica come strumenti di conoscenza per raggiungere nuovi saperi. Proprio così capiamo chi siamo davvero, quali sono le nostre potenzialità, i nostri limiti, quali le espressioni emotive che ci caratterizzano, qual è il nostro modo, il nostro stile personale di vivere la vita che si esprime come continua ricerca di bellezza e conciliazione tra integrità e rottura, tra forza e fragilità.
Nell’introduzione del libro, scrivo: “A chi non si può perdonare? A una grande passione tradita: che sia un partner, un ideale, una professione, un progetto. A un’amicizia che ci ha illuso e deluso. A Dio e, a volte, a se stessi”.
Credo che valga per molti di noi. Nella mia storia personale ho imparato che i segni delle ferite imperdonabili e i sentimenti a essi legati non vanno celati e camuffati ma espressi e accettati: sono solchi indelebili ma possiedono dignità, vigore, vitalità, creatività. Come nell’arte giapponese del Kintsugi, la tecnica ricostruttiva di oggetti in ceramica che restaura con l’oro le fratture e non con sostanze invisibili. Dopo una sofferenza indicibile noi siamo le fratture dorate che non vanno nascoste ma celebrate perché ci portano a scoprire una nuova forma di bellezza personale.
Scrivendo il libro ho dato respiro al pensiero che le offese subite che ci hanno ferito producono una profonda risonanza emotiva che non possiamo nascondere e che ogni crisi esistenziale legata all’esperienza del dolore, se sapientemente controllata, ci può indurre a dispiegare il nostro potenziale creativo, anche se c’è bisogno di tanto tempo e tanto impegno per giungere a questo traguardo.
[..] Come nell’arte giapponese del Kintsugi, o della “riparazione dorata”, una raffinata tecnica ricostruttiva di oggetti in ceramica la quale, volendo restaurare un vaso rotto, ne valorizza la crepa riempiendola con del materiale prezioso come l’oro. Quindi metallo pregiato che enfatizza ed evidenzia la spaccatura e non colla, o sostanza adesiva trasparente che cancella l’incrinatura. In questo modo l’integrità perduta non è occultata ma valorizzata: la spaccatura è ciò che rende unico, prezioso e con una sua storia, quel vaso.[..]
“La Psicologia Positiva evidenzia che, come certi processi mentali possono indebolire il nostro organismo, così possono anche rafforzarlo, contribuendo a determinare condizioni di vita più soddisfacenti e il perdono viene considerato uno di quei processi in grado di alleviare il malessere dell’individuo ferito.” Cosa succede alla persona ferita o che subisce un torto personale o dalla vita?
E’ vitale smarcarsi dall’ideologia religiosa e dobbiamo riflettere con lucidità sulla vera essenza del perdono che si mostra solo là dove c’è l’imperdonabile, dove c’è quella ferita provocata dall’Altro che ti fa vacillare e tremare dal dolore.
Assolvere ciò che è scusabile, ciò che è semplice da dimenticare, ciò che davvero non ci ha ferito profondamente, è sforzo lieve e non è il vero perdono. E’ una falsa consolazione e pura convenzione culturale.
Ho compreso che nella vita ci sono offese indimenticabili, progetti di vita distrutti, ferite e delusioni profonde. Ma so anche che ci si può impegnare in una ricerca lunga e faticosa che trasforma la chimica della rabbia in energia costruttiva. Scrivendo il libro ho dato respiro al pensiero e alla comprensione dei miei sentimenti: quando c’è una profonda ferita narcisistica, il gesto più naturale che posso compiere non è perdonare ma ragionare sul dolore provato. Il mio legame con il dolore che accompagna, inevitabilmente, queste ferite, si è fatto negli anni sempre più raffinato sul piano della consapevolezza mentale. E così, da donna e da filosofa, mi sono chiesta se fosse davvero fattibile continuare a pensare di poter risanare certi dolori con un perdono che fosse realmente autentico.
Vogliamo confrontarci con onestà intellettuale e con una mente affrancata da condizionamenti culturali, morali e religiosi? Allora la risposta è, no: non è possibile.
Ho voluto liberarmi di alcuni pregiudizi che limitano la potenza, la creatività dei nostri sentimenti e della nostra natura umana e abbandonare le maschere del buonismo per mettere a fuoco la necessità di usare in modo saggio il logos, la ragione e le emozioni.
Sono profondamente convinta che tutta la vita sia passione e che, in particolare, il mio modo di vivere e concepire la vita sia passione.
Che questo è il “motore immobile” da cui muovono tutte le azioni umane, dalle istintive a quelle mentali. Che, con un percorso elaborato e faticoso, si può trasformare la sofferenza in saggezza emotiva e in energia costruttiva.
E ancora: che non riuscire a perdonare l’imperdonabile non è espressione di fragilità ma consapevolezza della sofferenza provata, ascolto della rabbia e accoglienza della propria natura.
[..] Non perdonare è facile e istintivo come respirare. Si comprende così che, al di là delle frustranti imposizioni culturali e degli obblighi sociali, è inevitabile e adattivo come provare emozioni di base e, come queste, possiamo solo imparare a gestirlo e controllarlo grazie a un atto di piena consapevolezza emotiva. Provare rancore fa parte della nostra natura umana perché ogni afflizione o offesa rivolta a noi stessi è una ferita narcisistica e difendere la nostra sopravvivenza è una risposta mentale e fisiologica primitiva. Ogni incrinatura alla nostra identità provoca un lutto e il dolore ha bisogno di tempo per lavorare, respirare e ritrovare l’equilibrio. In ultima analisi, il perdono appare come un paradosso. Il rancore acquisisce, pertanto, una sua rispettabilità. Il resto è solo convenzione culturale, una falsa consolazione. [..]
“Nei rapporti interpersonali, nelle narrazioni e nei dialoghi tra le persone, molto spesso si parla del perdono: capita di chiederlo, di accordarlo o di rifiutarlo.” Si può non perdonare, per proteggere se stessi?
In alcune situazioni la soluzione del perdono si mostra impraticabile se non addirittura sconsigliabile come prescrizione. Pensiamo, ad esempio, ai casi di violenza psicologica e fisica agita all’interno dei nuclei “protetti” quali famiglia, scuola o altre istituzioni. Quante vittime sono diventate definitivamente tali proprio per aver assolto il dovere della tolleranza, della comprensione e riconciliazione? A volte facciamo esperienza di un tormento psicologico così profondo che diventa esperienza intraducibile perché non possiamo confidarla, a volte nemmeno a noi stessi, ma ancor di più agli altri, alla cultura falsamente buonista, alla morale dominante. Non siamo in grado di perdonare perché proviamo una rabbia incredibile che torna a visitare i nostri pensieri e la nostra memoria. Riprendiamo l’assioma che il perdono ha senso solo quando è chiamato a compiere l’impossibile cioè perdonare l’imperdonabile. Quando la sofferenza per una ferita profonda, per una delusione o offesa, è irrimediabile e irreversibile, il dolore, la sofferenza psicologica che noi proviamo lascia una traccia, un ricordo, diventa memoria indelebile. Allora il rancore si mostra nella sua più piena inevitabilità e umanità ma anche nella sua utilità: riconoscere il pericolo ed evitarlo in futuro per sopravvivere.
[..] Possiamo liberare l’aggressività della rabbia orientandola verso nuove spazialità e temporalità; possiamo comprendere l’onestà delle nostre pulsioni e svincolarci da qualsiasi obbligo morale, indiscreto, che ci vuole sudditi di una bontà che, naturalmente, non ci appartiene. Possiamo catturare questa energia e legarla a nuovi progetti, primo tra tutti quello della riedificazione della nostra identità, sublimando la sofferenza e raggiungendo una piena consapevolezza emotiva, dando concretezza e verità alle parole di Meister Eckhart “nulla sa più di fiele del soffrire e nulla sa più di miele dell’aver sofferto […]
Il rancore è un “dono”?
Ci hanno sempre insegnato che perdonare è una virtù che esalta la fortezza umana, un’azione che ci accomuna con gli angeli, un balsamo per il nostro benessere spirituale e fisico. Perdonare ha forti valenze morali e soprattutto religiose; è espressione di una giustizia liberata da qualsiasi forma di vendetta e rivendicazione; nella cultura possiede tutte le caratteristiche per diventare progetto educativo e formativo. Non perdonare, invece, ci trascina in un giudizio morale negativo: cattiveria, invidia, rabbia e astio ci rendono sgradevoli e potenzialmente pericolosi.
Sono consapevole che affermare che il rancore sia un dono è una cosa insolita (che mi auguro incuriosisca i lettori) ma, in realtà mi affascina maggiormente la sfida intellettuale che sta alla base di questa mia sfida e che ci esorta a compiere un passo indietro per guardare le cose da una prospettiva diversa , con uno sguardo mutato, per scorgere qualcosa che non si era visto prima utilizzando i più tradizionali strumenti della filosofia: il ragionamento critico e le argomentazioni. Quest’ultime devono essere lucide, comprensibili, ben documentate, anche se non necessariamente accolte da chi legge. Come dice Voltaire, il bene e il male sono spesso vicini tanto che le nostre passioni li confondono e il mio obiettivo è abbandonare le maschere del buonismo e mettere a fuoco la necessità di superare dicotomie vecchie e inutilmente soffocanti, corretto e scorretto, bene e male, virtuoso e malvagio.
Attraverso questo esercizio, come il dono è una sorpresa, un regalo inaspettato, anche l’esperienza equilibrata del rancore può diventare uno strumento per raggiungere una maggiore consapevolezza personale, una forma di saggezza e di potenziamento mentale.
[..] Non posso più guardare con gli stessi occhi la realtà come se nulla fosse successo o fosse in qualche modo dimenticabile e superabile ma che, inevitabilmente, si modifica la percezione che abbiamo di noi stessi, della nostra identità e dell’Altro che è il responsabile della ferita che ci provoca sofferenza, chiunque o qualsiasi cosa esso sia. Posso, in questo modo, vivere una vita nuova, ritrovare un differente equilibrio, guardare e rispettare l’Altro, ricercare nuovi obiettivi ma, sempre e solo, con la consapevolezza che qualcosa si è trasformato, che c’è stato un cambiamento e che il ricordo di ciò che è successo, è indelebile.[..].
Nota Biografica:
Laura Tappatà – Laureata in Filosofia con indirizzo psicologico è membro dell’Unità di ricerca di Psicologia della Creatività (Dipartimento di Psicologia), presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Si occupa da anni di discipline afferenti le dinamiche di relazione, è docente di tematiche legate alla resilienza presso il Circolo Filologico Milanese. Ha scritto “Troppo amore” – Sefer (2016) e “Il dono del rancore” Sefer (2015).