Il giorno della nutria | Andrea Zandomeneghi
Tunué 2019 – collana Romanzi
Un gruppo parafamigliare (che La famiglia Winshaw di Jonathan Coe, al confronto, è assimilabile a quella del candido mulino) se ne sta nella provincia grossetana, dentro a un appartamento che rassomiglia nella pianta a una mantide religiosa; al centro del sistema (la testa della mantide) una madre inferma, Eufemia, che forse simula una condizione psicotica, e intorno soggetti apparentemente incompatibili fra loro, che condividono una prossimità sotterranea: Davide, il figlio faticosamente bohémien, il nipote Giulio, legato a Davide da un evento luttuoso, Dorota, collaboratrice domestica, laureata a Cuba in Studi Danteschi, Esteban, figlio di Dorota, sorta di giovane “sciamano” Orisha praticante, consacrato a Yemaja…
Davide soffre di cefalea tensiva e ambisce a controllarne sintomi e specificità: possiede ampie conoscenze farmacologiche e sperimenta combinazioni terapeutiche, non tralasciando di ingolfarne i protocolli con alcol e sostanze psicotrope. Le malattie (di Davide e della madre) sono il fulcro perfettamente oliato del ménage famigliare, la formula che sublima la disfunzionalità e lo eleva a meccanismo. Di contorno (ma un contorno succulento, la vera apoteosi de Il giorno della nutria) le riflessioni del protagonista, divagazioni ad ampio spettro su – fra le varie entità gnoseologiche – cinema, storia e colore locale, logge massoniche, sessualità, l’amato Dostoevskij, il fantasy come portato esperienziale.
La relazione fra Davide e la madre, i tentativi di negarla, di ridurla a incombenza o dovere, tiene in uno stato di sospensione l’intero nucleo famigliare; occorre un oggetto, un simbolo che suggerisca e faccia riemergere significati, e in tal senso il ritrovamento di un cadavere di nutria sul pianerottolo di casa – da cui si affastellano le ipotesi sull’autore del gesto (apparentemente) intimidatorio – porta a centrifugare, a disturbare il morbo, a sparigliare le carte del quotidiano.
Davide indaga a suo modo, ritenendosi il destinatario della ritorsione, passandone in rassegna i possibili artefici, riflettendo, scavando dentro se stesso, avvalorando congetture più o meno fantasiose, e nel borgo toscano, nel tempio profanato dalla nutria, tirante della realtà si rivelerà Dorota, badante e domestica dalle svariate risorse, che agirà da antidoto, da misuratore degli stadi di alterazione; la si può definire paterna, e la sua brillantezza (sapere diretto e intelligenza pratica) sottende le manchevolezze di Davide, ciò che Davide conosce ma non sa o pretende di non sapere.
Nella drammaturgia, nel procedere della vicenda, l’animale scorticato è una pelosa sfera divinatoria, inietta e manda in onda verità; la nutria scompare e riappare, nessuno è in grado di disfarsene e il mistero che l’accompagna verrà risolto dopo lo spezzarsi di un cordone ombelicale, dopo vari insulti e una frase smozzicata di perdono.
L’esordio (per l’editore Tunué) preannuncia una scrittura, uno stile, una torrenzialità che smuove e ingolosisce. Con accuratezza e idee, attraverso la sommatoria di numi sapienziali, sfruttando la potenza inespressa della trama, Zandomeneghi realizza l’incantesimo, vale a dire cattura, accompagna il lettore nelle spire del racconto, persino lo intrattiene (anche maltrattandolo) e lo sconcerta, mettendolo a parte di un peep show letterario.
Sappiamo cosa aspettarci, ma ogni frammento è decisivo, approntato (in comunione percettiva) per allettare e sollecitare lo sguardo. Quale destino attende Davide Aloisi? Come evolveranno i rapporti nell’appartamento a forma di mantide? Riuscirà Don Stefano ad accaparrarsi l’intero caseggiato per farne una casa di riposo?
Nella penombra di Borgo Carige il sipario si apre: una casa problematica con dentro gente problematica diventa luogo di rappresentazione, cubicolo infetto (e fastidiosamente credibile) a due passi dal mare.
Mentre stavo per replicarle e cercavo di mettere ordine nei miei pensieri si levarono nuovamente, ma più alte, le grida di mia madre. Dorota si precipitò da lei, io rimasi sul pianerottolo a fissare la chimera, finché mio nipote non mi passò lo spinello. Aspirai, trattenni il fumo nei polmoni il più possibile ed espirando mi guardai intorno, in cerca di indizi o di pericoli accucciati tra le fronde del tiglio, dietro qualche macchina in piazza, sul monumento di gemellaggio con “le genti d’Abruzzo”. Mi sentivo minacciato, avevo le palpitazioni. Almeno un paio di volte mi girai di scatto credendo di aver intravisto con la coda dell’occhio Esteban che mi osservava. Mia madre riprese a latrare ancora più forte e compresi in quell’attimo di lucidità perforante che precede la commozione – ero commosso perché turbato, non per pietà filiale, m’uscii anche una lacrima, ma per me stesso, non per lei – l’espressione di Zweig: “quei gridi terribili che non hanno più quasi nulla d’umano e veramente par che giungano agli uomini dal canile della sua esistenza”.