Un Conero mitico e incantato
Il paesaggio e la natura in Fifty-Fifty. Warum e le avventure Conerotiche di Ezio Sinigaglia
di Paolo Lago
Lo sfondo naturale del Conero assume un’importanza fondamentale nel recente romanzo di Ezio Sinigaglia, Fifty-Fifty. Warum e le avventure Conerotiche (Terrarossa Edizioni, 2021). Esso, infatti, si trasforma in una sorta di luogo mitico e incantato che fa da sfondo alla vacanza intima ed erotica del narratore Warum e del suo giovane innamorato Fifì. Le vicende legate alla vacanza diventano perciò «avventure Conerotiche», così chiamate con un suggestivo neologismo lessicale formato, appunto, da Conero ed «erotico».
Il romanzo di Sinigaglia si inserisce così pienamente all’interno di una delle tre linee tematiche lungo le quali, secondo Niccolò Scaffai, si sviluppa la relazione narrativa tra letteratura ed ecologia nella narrativa contemporanea, cioè il tema dell’io di fronte alla natura (le altre due sono la trasformazione del paesaggio e le immagini distopiche o apocalittiche dello stesso)1. Ma Fifty-fifty. Warum e le avventure Conerotiche declina questo tema in modo suggestivo ed inedito. L’io di fronte alla natura, in questo caso, trasforma quella stessa natura in un luogo mitico, pieno di echi letterari. La vacanza al Conero, del resto, ha un’ascendenza quasi ‘letteraria’: a Fifì era stata affidata da un’agenzia pubblicitaria la stesura di un dépliant turistico commissionato dal comune di Numana, una cittadina che si trova sul mar Adriatico alle pendici del Conero. Ad ogni immagine del dépliant, Fifì e Warum abbinano «non un testo, ma un aforisma folgorante. Sempre caliente per chi la sabbia amare. Incontrare scogli lungo il cammino fa benissimo alla vista. Mare blu, cielo celeste, pesce azzurro. Una dozzina di raffinate idiozie di questo genere, tutte prodotte dalla premiata ditta Fifì-Warum in una sola notte, con l’ausilio di cospicue libagioni». La successiva descrizione dell’avventura «conerotica» sarà segnata dal ripetersi di queste frasi in una formularità ricorrente dalle tonalità quasi epiche. Ad essere ripetuta sarà soprattutto la ludica perifrasi scelta per indicare la spiaggia sabbiosa: «sempre caliente per chi la sabbia amare». Perciò, il paesaggio del Conero assume connotazioni antirealistiche, incapsulate nelle frasi ludiche e di ascendenza letteraria che Warum e Fifì hanno creato ad arte in una notte di «cospicue libagioni».
Nel romanzo di Sinigaglia, è fondamentalmente il narratore Warum a costituire «l’io di fronte alla natura»: si tratta di un «io» che guarda non solo alla natura ma a tutta la realtà che lo circonda con un filtro mitico e letterario. Warum, infatti, assomiglia per certi aspetti al protagonista del Satyricon di Petronio, Encolpio, il quale, secondo la definizione di Gian Biagio Conte, si configura come un «narratore mitomane»2. Encolpio legge la realtà e tutte le avventure che gli capitano per mezzo di un filtro mitico e letterario. Secondo Conte, «l’ossessione del mito non lo lascia mai e lo fa agire come se si aspettasse che la sua vita debba sempre riempire qualche paradigma leggendario»3. Anche Warum modella la sua vita su paradigmi leggendari. Ad esempio, la stessa tenda che i due personaggi utilizzano per trascorrere la loro vacanza al Conero, per lui assume tonalità mitiche e leggendarie. La tenda trovata nel solaio di Fifì, «del colore stesso del deserto», fa comprendere a Warum la sua inadeguatezza di fronte ai canoni che vorrebbe raggiungere. Basta la tenda per far nascere nel personaggio il desiderio di trasformarsi in esploratore del deserto, diretto verso orienti magici, in territori da mille e una notte: «Sentii subito la mia inadeguatezza, la mancanza di un casco coloniale, della sete d’acqua, delle bussole, delle mappe disegnate a mano, delle schiere di portatori e lustrascarpe». Per Warum, essa rappresenta l’immagine stessa del viaggio avventuroso: «Era una tenda concepita per il nomadismo, per soli sempre nuovi, per cieli notturni così vari da contemplare la Croce del Sud, il Centauro e il mostro blu di Eta Carinae. Mi prese subito una selvaggia voglia di viaggiare, dall’Artide all’Antartide, dall’Orinoco al Fiume Giallo, dalla Polinesia al Golfo di Guinea, Fifì, la tenda ed io, appiccicati ciascuno agli altri due come una trivalve dai lucenti gusci neri. Una tricozza esploratrice». Se per Encolpio il paradigma a cui aspirare, nel corso delle sue avventure, è sovente l’eroe epico Odisseo, per Warum è adesso un eroe che sembra uscito da un romanzo di Verne, di Conrad o di Salgari, un viaggiatore e un esploratore instancabile che si sposta ai quattro angoli più inesplorati del mondo.
Se il paesaggio del Conero, per mezzo dell’ottica «mitomaniaca» di Warum, assume connotazioni mitiche e leggendarie, esso, in quella fine estate del 1983 in cui vi si recano i personaggi, sembra possedere ancora delle caratteristiche che demarcano una scarsa presenza invasiva di costruzioni artificiali. Vale la pena, adesso, leggere un brano abbastanza lungo relativo alla descrizione del paesaggio, in cui sono sapientemente mescolati elementi reali, mitici e letterari:
Il campeggio era stato scelto da Fifì per la sua posizione panoramica e per la parca disseminazione di elementi in muratura in mezzo alla fitta macchia e ai grandi ulivi. Era anche oltremodo parco di luci artificiali: un lampione qui e uno là, ben distanziati, fiochi e discreti, un’illuminazione appena sufficiente a evitare di schiacciare una ranocchia sotto i passi, ma certo non a distinguere il colore degli occhi della ranocchia quando, ferma davanti alla punta delle scarpe, ti gracchiava in faccia tutta la sua riconoscenza. Per di più noi ci eravamo fatti il nido proprio in cima allo scoglio che faceva benissimo alla vista, forse nella speranza che ci facesse ancora meglio: la tenda si apriva verso il mare e, al momento di stabilire il punto dove conficcare il primo picchetto nel sottile strato di terriccio sabbioso e vagamente erboso sotto il quale stava la roccia impenetrabile, avevo suggerito a Fifì di retrocedere di almeno dieci passi dal ciglio dell’abisso perché non corressimo il rischio di precipitarvi nell’offuscamento del risveglio. Ma, anche dopo l’applicazione di questo accorgimento, la nostra era di gran lunga la tenda, o in generale l’abitazione mobile, più orientale del campeggio. Sotto lo scoglio cui, orgogliosi dei costumi spartani delle nostre notti, avevamo dato il nome di Taigeto, c’era la sempre caliente per chi la sabbia amare, che ha la caratteristica, ben nota ai naviganti, di scintillare candida nei pleniluni, svelando gli occhi assetati e ai cuori inteneriti dei marinai il disegno divino della costa anche a distanza di molte e molte miglia, quasi splendesse di luce propria e fosse mossa dall’intento consapevole e femmineo di gonfiare di desiderio i loro grembi per persuaderli a ritornare a casa. Ma non brilla di luce propria, una spiaggia: ha solo un talento straordinario di richiamare su di sé tutte le luci altrui per far soffrire i naviganti: di modo che, in quelle notti noviluniche e sapientemente Conerotiche per le coppie di colibrì strette nel nido, la spiaggia sotto il Taigeto era nera a un punto tale che, guardando nell’abisso, riusciva impossibile distinguere l’aria dalla terra» (pp. 59-60).
La «parca disseminazione di elementi in muratura in mezzo alla fitta macchia e ai grandi ulivi» e la scarsa presenza di lampioni sono elementi descrittivi, se così si può dire, reali che sottolineano la presenza di un luogo turistico ancora ‘autentico’, non ancora eccessivamente deturpato dalle costruzioni artificiali. Ma la tenda, «nido» d’amore, assume connotazioni ‘orientali’ (la «più orientale del campeggio»), legate alla «mitomania» da esploratore di Warum e probabilmente venate di quell’orientalismo letterario di cui parla Edward W. Said, una percezione dell’Oriente tipicamente occidentale ed europea (un Oriente che poteva essere immaginato da un Flaubert o da un Baudelaire). Lo scoglio a picco sul mare sul quale i due hanno montato la tenda, poi, si trasforma in «Taigeto», la catena montuosa che domina la città di Sparta, nominato per la prima volta nell’Odissea. Se l’epiteto, come afferma il narratore, rimanda ai «costumi spartani delle nostre notti» (in quanto si tratta di una catena montuosa vicino a Sparta), esso è anche saturo di riferimenti mitici e letterari, legati al mondo classico. Gli echi letterari, successivamente, emergono soprattutto in quei «cuori inteneriti dei marinai», frase preceduta poco prima dalla parola «naviganti»: si tratta di un’allusione al canto VIII del Purgatorio e ai celebri versi: «Era già l’ora che volge il disio / ai naviganti e ‘ntenerisce il core / lo dì c’han detto ai dolci amici addio». Del resto, gli echi letterari non mancheranno neppure successivamente in una forma, se così si può dire, più ‘carnevalesca’: al ristorante, Warum e Fifì bevono infatti due bottiglie di Bianchello del Metauro, «fiume specialmente caro al divin Torquato» e – commenta Warum – avrebbero ricevuto anche l’approvazione della sua ex moglie Ramsay, docente universitaria specialista di Tasso.
Il Conero raccontato da Sinigaglia assume connotazioni mitiche anche perché si tratta di un paesaggio che, di notte, appare immerso nella tenebra più assoluta: «Le nostre notti, al Conero, erano di una tenebra assoluta. Qualcosa che è raro gustare, al giorno d’oggi». Ecco quindi un altro elemento di realtà che si innesta nel paesaggio mitico: le «notti Conerotiche» non sono violentate dalla luce artificiale dei lampioni (come abbiamo visto, Fifì aveva scelto un luogo «parco di luci artificiali») ma si tratta di una rarità in un mondo in cui l’inquinamento luminoso sta crescendo sempre di più. I due personaggi, stretti nella tenda (che, al di là di immagini mitiche e avventurose, offre realisticamente poco spazio per due persone), osservano il paesaggio, incantati e dimentichi, perduti nella contemplazione di una «immensità del fuori» che assume echi leopardiani: «Restavamo là così, assisi nel creato, per una mezzora buona, con gli occhi spalancati e con le bocche chiuse, abbracciati, avvolti l’uno dentro l’altro come due bambini che si facessero coraggio di fronte alla rivelazione spaventosa della schiacciante immensità del fuori e della pulviscolare nullità del dentro».
Inoltre, a rendere ancora più mitica e incantata l’ambientazione del Conero è uno scenario esattamente opposto: un piccolo, notturno locus amoenus cittadino assediato dalla luce artificiale. Siamo nel centro di Milano, «in una zona sconsigliabile, fra il Teatro dell’Arte e l’Arco della Pace, ai margini del parco» e Warum e Fifì si siedono su una panchina nel parco. Lo stesso bosco è descritto come «una macchiolina nera su un fanale»: «La città ci assediava. Una città in riposo, è vero. Ma abbagliante. E tutte quelle luci, le ferme e le fuggenti, lampioni fari insegne finestre degli insonni, tutte quelle luci le cozze di Fifì». Per contrasto, questo locus amoenus rovesciato rende ancora più incantate le notti del Conero, caratterizzate da una mitica oscurità.
L’ambientazione del Conero, così mitizzata, diviene infatti anche un locus amoenus, uno spazio ideale dell’amore (canonizzato in questo senso dal De Amore di Andrea Cappellano e da molta letteratura medievale)4 in cui l’innamorato Warum può entrare in sinergia totale e perfetta con il suo amato: «Fifì restava muto e sembrava respirare la notte con i miei polmoni. O io coi suoi: la cosa era del tutto indifferente. La nostra era una comunione perfetta entro la quale il problema, pur così astratto e metafisico, del come e dove la lama manichea del voler bene dovesse separare i corpi dall’amare non riusciva a intrufolare neppure l’acume della punta». Sembra che il «mitomane» Warum, a differenza di Encolpio nei confronti del suo innamorato Gitone (il capitolo 79 del Satyricon ci offre il commento in versi di una comunione totale fra i due amanti simile a quella fra Warum e Fifì), riesca a concepire solamente un amore idealizzato, inseguendo un desiderio di simmetria che caratterizza anche gli innamorati dei romanzi greci5. Le «avventure Conerotiche», infatti, a dispetto del loro nome, hanno ben poco di erotico da un punto di vista fisico; a causa della sua «mitomania», Warum si immagina che lui e Fifì siano due angeli: «Ma certo, dev’essere così! Un angelo può scopare con chi gli pare e piace, fuorché con un altro angelo. Di conseguenza lo siamo tutti e due». E dove mai sarebbe potuta avvenire questa trasformazione in angeli se non nello spazio mitico e leggendario del Conero? Fifì, infatti, alla richiesta di una bambina di nome Lara che gli chiede il nome, dichiara di chiamarsi Fefanòth, «angelo di seconda classe» e di esser l’aiutante dell’«arcangelo Warum». Il loro amore, a causa della natura angelica, sarà quindi destinato ad essere puramente idealizzato e, se così si può dire, ‘platonico’: «Eccoci dunque qui: due angeli costretti dalla fisiologia angelica ad amarsi nella purezza trascendente».
Grazie allo sguardo del narratore Warum, questo godibilissimo romanzo di Sinigaglia (caratterizzato, come altre sue prove narrative, da pastiches stilistici e linguistico-lessicali) ci offre una prospettiva inedita sul paesaggio e la natura. Questi ultimi, come abbiamo visto, si trasformano in veri e propri luoghi mitici, leggendari, letterari. D’altra parte, come osserva Michael Jakob, «il paesaggio letterario implica sempre la prospettiva di un osservatore o di una coscienza»6. Warum, come altri personaggi di Sinigaglia, possiede uno sguardo ‘poetizzante’ sul mondo, capace di trasformare la realtà in uno spazio ‘letterario’, nel senso che è modellato su esempi più o meno illustri della letteratura. È una specie di sguardo ‘intertestuale’: riesce a trasportare nelle pagine della sua narrazione altri testi, altri sguardi, altre prospettive. A questo procedimento non sfugge l’ambientazione turistica del Conero: un lembo di realtà che, come per magia, nelle pagine di Fifty-Fifty diviene un incantato luogo d’amore, un locus amoenus, uno spazio mitico in cui la natura, a dispetto degli scempi continuamente perpetrati dall’uomo, recupera tutta la sua sacralità e la sua inviolabilità.
1 Cfr. N. Scaffai, Letteratura e ecologia. Forme e temi di una relazione narrativa, Carocci, Roma, 2017, p. 211.
2 Cfr. G. B. Conte, L’autore nascosto. Un’interpretazione del «Satyricon», Il Mulino, Bologna, 1996, pp. 11-76
3 Ivi, p. 99.
4 Cfr. N. Scaffai, Letteratura e ecologia, cit., pp. 90-91.
5 Cfr. M. Fusillo, Il romanzo greco. Polifonia ed eros, Marsilio, Venezia, 1989, pp. 186-196.
6 M. Jakob, Il paesaggio letterario, trad. it. Olschki, Firenze, 2005, p. 41.