intervista di Alessandra Nenna
Ilaria Gaspari racconta dell’esordio noir per Voland e del fascino tutto infantile per le storie che non finiscono mai
“Ogni scrittore parla di sé, se è bravo ti illude che parli di te”. Sono incappata in questa frase qualche giorno fa e l’associazione all’ultimo libro letto è stata pressoché automatica.
“L’Etica dell’acquario”, (leggi la recensione ZEST qui) esordio per Voland della giovane Ilaria Gaspari, mette al centro della narrazione una donna, Gaia, che torna dopo dieci anni nella città in cui ha studiato perché una sua ex compagna di scuola si è suicidata.
La Gaspari parla di sé scegliendo un’ambientazione a lei nota, la Scuola Normale di Pisa dove si è diplomata in Filosofia, ma descrive un po’ tutti noi raccontando di amori e amicizie sospese, di sensi di colpa per strade volutamente interrotte nel passato. E tutti, prima o poi, ne abbiamo almeno una che in un certo momento della vita ci spinge a voltare indietro lo sguardo.
L’autrice sceglie un noir per cimentarsi con la pagina scritta, ma le piace la scrittura umoristica e ha già dichiarato di volersi mettere alla prova in futuro con questo genere. Le chiediamo come mai abbia optato per una direzione tanto diversa; forse che nella risata nascondiamo un lato oscuro?
– Concordo, nella risata c’è qualcosa di ineffabile, ma per renderla credo occorra una grande padronanza che ritenevo inesistente quando ho iniziato il romanzo. Ho optato per una scrittura di genere perché presenta codici che possono essere ricalcati, anche se in verità ho cercato di sovvertirli.
Scrive senza costruire scalette, struttura e schede per i personaggi, ma dinanzi a quella prima pagina sapeva già se sarebbe stato un racconto o una storia più lunga?
– Sì, decisamente. Sapevo sarebbe stato un romanzo. I racconti non mi sono mai piaciuti tantissimo, anche se ne ho letti alcuni che mi hanno letteralmente conquistata. Sono come i bambini, vorrei che le storie non finissero mai, per cui il racconto mi lascia sempre un senso di frustazione, così come i cortometraggi. E’ proprio questione di gusto, come quando sei preso da un gioco e non vorresti smettere. Ultimamente ho scritto dei racconti e mi sono anche divertita, ma non mi ci trovo, ho bisogno di muovermi e di far crescere i personaggi.
Il romanzo in effetti funziona grazie alla capacità di aver distinto le voci dei personaggi, ma anche essere riuscita a creare una sospensione crescente al punto che quando si giunge all’ultima pagina si avverte che di alcuni subplot, pur intuendone il seguito, si sarebbe voluto continuare a leggere. Quanto era nelle intenzioni rendere quest’opera “echianamente” aperta’?
– Sì, mi interessava che fosse il lettore a riempire i vuoti. Ciò che volevo rendere è l’idea che nella vita, soprattutto per le storie d’amore, a volte si raggiunge una vaghezza, tutti quegli impercettibili allontanamenti o avvicinamenti che si tenta di spiegare, colmare, ma che non possono essere riempiti nemmeno di parole. Ecco, il finale fa il paio con il mio disappunto per le narrazioni che finiscono in generale.
Un diploma in Filosofia, il sogno di scrivere fin da bambina, un lavoro nel campo della moda a Parigi, ma senza pensarci troppo: cosa vuole fare Ilaria da grande?
– Voglio scrivere. Il lavoro nel campo della moda è legato al fatto che al momento è l’unico da cui ricevo una retribuzione. E considerati i tempi, credo si debba sempre cercare di mantenere un’entrata sicura. La speranza è poter vivere lavorando a quello che piace.
Nell’Etica dell’acquario si accenna a un bambino mai nato e nel nuovo romanzo l’io narrante è una bambina. Potrebbe essere un voler dare vita a un personaggio mancato nel primo?
– No, nell’Etica la rinuncia al bambino da parte della protagonista era finalizzata a mettere in evidenza il processo di continua colpevolizzazione. Ogni fallimento della sua vita inizia e termina con lei; anche l’amore finito con Marcello la spinge a portare questo senso di morte nelle relazioni successive. Ciò che la rende prigioniera di questo meccanismo è il suo egocentrismo, ma lei non vuole vederlo. Nel secondo romanzo la voce infantile è indirizzata alla mia ricerca di umorismo. In “Le avventure di Huckleberry Finn” per esempio, che è uno dei miei libri preferiti, la storia è raccontata in prima persona da un bambino monello; fa ridere perché lo sguardo infantile porta con sé lo stupore verso alcune assurdità della vita che un adulto strutturato ha perso. Un livello di semplicità e immediatezza nel guardare la realtà che ho eliminato nel primo romanzo e che invece ho voluto ristabilire nel nuovo.
L’ambientazione nella Scuola Normale dove lei stessa ha studiato fa nascere una ovvia curiosità: i processi inflitti alle matricole di cui si legge sono veritieri e così estremi?
– Sì, anche se nel libro è reso più estremo e violento di quanto accada per davvero. Volevo che emergesse l’insensatezza dei gesti che nascono in contesti gerarchici chiusi. E’ un episodio che mi colpì molto all’epoca soprattutto perché inaspettato. L’anno successivo con i miei compagni di corso decidemmo di avvertire le matricole e invece ottenemmo il loro disappunto al posto di un grazie.
Alcuni passaggi – penso alla descrizione di questi “processi” – sono resi con un linguaggio che ricorda quello cinematografico. Quanto nel processo di scrittura un certo tipo di cinema o di film l’ha influenzata?
– La scrittura per immagini è il mio ausilio più grande. Per il secondo libro ho immaginato la scena finale, le luci e battute di dialogo e da lì ho iniziato a scrivere tutto quello che c’era prima.
Amo molto il cinema e nel periodo in cui scrivevo l’Etica ero a Parigi e in effetti la sala cinematografica era il luogo in cui mi rifugiavo più spesso. Penso ai film in cui la trama narra il ritrovarsi di un gruppo di persone che si sono conosciute tra i banchi: Compagni di scuola di Verdone, Il grande freddo. E’ una situazione strana perché sono persone che ti hanno conosciuto in un momento della vita in cui tanti aspetti della personalità non erano ancora formati. Il mio sforzo in questo senso è stato immaginare stati d’animo di una situazione che non avevo ancora vissuto in quanto ho scritto il libro appena terminata l’Università. In “Sapore di mare”, una commedia che a me piace molto, la scena finale trovo abbia qualcosa di struggente e crudele; tutti i personaggi si ritrovano molti anni più tardi e guardano a se stessi, agli amori e amicizie adolescenziali anche con una punta di nostalgia. Ho voluto rendere questa sensazione.
Il romanzo è scritto in prima persona. Scelta per nulla facile per un esordio.
– Scrivere in prima persona ti costringe a usare il punto di vista in maniera creativa e non contraddittoria. A me interessava fare un lavoro sulla prima persona e come si possa voler raccontare se stessi perdendo di vista degli aspetti. Con la capacità – da parte del protagonista – di ribaltare alla fine questa visione rispetto alla premessa.
Gaia, la protagonista, cerca la propria infelicità e siccome è ossessionata dall’idea di essere responsabile delle cose che la rendono infelice, cerca di punirsi scegliendo volutamente le difficoltà o comunque tra due strade quella più propensa al fallimento. Nel suo raccontarsi dunque è ambigua perché ci sono verità a portata di mano che tuttavia non vuole vedere o dirsi, il che rappresenta una contraddizione rispetto all’atto di raccontarsi. Una sfida che spero di aver in parte vinto.
L’incontro con il suo editore Voland come è avvenuto?
– Ho fatto leggere il libro alla professoressa di francese della Normale e a lei è piaciuto molto. Poi è accaduto che Amélie Nothomb (tra gli autori di Voland, ndr) era a Pisa per una conferenza e la mia professoressa era interprete durante l’incontro. Ha chiesto a Daniela Di Sora della Voland se aveva voglia di leggere il mio romanzo; gliel’ho mandato convinta che non avrebbe mai avuto tempo di valutarlo. Dopo qualche mese invece mi ha chiamato e da lì è iniziata tutta questa avventura.
Reduce dal Salone del libro di Torino. Era la prima volta? Com’è andata? C’era qualcuno in particolare che avrebbe voluto ascoltare?
– Sì, era la prima volta. Avevo quattro interventi e confesso che ero agitata. Poi mi sono resa conto che conoscevo molte più persone di quello che mi aspettavo e questo mi ha fatto rilassare e divertire pur se ho accumulato tanta stanchezza. Avere in comune l’argomento libri e incontrare altri autori mi ha permesso di creare amicizie davvero interessanti. E’ stata un’esperienza magnifica. Rispetto a chi ascoltare avevo una scaletta che tra code e appuntamenti da onorare si è rivelata inutile. C’era sempre qualcosa che mi bloccava. Confesso che mi sarebbe piaciuto vedere Checco Zalone.
Un libro che ha abbandonato e uno che non si stancherebbe di rileggere?
– Elena Ferrante. L’ho iniziato perché credevo che qualcuno mi avrebbe fatto domande in merito avendo la stessa ambientazione nella scuola Normale di Pisa. L’ho lasciato dopo circa 30 pagine. Chissà, forse lo riprenderò più avanti. Tra quelli che rileggerei avrei detto “Guerra e pace” fino a qualche tempo fa; ora sto rileggendo Philippe Roth “La macchia umana” e “Grandi speranze” di Dickens.
Tra i contemporanei rileggo volentieri Svevo e penso di dedicarmi a breve a Gadda che mi incuriosisce.
Infine la domanda che riserviamo a tutti gli autori intervistati per Zest: come la letteratura e la cultura in generale possono contribuire a una visione di vita sostenibile?
– Credo che una delle urgenze da affrontare sia il dispendio di carta. Penso a tutti i libri che vanno al macero e che spero vengano riciclati in qualche modo. Forse è un approccio materialistico al quesito posto, ma è la prima cosa che mi viene in mente. Sarebbe bello se da vecchi libri se ne stampassero altri in un ciclo continuo. Sicuramente questa visione potrebbe sollevare la protesta dei sostenitori degli e-book, ma al di là della solita retorica, avere un libro tra le mani è diverso che averlo virtuale. Fosse anche solo il fatto di poter guardare quelli che si hanno senza necessariamente scorrere un elenco digitale. Leggere in fondo credo sia il modo meno inquinante di passare il tempo.
Alessandra Nenna