Racconto di
Dario Maria Desantis
Io sono l’uomo delle imprese impossibili. C’è chi scala l’Everest senza ossigeno, chi balla su un cavo d’acciaio teso sopra il Gran Canyon, chi si lancia in volo acrobatico con un paracadute grande quanto un Kleenex, altri sprofondano negli abissi marini in apnea, e altri ancora passeggiano per sei mesi attorno a Marte, sventolando la bandierina del cocktail. Salvo incidenti o imprevisti, tutti quanti si portano a casa una bella fetta di gloria che consolida l’amor proprio e l’orgoglio dell’umanità intera.
Io mi accontenterei di riuscire a fare una telefonata.
Alla fine di una serata passata tra chiacchiere affabili e spassose goliardate, viene spontaneo scambiarsi i numeri di telefono per rimanere in contatto, per approfondire quella simpatia che promette di diventare amicizia.
“Mi raccomando, fatti sentire presto!”.
“Stai scherzando, domani ti chiamo!”.
“Non dimenticarti di mandarmi la tua e-mail”.
“Ho in mente una cosa da proporti, poi ne parliamo!”.
Le donne addirittura si sbilanciano: “Non farti desiderare! Sei divertentissimo. Non ho mai riso tanto in vita mia!”. E ti abbracciano e ti baciano euforiche come se dovessero esibirsi sul red carpet.
D’accordo, non sono così ingenuo da abboccare a tutte le esche che luccicano, né così smanioso da buttarmi sul telefono a corpo morto il giorno dopo. Lascio passare almeno due o tre giorni sabbatici, dopodiché faccio la famosa telefonata. Voglio dire, una telefonata normalissima dalla quale non mi aspetto niente altro che una persona dall’altro capo che risponda.
Bene, proviamo a fare qui in diretta questa benedetta telefonata. Suona, è libero, sta suonando. Sta suonando libero. Suona, suona, suona all’infinito. Sentite come suona! Ah, non sentivo suonare così dai tempi del Conservatorio. Mi distraggo persino per qualche istante a pensare alle leggi dell’armonia con la sovrapposizione verticale dei suoni, e i loro accordi all’interno della tonalità. È come se da questa combinazione non potesse che scaturire una conseguenza armonica ed armoniosa, appunto: una risposta. Ma il telefono se ne sbatte di secoli di filologia musicale. Semplicemente, dall’altra parte, non risponde nessuno. Può capitare, niente tragedie, ci riprovo. Il numero è giusto, è scritto a chiare cifre su un biglietto del Metrò, un po’ spiegazzato, ma perfettamente leggibile. In ogni caso, per scrupolo l’ho riletto tre volte, anche ad alta voce. L’ho persino scrutato sotto la lente di ingrandimento per indagare tra le più recondite sfumature, le variazioni più impercettibili che potessero trarre in inganno. Per esempio un 3 che sembri un 8, o un 5 un po’ troppo svolazzante che possa assomigliare a un 6. Niente, tutto a posto senza una grinza. Tengo il telefono leggermente staccato dall’orecchio, con aria disinvolta per non dare a me stesso un’impressione di ansia, se non addirittura di affanno. Dopotutto è una telefonata leggera, che non comporta nessun tipo di impegno. Ecco, il telefono suona di nuovo, esattamente come prima, con quella voce pacata, leggermente malinconica, da mezzosoprano in un Lied del tipo ‘Wonne der Wehmut’. Ma suona asessuato, libero e vuoto come se fosse in un baule in fondo al mare in una cabina passeggeri di un transatlantico fantasma nel triangolo delle Bermude. E vi giuro che a questo telefono non risponderà mai nessuno, riprovassi per mille anni. La mia mente dispone di un radar per captare il fallimento, ma non un’apparecchiatura altrettanto sofisticata per intuire la menzogna, cioè per sgamare la bufala a monte. E nonostante questa consapevolezza, che l’intoppo delle telecomunicazioni è in realtà un vero e proprio fiasco esistenziale, insisto a ripetere quel numero, sapendo che attraverserò tutta la gamma delle abiezioni domestiche. Sarò ridicolo, patetico, maligno, superstizioso, astrologico e stronzo! Infatti eccomi qua, inchiodato al telefono come a un polmone d’acciaio, a respirare dentro la cornetta al ritmo dei suoi tutu tutu tutu. È talmente penetrante la vergogna che provo, che mi piace persino guardare la mia faccia allo specchio, quasi per cogliere nei miei tratti somatici una conseguente e inevitabile mutazione genetica. Quando uso il cellulare, le cose prendono una piega un po’ diversa, ma soltanto nella dinamica, mentre la sostanza rimane immutata. Al nulla corrisponde il nulla, la somma dei nulla dà per totale nulla, dalla moltiplicazione dei nulla si ottiene come prodotto il nulla, un’equazione esponenziale di nulla dà nulla all’infinito. Ma queste sono sottigliezze di ordine filosofico, che non hanno niente a che vedere con il fatto che la mia vicina di casa è sempre attaccata al telefono e parla con qualcuno, anzi con tutti. La mia vicina di casa, guardiamola insieme. Sta uscendo dal cancelletto del suo giardino, con il pigiama a papaveri, una retina in testa per i bigodini casalinghi, ciabatte aperte, unghie dei piedi con lo smalto fucsia scrostato, sigaretta nell’angolo della bocca, mentre con l’altro angolo succhia il cellulare come una scatola di spinaci di Bracciodiferro. Sputa il mozzicone al volo, schiaccia il telefono tra la spalla e l’orecchio, con una raffica stridula di 7.500 parole al minuto pause escluse, apre a casaccio un po’ di corrispondenza gettando involucri e brandelli di carta per terra, perché tanto è biodegradabile, si gratta una natica, sotto l’elastico, che poi rimane per metà nuda, la natica, paonazza e brufolosa, con il potere di fare assomigliare la mia vicina a Giano bifronte. Scompare oltre la porta di casa, lasciando in cortile il fantasma di una folla telefonica di duecento persone, gioiose e festanti. Affievolito, ma distinto, esce dalla finestra socchiusa della sua cucina, l’aroma del soffritto e lo squillo insistente, convincente del telefono. Va avanti così fino a sera, oltre la programmazione TV in seconda serata, tutti i giorni, per trecentosessantacinque giorni all’anno.
Mi stacco dalla balaustra del mio balcone, dove sono uscito per cercare l’ispirazione per qualche altra telefonata inutile. Mi illudo forse che con l’insistenza si possa modificare il responso di un’Entità della negazione, di Qualcosa che non esiste?
Il mio balcone si trova al secondo piano. Non è altissimo ma per fortuna sotto c’è il cemento grezzo del cortile condominiale. Si tratta solo di avere l’accortezza di evitare il soffice tappeto erboso del giardino. Il primo a schiantarsi è il cellulare. Poi sono io. Faccio a tempo a intravedere il titolo della copertina del libro che mi scivola di mano e dà un ultimo colpo d’ala: ‘Cent’anni di solitudine’. Prima di chiudere gli occhi, accartocciato su me stesso al suolo, sento il mio orecchio tendersi verso quella manciata di frattaglie che, fino a cinque secondi fa, era il mio cellulare. Mi pare di percepire un suono, uno squillo, è delicato, ma suona, suona, come no, certo che suona, lo riconosco, è il suono del cellulare! Sono quasi morto, non sono cretino. Qualcuno sicuramente ha notato il mio numero memorizzato e ora sta chiamando, magari con un po’ di ritardo, ma insomma sono tempi questi in cui non siamo un po’ tutti presi da mille faccende? Il trillo del telefono è una bomba di energia per via auricolare. Ti mette sull’attenti le cellule dell’autostima. Ti dice: “Tu esisti! Sì, esisti, esisti amico, ci sei!”. Mi viene da ridere, perché questa volta potrei prendermi la soddisfazione di non rispondere. Ma sì, perché non far provare anche a questo misterioso telefonatore il senso di abbandono, di emarginazione, di solitudine, di frustrazione, di nientificazione? So di cosa sto parlando, perché ad ogni squillo del telefono andato a vuoto corrisponde un pezzo di te stesso che scompare, finché svanisci tutto intero dalla fotografia del gruppo di famiglia della vita. Se mai ci sei stato una volta, ora al tuo posto c’è un piccolo, insignificante spazio sbiadito.
Ma non c’è bisogno che faccia tutti questi sforzi… tanto, è il telefono della mia vicina che sta suonando.
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Dario Maria Desantis è nato a Milano dove ha studiato all’Accademia di Brera e ha frequentato Stage di Drammaturgia e Corsi di Teatro. Al suo attivo ha un repertorio eclettico di interpretazioni, da Re Lear di Shakespeare a Recital di poesia romantica, della beat generation, del teatro dell’assurdo. Nella pittura ha svolto attività nelle correnti della Mec Art, Arte Concettuale, Poesia Visiva e Pittura Digitale, realizzando mostre personali e partecipando a numerosi Premi nazionali e internazionali. Alcuni suoi testi compaiono in antologie di poeti contemporanei. Ha scritto per testate giornalistiche: Informare per Resistere, e Ossolanews con la rubrica ‘poesiaèlibertà’. Ha pubblicato “NO” ed. La Giuntina. “I nostri pezzi che un giorno furono interi poeti”, “Anche un sasso alla luce della luna sogna di essere Notre Dame” ed. Ossolanews, presentati a La Fabbrica di Carta, Salone del Libro dell’editoria. Come autore ha messo in scena alcune sue opere tra cui: Trepercento e Divas, in vari teatri tra i quali Galletti di Domodossola e Sociale di Omegna.