Claudio Morandini, è autore, oltre che di altre opere, del romanzo Neve, cane, piede Ed. Exorma (recensione ZEST qui), lavoro molto apprezzato, e oggetto di meritevoli menzioni e premi (selezionato, assieme a Tu non tacere di Ervas e Il silenzio del lottatore di Milone, per l’edizione 2016 del concorso Bookciak, destinato ai videomaker che produrranno i loro lavori ispirandosi a uno di questi libri; nella terna dei finalisti del Premio Procida – Isola di Arturo – Elsa Morante 2016, nella cinquina dei finalisti della seconda edizione del Premio Letterario Città di Lugnano, ndr)
Claudio, intanto grazie per la disponibilità.
Hai una scrittura versatile (dalla biografia leggiamo che hai scritto radiocommedie, monologhi per il teatro, testi di musica, racconti e romanzi), quindi una grande vis creativa… come nasce? Pensi di volerti misurare in altre modalità?
In questi decenni ho rinunciato prima al disegno, poi alla musica, interessi che ora mi limito a coltivare da amateur. Non saprei essere poeta (non saprei andare, ahimè, al di là di artifici eruditi). Mi resta la scrittura narrativa, che può essere praticata in condizioni di relativo isolamento come quella in cui vivo io. Ho raccontato di fantasmi, di uomini cattivi e ambiziosi, di musicisti sovietici, di picari, di montanari solitari. Sono spinto a impadronirmi di generi letterari che non siano proprio alla moda, non per farne la parodia, o contaminarli in un crossover post-moderno (in passato sono stato tentato di farlo, lo confesso), ma per riviverli, per appropriarmene, adattandoli al mio desiderio di raccontare storie mie.
Credo che il romanzo sia la mia misura ideale: è tante cose insieme, consente di sperimentare soluzioni ogni volta diverse e allo stesso tempo ha una fitta tradizione a cui attingere, soddisfa il mio desiderio di condividere storie. È teatro, trattato, fiaba, dialogo filosofico, riflessione, bollettino medico, che so, canto e elenco della spesa. È la forma più vicina al caos della vita, ma può diventare anche una palestra di stilizzazione, dipende da te. Consente di lavorare su molteplici livelli, ti concede un approccio diffusamente ironico, vive di digressioni e sbandate, di contaminazioni e rivisitazioni, si nutre di dubbi, lascia convivere il brutto accanto al bello, tollera anche zone di opacità, cali di ispirazione, ambiguità non risolte.
Ancora sulla scrittura: il metodo; che scrittore sei? Scrivi di getto, rifletti e lasci decantare oppure ceselli ogni riga e procedi per gradi…. e inoltre come nasce per te l’idea di un romanzo?
So che cosa non sono, o almeno ciò che cerco di non essere: non mi interessa raccontare di me, sia perché non trovo nulla di avventuroso nella mia vita, sia perché la straordinaria opportunità della scrittura narrativa sta nella possibilità di misurarsi con la diversità, con l’altro (lo è senz’altro per il lettore, è bene che lo sia anche per l’autore). Tanto qualcosa dell’autore, che questi lo voglia o no (meglio se non lo vuole, ancora meglio se non se ne accorge), finisce sempre dentro alle pagine.
Non sono nemmeno uno scrittore metodico. Il romanzo, quando va bene, si forma da sé, per così dire, dalla combinazione di situazioni, episodi, singole pagine, che ho messo da parte nel corso di mesi, o di anni, e che a un certo punto trovano una loro collocazione, un senso, un equilibrio attorno a un nucleo centrale. Non seguo scalette, non parto dallo scheletro di un plot. Lo svilupparsi di un’idea in romanzo ha per me qualcosa di organico: allo scrittore spetta di mantenere un certo controllo sulla materia, ma assecondandone lo sviluppo, osservandone da una certa distanza l’intricarsi della forma, lavorando sullo stile, questo sì. Una volta ho detto che non mi riconosco nell’autore che tiranneggia sui suoi personaggi come un campionissimo di scacchi che sin dalla prima mossa sa prevedere tutte le successive. Lasciamo loro – ai personaggi, intendo – un po’ di libertà, lasciamo che si arrangino, limitiamoci a osservarli senza star loro troppo addosso. Ecco, per definire lo scrittore attraverso una figura emblematica, più che allo scacchista provetto, o all’architetto, che lavora con materiali inerti, preferisco pensare al giardiniere, o all’ortolano: crea le migliori condizioni perché si sviluppino le piante del giardino-libro, spunta, zappetta, estirpa, innesta, cura.
Posso aggiungere che scrivo di getto, per non perdere l’idea, e di lavorare di bulino dopo, nel corso delle infinite revisioni. Ma certo, già mentre butto giù le parole, scrivendo al pc perché ormai sono più veloce sulla tastiera, mi pongo il problema della voce, del registro, del ritmo. Non mi dimentico mai che lavoro con le parole, più che con i nudi fatti, e che le parole vivono una loro vita parallela a quella dei personaggi, e meritano perciò rispetto e attenzione. Per riassumere ricorrendo a formule note: il piacere dell’invenzione viene prima, quello della precisione lo segue, anche se spesso i confini tra i due momenti sfumano.
Un buono scrittore è un lettore forte, quali sono i tuoi riferimenti letterari?
Sono tanti, tantissimi, ma è meglio non pensarci troppo quando si scrive. Cioè, chiariamo: uno scrittore deve essere prima di tutto un buon lettore, consapevole, critico, anche goloso. Ma la nostra voce dovrebbe essere davvero nostra, non essere il prodotto di un’operazione ammiccante di taglia-e-cuci delle voci dei grandi che ci hanno educati; queste dovrebbero risuonare nelle armoniche, non altro.
Chi scrive dovrebbe essere anche uno scopritore di libri. Non è importante solo conoscere i monumenti della storia letteraria, nutrirsi con la grande tradizione, con i pesi massimi del canone. Bisognerebbe secondo me saper scovare parentele nascoste con i libri che nessuno legge più, con gli autori negletti. Per dire, di recente inseguo le opere di Mattioni, Corinna Bille, Loria, Bertolani. E mi incantano le pagine tumultuose di Géza Csáth, Felisberto Hernández, Max Blecher. Non è questione di enciclopedismo, o peggio di snobismo: è che là fuori è pieno di tesori, e uno il canone dovrebbe farselo da sé, sin da quando è un ragazzino, e aggiornarlo senza adagiarsi tra i modelli obbligati, magari facendovi convivere riferimenti contraddittori, incompatibili, perché dagli attriti possono nascere nuove risonanze. Come suonerebbe un romanzo di Verne riscritto da Carla Vasio? Che cosa si racconterebbero Sterne e Calvino (Calvino c’entra sempre, è inevitabile)? E se Pinter adattasse per il teatro Ramuz? Se Bassani e Manganelli scrivessero, che so, un romanzo a quattro mani? È un fantasticare un po’ sciocco, questo, lo so, ma io mi ci imbambolo.
Poi in letteratura i padri è bene magari non ucciderli, che è sempre brutto, ma almeno litigarci, per non ridursi a epigoni, a nipotini ossequiosi, a manieristi. Il mio personale rapporto con Landolfi e Palazzeschi è fatto di continue prese di distanza.
Il tuo ultimo romanzo Neve, cane, piede, è stato definito: “… per temi, situazioni, qualità dei personaggi, un breve romanzo di montagna, alla maniera degli scrittori svizzeri che alla vita sulle Alpi si sono dedicati, in particolare Charles-Ferdinand Ramuz.” Mi viene da riflettere sulla necessità di recupero di un contatto più intenso ed essenziale con l’ambiente. C’è un messaggio in questo senso?
Confesso di non amare i messaggi in letteratura, né come scrittore, né come lettore. Mi piacciono i libri che, senza dimenticare lo stile, e senza rinunciare a divertire o a commuovere, spiazzano, turbano, ti spalancano davanti un bell’abisso, ti costringono a misurare i tuoi limiti, ti fanno esitare. I messaggi troppo definiti mi sembrano rientrare nella categoria del rassicurante, del prevedibile, dell’atteso.
Certo, è sacrosanto che la narrativa costringa (o, garbatamente, inviti) a pensare: aprendoti davanti agli occhi la problematicità, la complessità del mondo, non fornendoti risposte già pronte. A modo suo, un piccolo romanzo come Neve, cane, piede può (forse, non ne sono sicuro) suggerirti di scoprire la bellezza là dove non te l’aspetteresti, o di guardare un po’ più in là o più in basso o in alto di dove guarderesti di tuo; può darti la misura di una natura ferita dall’uomo, ma in cui l’uomo è un accidente, di cui essa potrebbe fare a meno; o farti sentire la voglia (o l’urgenza) di un rapporto più attento con ciò che ti circonda. Non sono effetti cercati, però.
Si può credere che l’uomo sia oggi in grado di prestare un ascolto meno distratto alla natura?
Non saprei. Forse una volta (ma quando?) ci si poneva in ascolto in modo diverso, o la natura parlava con voce più potente. So che l’uomo dovrebbe farlo, questo sì. I segnali ancora ci sono, ma non siamo in grado di captarli. Forse la letteratura, che riattiva i cinque sensi e insegue suoni, odori, colori di cui altrimenti non ci accorgeremmo, può aiutare a percepirli, a distinguerli rispetto al rumore bianco della civiltà. Per riprendere la figura dello scrittore-ortolano, e l’immagine del giardino-libro: scrivere può essere inteso come un atto ecologico. Neve, cane, piede, in questo senso, sta funzionando come una sorta di amplificatore dei rumori e delle voci della natura: ne ha colto e tramesso le frequenze, enfatizzandole, talora distorcendole. Pensa al lungo inverno sotto la neve, al fracasso di quell’inverno. Non era proprio mia intenzione dar voce alla natura, non ero animato da un reale intento ambientalista, volevo soprattutto tenermi lontano dal cliché della montagna-arcadia, e piuttosto pormi in ascolto, in attesa, questo sì, e registrare tutto: è il mio modo di raccontare che persegue questa sensorialità, ma sono contento che la lettura del libro suggerisca queste riflessioni.
Nella scelta narrativa dell’umanizzazione degli animali, o anche nella percepita simbiosi adattiva tra il protagonista e la montagna intravediamo un segnale di ricongiungimento del singolo all’umanità proprio attraverso una pratica di isolamento (cioè di privazione)…
Qui sta secondo me una bella, fertile ambiguità: Adelmo Farandola non è proprio un modello da seguire, non vuole esserlo, non saprebbe esserlo. Il suo rapporto con la vallata in cui si è isolato non è esattamente ispirato a sentimenti condivisibili di armonia e rispetto, è vissuto come conflitto perenne, come violenza praticata e subita, come rintanarsi animalesco, un po’ predatore un po’ preda. La sua vita è una fuga e un rifiuto, non un progetto di riconciliazione con l’ambiente, non so se per l’incapacità di Adelmo di guardare al di là del suo presente e della sua sopravvivenza, o per l’oggettiva impossibilità di venire a patti con una natura così distaccata e ostile.
Però Adelmo Farandola ritrova la sua umanità grazie alla compagnia del cane. Il cane gli fa riscoprire la parola attraverso il continuo invito al dialogo, lo costringe a un confronto continuo con le esigenze e le pulsioni dell’altro, lo fa uscire insomma da una dimensione puramente egoistica. Non sono gli altri umani a rendere Adelmo Farandola più umano, anzi, ogni incontro tende a ricacciarlo indietro, in una diffidenza animalesca, preverbale: a renderlo eloquente sono gli animali, gli esseri viventi in genere, anche la parte minerale della vallata, anche il morto che sbuca dalla valanga nell’ultima parte del romanzo.
Della natura Adelmo coglie confusamente (sulla roccia, ovunque) tracce di possibili ma misteriosi linguaggi: anche questo, se vuoi, è legato alla sua componente umana, l’interrogarsi sui segni, come lo è la tendenza a interpretare in chiave simbolica tali segni.
Una curiosità: hai conosciuto davvero un Adelmo Farandola?
No: quell’incontro raccontato nelle pagine finali intitolate “Storia di questa storia” non è mai accaduto, è una continuazione dell’invenzione letteraria. Nessun vecchio montanaro fuori di testa mi ha mai preso a sassate mentre salivo per un sentiero. Lo confesso: in quelle pagine ho giocato a mantenermi in equilibrio tra realtà e finzione. Però gli Adelmi Farandola esistono, e diversi lettori mi hanno confidato di averne incontrati, burberi e scostanti, tesi alla difesa del loro territorio. Potrei benissimo imbattermi in uno di loro in una prossima scampagnata.
Le esperienze della vita ci aiutano a determinare una nostra idea di benessere, qual è la tua?
“Benessere” mi piace, è un concetto che riesco ad afferrare e posso definire, e magari vivere, non come “felicità”, che mi suona frustrante e inafferrabile. La mia idea personale di benessere (diciamo un benessere pieno, che non sia occasionale, che non sfumi subito, che non sappia di spot televisivo) è fatta di pace, silenzio, contemplazione, dialogo a mezza voce, manutenzione regolare dei rapporti, condivisione non petulante di alcuni punti importanti, domande ben poste e magari qualche risposta non categorica, e tempo, tanto tempo.
Quali sono i nuovi progetti?
Neve, cane, piede continuerà a occuparmi ancora per un po’. Poi, sì, ho tra le mani altri progetti letterari, che non vedo l’ora di sottoporre agli amici di Exòrma. Chissà se ci saranno altre montagne.
Nota Biografica:
Claudio Morandini è nato ad Aosta nel 1960. Prima di Neve, cane, piede, uscito alla fine del 2015 per i tipi di Exòrma, ha pubblicato cinque romanzi, tra cui Le larve (2008), Rapsodia su un solo tema (2010) e A gran giornate (2012). Collabora con Letteratitudine e con le riviste letterarie Fuori Asse, Diacritica e Zibaldoni e altre meraviglie. Suoi racconti sono apparsi in antologie e riviste o sono disponibili in rete.
Il suo sito web: http://claudiomorandini.com/