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di Antonia Santopietro


Mirko Zilahy
, autore del romanzo thriller È così che si uccide,  Longanesi, 2016, (recensione ZEST qui), ha lavorato per Fazi editore come redattore-aiuto editor. Nel marzo 2014 è uscito nella sua traduzione Il Cardellino di Donna Tartt per Rizzoli (premio Pulitzer), poi editor della narrativa straniera di Minimum Fax, giornalista pubblicista, collabora con il Manifesto con recensioni letterarie.

Gli abbiamo rivolto qualche domanda:

Laurea in lingue e letterature straniere, professione di editor e traduttore per case editrici. Potrebbe sembrare una domanda banale ma di cosa si nutre e si è nutrita la tua scrittura? Di quali autori?
Di tutto quello che ho letto da ragazzo, che ho studiato prima e insegnato poi all’Università. Da Wilde a Stoker (Il ritratto di Dorian Gray e Dracula sono libri che continuo a rileggere), da Joyce a Poe (Gente di Dublino e Il cuore rivelatore), Dickens e Stevenson (Il canto di Natale e Dr Jekyll e Mr Hyde). Poi Leopardi, Svevo, Palazzeschi, Gadda, Manganelli. Tra i thrilleristi amo Shane Stevens, Deaver, e chiaramente il grande King. Ma anche in Italia abbiamo dei grandi narratori di genere, come Carlotto, Carrisi, Costantini, De Giovanni.

Sappiamo che hai tradotto Il cardellino un’opera imponente di Donna Tartt, tradurre un’opera letteraria ha una difficoltà di fondo e un pericolo nell’essere il giusto medium per l’apprezzamento dell’opera in una lingua non originaria, e anche in un contesto culturale diverso. Che regole ti dai?
La regola dello spettro: devo essere specchio del testo ma invisibile come un fantasma. Devo mediare continuamente tra la lingua e la cultura di partenza e la nostra, tra la lingua dell’autore e la sua resa in italiano.

Il tuo romanzo d’esordio, È così che si uccide, è uscito per Longanesi nel 2016, è un thriller molto apprezzato, lo ritieni il tuo genere di elezione o pensi di spaziare in altre scritture?
Al momento sto scrivendo il seguito che fa parte della trilogia di Roma con il commissario Enrico Mancini come protagonista. Quando la avrò terminata di certo mi confronterò con altre scritture, sento la necessità di farlo. Ma senza mai abbandonare il genere!

Volendo dare dei pesi alle tue molte anime applicate al mondo letterario quali senti possa essere quella che ti aderisce maggiormente?
Gli anni del dottorato in Irlanda sono stati i migliori e credo che fare ricerca a quei livelli fosse nelle mie corde. In effetti è una cosa che ho riportato nella scrittura dei miei romanzi, questa necessità di approfondire i particolari fino alle estreme conseguenze.

Un commento personale: crisi dell’editoria o crisi culturale?
Crisi culturale che investe, a cascata, il mondo editoriale. Ma siamo in ripresa. Lenta ma progressiva.

E ora una domanda ZEST: le esperienze della vita ci aiutano a determinare una nostra idea di benessere, qual è la tua? E in che modo, se credi sia possibile, l’arte supporta una visione di vivere sostenibile?
Benessere: una tana in cui nascondermi con la mia famiglia e dedicarci insieme alle cose che ci piacciono, al cibo, alle letture, ai film. Fuori dalla tana viaggiare tanto, insieme. Amo tanto il mare quanto la montagna e mi piace vedere sempre cose nuove.
L’arte in sé non supporta nulla, sono gli uomini che devono rendersi conto della necessità di una vita sostenibile a tutti i livelli, dalle scelte dentro casa a come ci si comporta fuori, al cibo che si sceglie, a come si viaggia. In questo senso credo che sia utilissimo che in Italia siano pubblicati sempre più volumi sulla possibilità di una vita ecosostenibile, dall’alimentazione all’energia.

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Intervista a Mirko Zilahy

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