Nel tuo blog affermi di “Amare disperatamente la scrittura.”, ti proponiamo una prospettiva con la quale misurare questa affermazione: James Joyce dice: “la cosa importante non è ciò che scriviamo, ma come scriviamo e, a mio avviso, lo scrittore moderno deve essere prima di tutto un avventuriero, disposto a correre qualche rischio e preparato, se necessario, a fallire nel suo sforzo. In altre parole dobbiamo scrivere pericolosamente oggigiorno tutto tende al flusso e al mutamento e la letteratura moderna per essere valida deve esprimere quel flusso.” (da J. Joyce, Scrivere Pericolosamente – Minimum Fax). Paolo Zardi scrive pericolosamente?
Uno dei vantaggi di non essere uno scrittore professionista, di non vivere dei miei libri, è quello di non essere costretto a tenere conto delle conseguenze delle mie scelte di autore. Scrivere è una delle esperienze più divertenti che esistano. Ma ad ogni parola che si scrive, l’obiettivo al quale si tende si sposta un metro più avanti. Da un punto di vista stilistico, da un punto di vista dei contenuti. Mettersi davanti ad un PC, aprire un programma di editing, trovarsi la pagina vuota davanti, e iniziare a riempirla di parole, ha senso solo se sei onesto con te fino in fondo. Se non cedi alle facili tentazioni. Scrivere quello che si sa scrivere, ad esempio. Adagiarsi su se stessi. Trovare uno stile e usarlo per semplificarsi la vita. Cercare di essere simpatici. Ci sono mille tentazioni. Se le segui, diventa un lavoro che non serve a nessuno. O ti metti in gioco, o tanto vale lasciare stare. So che può suonare inquietante, ma scrivere vuol dire dialogare con i propri demoni: le proprie paure, le insicurezze. È l’immagine della morte che ognuno vede dentro di sé. Il timore di perdere quello che si ama. Un rapporto difficile con la realtà. Da questo punto di vista, dunque, credo di scrivere pericolosamente – non tanto per gli altri quanto per me stesso.
La passione secondo Matteo (Neo 2017) affronta temi fortemente inseriti nel dibattito contemporaneo, quali ad esempio l’eutanasia, la realtà ispira la tua narrazione, che idea hai di aderenza al “vero” e quanto le scelte del linguaggio ti aiutano a rimandarci gli aspetti più profondi di essa?
“La Passione secondo Matteo” ha una storia molto lunga: nasce, come idea germinale, intorno al 2008, e in quegli anni il dibattito sull’eutanasia era ancora agli albori. Non c’è dubbio che la realtà finisca per influenzare chi scrive – la scrittura è uno dei modi con i quali una persona cerca di rielaborare le proprie esperienze personali, il proprio vissuto, e di dare loro la forma di un punto di domanda. Da questo punto di vista, possiamo immaginare lo scrittore come un tubo che convoglia la luce del mondo nello spazio ristretto di una pagina: semplifica, ordina, organizza, e poi mette in scena. Tuttavia, ciò che manca – o almeno ciò che manca a me – è il desiderio di fornire un qualsiasi tipo di risposta generale ai grandi problemi della società. Il libro non parla di Eutanasia, ma del rapporto tra un uomo, Matteo, e suo padre, Giovanni, mentre quest’ultimo è in punto di morte: la richiesta che pone Giovanni è del tutto personale, così come la scelta che Matteo decide di compiere. I personaggi non sono delle comparse che mi aiutano a mettere in scena il tema del fine vita; viceversa, direi, il tema del fine vita mi consente di far emergere l’unicità di questi esseri umani. Chi scrive si concentra sul particolare, con la speranza di cogliere qualcosa di universale che neppure lui conosce.
Qual è il significato della parola nel titolo “Passione”, la valenza che si propone nel romanzo?
In italiano la passione ha due significati, che derivano da una radice comune: passione come sofferenza, e passione come sentimento capace di travolgere qualcuno. Nel libro la parola assume entrambi i significati.
Ti muovi con agio sia con la narrazione in forma lunga che con i racconti. Che differenza trovi nelle due stesure?
In generale, sono le idee a scegliere la lunghezza del testo che le conterrà: io non faccio altro che adeguarmi a questa necessità. Il romanzo consente di rappresentare l’evoluzione, o l’involuzione, personale di un essere umano. C’è quasi sempre una trasformazione in corso, che viene seguita con pazienza in tutte le sue tappe. Nel racconto, invece, si mette in scena un’epifania, quel momento in cui un singolo evento produce una sorta di rivelazione; è uno squarcio improvviso, simile al lampo che si intravede nel celebre quadro “La tempesta” del Giorgione.
Ci sono due metafore che possono aiutare a spiegare meglio il mio punto di vista su questa differenza. La prima riguarda il mondo della musica: il romanzo è una sinfonia, il racconto una sonata. La differenza sostanziale tra questi due generi non riguarda solo la loro lunghezza, ma anche la varietà dei temi sviluppati, la presenza di variazioni, i rimandi tra le singole parti, la struttura. La seconda metafora, molto più terrena, è quella che paragona il racconto a una gara di 100 metri, e il romanzo a una maratona. Nella corsa veloce, serve una partenza perfetta, e l’erogazione della massima potenza fino al traguardo; nella maratona, ci sono pause, avvicendamenti in testa, piccoli colpi di scena, e tanta, tanta fatica.
Tra i due generi, non ho una predilezione: ciascuno fornisce soddisfazioni e frustrazioni in uguale misura.
Dostoevskij disse “siamo tutti usciti da Il cappotto di Gogol‘” in qualche modo questa attestazione è simbolo di una certezza di tributo letterario risalente, la usiamo solo come modus: da quale “Cappotto” classico e moderno puoi invece far derivare il tuo tributo letterario.
Prima di rispondere alla domanda, una piccola curiosità. Il nome del paese ucraino in cui si svolge La Passione secondo Matteo, cioè Voronyhrad, è inventato; tuttavia la città che viene descritta esiste, è reale, ed è possibile determinare la sua esatta denominazione da questo brano:
Lessero anche le opere teatrali di Cechov, Il giardino dei ciliegi, Zio Vanija e Il gabbiano, ed entrambi si stupirono quando, a un certo punto, veniva nominata Voronyhrad: nel primo atto, Samraev, parlando ad Arkadina, diceva che nel 1873 aveva visto recitare stupendamente un’opera (della quale non diceva il nome) alla Fiera di Voronyhrad. Era quello il motivo per cui Giovanni aveva pensato a Cechov la prima volta che aveva sentito nominare la città di Natalia?
Se uno avesse la pazienza di leggere quale città viene citata ne Il gabbiano scoprirebbe che è il paese natale di Gogol’.
Per quanto riguarda il mio personale cappotto, credo di essere debitore a tantissimi scrittori classici e contemporanei – ho letto molto, nella mia vita, e con molta attenzione e curiosità. Sono debitore a Kafka, forse il primo autore che ho veramente amato; a Salinger, che nell’estate del 1982 mi ha fatto sentire che stavo crescendo, e a Milan Kundera, che nell’estate del 1986, con L’insostenbile leggerezza dell’essere ha certificato il mio passaggio all’età adulta; a Philip Roth, probabilmente l’autore più importante della mia vita, a Flaubert, maestro insuperabile di stile, a Martin Amis che sfida tutti gli altri in grandezza, coraggio e fantasia; a Céline, un gigante, e a Saul Bellow: e last but not least a Nabokov, che mi ha donato la consapevolezza dello scrivere. Ci sono poi decine e decine di scrittori contemporanei, italiani e stranieri, che, portando avanti il loro personale modo di intendere la scrittura, contribuiscono a definire nuovi traguardi, anche per me. Senza fare torto a chi non cito, mi permetto di fare alcuni nomi: Fabio Viola, Cristò Chiapparino, Nicola Pezzoli, Stefano Sgambati, Enrico Macioci, Francesco D’Isa.
Secondo il tuo osservatorio, qual è lo stato del romanzo oggi?
Il romanzo, così come lo si intendeva nel ventesimo secolo, è morto, anche se nessuno ha il coraggio di dirlo. Il suo impatto sulla società, la sua capacità di produrre cultura e idee, di sondare la realtà, di smascherarla, di fornire nuove interpretazioni, non ci sono più. Le cause sono molteplici: la presenza di narrazioni più facilmente fruibili, come le serie tv; la pervasività di altri mezzi di comunicazione – la loro capacità di arrivare ovunque e in modo semplice… . In questo momento, il romanzo è un fenomeno marginale, anche dal punto di vista statistico. Mediamente, un libro italiano pubblicato da una grande casa editrice, vende 2.000 copie; ci sono youtuber alle soglie dell’analfabetismo che, attraverso i video prodotti, hanno raggiunto complessivamente un miliardo di visualizzazioni. Succederà quello che è successò alle sinfonie, all’opera lirica, all’epica: rimarrà un nucleo di appassionati, colti e preparati, che continuerà a celebrare le grandi opere del passato, con un misto di rimpianto e malinconia.
Cosa manca a tuo avviso nel panorama letterario attuale in Italia e nelle scelte del sistema editoriale?
È una domanda molto complessa, che presuppone il fatto che io, che per vivere faccio tutt’altro, sappia analizzare il sistema editoriale meglio di quanto non stiano già facendo gli addetti ai lavori. Sento parlare spesso dei problemi dell’editoria. Alcuni sostengono che non si sperimenti abbastanza, ma io vedo un proliferare di piccole case editrici che cercano di diversificare la loro offerta con cose nuove.
Ci provo comunque. In psicologia esiste un fenomeno chiamato “sazietà semantica”: se si ripete una parola all’infinito (ad esempio “romanzo”), a un certo punto comincerà a sfuggirci il suo significato. Credo che nella società attuale, la frase “il libro è un prodotto come tutti gli altri” abbia subito questo destino: tutti la ripetono, come se fosse una verità inoppugnabile, ma nessuno riesce più a comprendere le conseguenze drammatiche di questa affermazione. Cosa deve fare una casa editrice? Vendere o produrre cultura? Le due cose non sono necessariamente incompatibili; nel dubbio, però, si è lasciato che le scelte editoriali entrassero nella sfera di interesse dei commercialisti, degli strateghi del marketing, dei pubblicitati; e a quel punto è arrivata la nemesi: nei libri, più pensi a guadagnare e meno venderai. I lettori sono animali strani. Cercano contenuti, non packaging. A mio parere, si dovrebbe tornare a parlare di libri.
Per ZEST: quali sono le tue pratiche di sostenibilità.
Ho due figli che stanno crescendo, cerco di lasciare loro un mondo migliore. Mi muovo esclusivamente con i mezzi pubblici; quando posso, uso la bici. Differenzio. Voto per chi cerca di attuare politiche attente alla sostenibilità delle scelte .
Paolo Zardi (1970) vive a Padova. Ha curato l’antologia L’amore ai tempi dell’Apocalisse (Galaad, 2015) e pubblicato racconti in diverse antologie. Suoi i romanzi brevi in ebook Il signor Bovary (Intermezzi, 2014), Il principe piccolo (Feltrinelli Zoom, 2015), La nuova bellezza (Feltrinelli Zoom, 2016). Nel 2012 ha pubblicato il romanzo La felicità esiste (Alet). Suoi racconti sono stati tradotti e pubblicati dalla rivista “Lunch Ticket” dell’Università di Antioch (Los Angeles). Con Neo Edizioni ha pubblicato la raccolta di racconti Antropometria (2010), Il giorno che diventammo umani (2013) e il romanzo XXI Secolo (2015), finalista al Premio Strega 2015 e in numerosi premi nazionali. Lo stesso romanzo è stato tradotto in spagnolo col titolo Las chimeneas ya no echa humo (Tropo Editores, 2016). Cura il blog letterario grafemi.wordpress.it.