Invidia
Jurij Karlovič Oleša
Trad. D. Liberti
Carbonio editore 2018
| Rubrica "Glaza" a cura di Davide Morganti
Babičev è il futuro, è il presente, è la massa, è l’utopia, quella che l’Unione Sovietica degli anni Venti del Novecento stava affermando in maniera violenta; lui canta al mattino, è baldanzoso, ha in mente di organizzare una mensa collettiva: è dunque un funzionario ben integrato, quasi inconsapevole del periodo storico che sta vivendo.
“Quando si stende sulla stuoia di schiena e inizia ad alzare le gambe alternativamente, il bottone si slaccia e l’inguine rimane scoperto. È un inguine meraviglioso. Una tenera macchiolina di peli. Un recondito angolino. L’inguine di un riproduttore. […] Si lava come un bambino: soffia, saltella, sbuffa, emette gemiti. Attinge acqua a piene mani e prima di arrivare a sciacquarsi le ascelle, ha già spruzzato tutta la stuoia: l’acqua cola e raccoglie sulla paglia in grosse gocce trasparenti. La schiuma quando cade nel catino sembra sfrigolare come una frittella. A volte il sapone gli va negli occhi e allora impreca, mentre con i pollici si sfrega le palpebre. Nel fare gargarismi, emette tali squittii che la gente che passa sotto il balcone si ferma e alza la testa”.
A descriverlo è Kavalerov, una specie di intellettuale raccolto in strada da Babičev e portato a casa sua; è roso dall’invidia, dalla rabbia proletaria che non riconosce un vero cambiamento. Questi sono i personaggi dell’unico romanzo di Jurij Oleša (1899 – 1960): Invidia. Il giovane scrittore ebbe non pochi problemi per questo suo libro che appariva come una rumorosa satira a un sistema che si reggeva in piedi sui morti, sulla paura e su dolorose costruzioni politiche.
Romanzo che, specie nella seconda parte, risente del dadafuturismo per cui le frasi e le azioni si sovrappongono, si spezzano per meglio rendere la confusione di un mondo, come quello comunista (e quello capitalista), incapace di cogliere le esigenze dei singoli. Kavalerov è l’uomo del sottosuolo, è il rancore, la critica astiosa a un modo di pensare innovativo solo in apparenza ma che in realtà continua a umiliare il sottoproletariato, non a caso a un certo punto il giovane scrive: “Lui non ascolta nulla di quello che dico”.
Una sordità umana e sociale di cui parlerà per esempio alcuni anni dopo un misconosciuto scrittore cèco, Jirí Weil, nel suo splendido La frontiera di Mosca (Laterza 1970).
Oleša adopera un linguaggio forsennato, dal ritmo frenetico, tanto da inserire, negli ultimi capitoli, grandi pagine sul gioco del calcio, raccontando una partita dove Kavalerov minaccia di uccidere il fratello di Andrej Babičev, Ivan.
Ivan è follia, vino, disordine, è la parte oscura di un Mondo Nuovo che di nuovo ha solo le divise. Il calcio, che all’epoca stava sviluppandosi, e il comunismo sono accomunati dalla stessa passione per la folla, dalla libidinosa ansia il dominio, di certo questo è uno dei primi romanzi che lo racconta.
“All’improvviso il pallone, con un calcio potente e non calibrato, volò in alto e di lato, fuori campo e fuori gioco, in direzione di Kavalerov, sibilò sulle teste che si erano chinate nelle file inferiori, ristette un istante e piroettando con tutte le sue striscioline di cuoio, precipitò sul pavimento d’assi, ai piedi di Kavaerov. I giocatori si immobilizzarono, colti alla sprovvista. L’immagine del campo da gioco, verde e variegato, che per tutto il tempo era stata movimento dinamico, ora di botto si era pietrificata. […] L’astio di Kavalerov salì di grado. Intorno a lui tutti ridevano. È noto che ogni volta che il pallone cade tra gli spalti suscita sempre l’ilarità degli spettatori: solo in quel frangente, essi sembrano rendersi conto di quanto sia buffo quel rincorrere la palla per un’ora e mezzo, che costringe loro – gli spettatori, delle persone sconosciute – a considerare con una tale serietà e passione quel modo veramente sciocco per i giocatori di passare il tempo”.
Analisi di come, dunque, dei movimenti di massa siano capaci di istupidire l’uomo e come questa inconsistenza, nel momento in cui l’uomo si ferma, diventa di una evidenza grottesca. Si passa dalla prima persona nella parte iniziale alla terza in quella finale per rappresentare l’annientamento del singolo che solo la follia di Ivan cerca di evitare, con il suo agire buffonesco.
Kavalerov è l’inetto, l’uomo incapace di agire e di decidere, preferendo l’etica del suo rancore piuttosto che la brutale affermazione di un futuro inadatto all’umanità.
“Amico mio, siamo rosi dall’invidia. Noi invidiamo l’epoca futura. Se vuole, possiamo dire che si tratta dell’invidia della vecchiaia. Dell’invidia di una generazione che è invecchiata per la prima volta. Parliamo dell’invidia”.
Romanzo complesso e di un disordine costruito - impensabile nel nostro oggi di raccontini più lineari di un elettroencefalogramma piatto – per mostrare l’orrore dei Sistemi. Oleša è stato capace in poche pagine di segnare su carta un periodo che ha impastato nel sangue e nell’inchiostro idee, vizi e un’ansia mortale di voler cambiare il tempo senza saper aspettare la Storia; romanzo capace di deridere i megasistemi di una volta che hanno distrutto l'Europa (e parte dell'Asia) ma anche i macrosistemi di oggi, che in nome della democrazia impongono modelli di vita che somigliano più a brand aziendali che a idee.
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JURIJ OLEŠA (1899 Elisavetgrad, odierna Kropyvnyc’kij – 1960 Mosca), dopo una prima esperienza letteraria a Odessa si trasferì a Mosca nel 1920. Nella redazione della rivista dei ferrovieri Gudok entro in contatto con scrittori come Bulgakov, Il’f, Kataev. Il suo primo e unico romanzo Invidia (Zavist’) esce sui numeri 7 e 8 della rivista Krasnaja Nov’ (Novale rosso) nel 1927, seguito un anno dopo dalla narrazione fiabesca I tre grassoni (Tri tolstjaka). Le sue opere furono bandite fino al 1956. Nel 1965 comparve una selezione dai suoi taccuini curata da V. B. Šklovskij.