Italo Svevo – Fernando Pessoa | Inaspettate similitudini a confronto
di Dario Pontuale |
Nella prima metà del Novecento, mentre l’Io conosce la sua fatale e inesorabile disgregazione, mentre la letteratura scava sotto le sue stesse basi cambiandone l’aspetto, alcuni autori come Joyce, Musil, Kafka e Proust scelgono, per la loro scrittura, la via del “vivere nascosti”1. A questi, e alla loro scelta artistica, vanno certamente aggiunti altri due nomi legati ancor più da destini analoghi; Italo Svevo e Fernando Pessoa.
Figli di città affacciate sul mare, Trieste e Lisbona, alle quali sono visceralmente legati e nelle quali spesso si nascondono, impiegati di ceto per necessità, ma scrittori per vocazione, sono entrambi intrappolati e oppressi da una grigia quotidianità che li isola giorno dopo giorno.
Se Svevo nella sua intera esistenza, pur se venticinque anni di silenzio e non poche perplessità, pubblica in tutto tre romanzi, Pessoa invece preferisce addirittura tenere i propri lavori sotto chiave in un baule e al massimo concedere una raccolta di poesia intitolata “Mensagem”. All’autore portoghese, con riviste come “Orpheu” o “Athena”, va certamente riconosciuto il merito di aver introdotto o inventato avanguardie e tendenze letterarie europee, ma tra la produzione giornalistica e quella scrittoria c’è una sostanziale differenza di contenuti. Svevo e Pessoa, come altri autori novecenteschi, vivono nascosti, per scelta o per necessità, la loro vena letteraria vestendo i panni più comuni dell’impiegato di banca e poi imprenditore di una ditta di vernici, il primo, e di corrispondente in una società di import-export, il secondo. Questa condizione di eclissati, però, genera in essi un’impetuosa vigoria letteraria, ricca di complesse sfaccettature e angoli bui. Di queste figure, infatti, resta assai difficile delineare una fisionomia precisa perché l’attività artistica si mescola, senza indugio, alla biografia e tracce di ogni loro passo riemergono vive tra le righe scritte. Sotto a ogni storia, dietro a ogni personaggio, che si sbaglierebbe definire inventato, si celano stralci di vita vissuta. Di vita masticata realmente; l’autore la racconta riversandoci dentro parte di sé stesso, ma in virtù di quel suo vivere nascosto, sceglie di contraffarla nel nome e nelle sembianze più appariscenti.
Proprio come soluzione a questa esigenza, a questa volontà di personificazione, sia Pessoa, in maniera più manifesta, sia Svevo, in maniera più velata, ricorrono all’uso dell’eteronimia. L’autore portoghese in una lettera indirizzata ad Adolfo Casais Monteiro non si limita a tratteggiare i profili dei quattro più celebri suoi eteronimi (Ricardo Reis, Alvaro de Campos, Alberto Caerio e Bernardo Soares), ma addirittura ne racconta la vita, la professione, la faccia e persino il segno zodiacale.
Questi personaggi, che affolleranno le opere dello scrittore di Lisbona, hanno più di una caratteristica in comune: sono uomini, quasi coetanei, fisicamente simili tra loro ma, soprattutto, sono soli, stesse peculiarità incarnate da Fernando Pessoa. Simile discorso può valere per Italo Svevo il quale, anche se non concretizza in siffatte schede anagrafiche i protagonisti dei suoi tre romanzi, certamente li plasma sulla falsa riga della propria esistenza: Alfonso Nitti di “Una Vita”, Emilio Brentani di “Senilità” e Zeno Cosini de “La Coscienza di Zeno”. Se Nitti è il giovane bancario insoddisfatto e aspirante scrittore, se Brentani è l’illuso e abbandonato spasimante e Zeno il nevrotico e inadeguato direttore d’azienda allora appariranno chiari i rinvii alla vita stessa di Svevo che, come Pessoa, fa sprofondare infine senza pietà i suoi personaggi in un abisso di solitudine e desolazione. Mario Fusco osserva che:
Indubbiamente Svevo apparteneva a quella particolare categoria di scrittori che non sono capaci di immaginare alcunché senza prestare ai loro eroi qualcosa della loro vita.2
Credo che una simile affermazione possa essere allargata anche a Pessoa.
L’occhio di Svevo, come quello di Pessoa, è l’occhio dell’uomo del Novecento che scruta l’orizzonte tentando di ritrovare la rotta smarrita, è l’occhio di chi, dubbioso, si osserva e non riconoscendosi tenta di ritrovarsi in una molteplicità di Io che non sospettava di avere e invece lo accerchiano lasciandolo solo. Proprio tale frammentazione dell’Io, manifestata con gli eteronimi, permette a ognuno di queste parti di trovare una voce e una coscienza con la quale si indaga, si interroga, si racconta sulla pagina bianca realizzandosi, però, in un grido disperato di aiuto. I personaggi sveviani e pessoani, come molti altri della letteratura di questo periodo, hanno una comune patologia: il tormento della moltiplicazione dell’Io, sfociante in una dolorosa e totale disgregazione dell’individuo, con conseguente separazione dal mondo circostante. La separazione dal mondo circostante non porta altro che a un’evidente inadattabilità con il mondo stesso, a un’incapacità alla realtà, a uno stato di frustrazione che si consuma lento tra la dimessa vita impiegatizia e le angosce mai sopite.
La relazione che lega questi due scrittori è resa ancora più evidente se si mettono a confronto due romanzi in particolare: “La coscienza di Zeno” ed “Il libro dell’inquietudine”: Il primo edito nel 19233, l’altro pubblicato postumo solo nel 19824, è frutto di una difficile e scrupolosa ricostruzione testuale. Queste opere di lunga gestazione, entrambi gli autori impiegarono quasi vent’anni di sforzi segreti, rispecchiano le caratteristiche fin qui esaminate: i loro protagonisti, Zeno Cosini e Bernardo Soares, svolgono un impiego molto simile a quello dei loro creatori (socio alla pari di una associazione commerciale ed aiutante contabile), sono personaggi fondamentalmente soli e vittime di una quotidianità soffocante, ma soprattutto sono essi stessi firmatari del proprio diario.
Antonio Tabucchi5 afferma che Pessoa ha elaborato un romanzo “doppio”, ossia ha inventato il personaggio di Soares e allo stesso tempo ha demandato il compito della stesura di un diario, sfruttando così la finzione letteraria e la finzione. A questa affermazione credo sia plausibile avvicinare, senza troppe difficoltà, anche l’impegno di Svevo con al seguito la sua “Coscienza” e il suo Zeno. Per assolvere a questa funzione, appunto, ambedue gli autori adottano come espediente una lettera preparatoria al testo nella quale presentano al lettore: il protagonista, la sua vita e la sua storia. Non è poi di fondamentale importanza se a farlo sarà Pessoa stesso o un fantomatico Dottor S, sotto le mentite spoglie dello scrittore triestino, l’importante è che da quel momento in avanti la realtà cede il passo alla fantasia, vera o presunta che sia.
Anche il Tempo ha un trattamento simile all’interno delle opere esaminate, ovverosia non segue mai una scansione lineare. Negli otto capitoli della “Coscienza” come nei duecentocinquantanove frammenti che compongono il “Libro dell’Inquietudine” sui quali non vi è alcun criterio organizzativo imposto dall’autore, non vige una ferrea consequenzialità temporale. Questo apparente disordine, come affermato anche da Giacinto Spagnoletti 6, è però la dimostrazione più autentica dell’utilizzo deliberato di un registro intimistico come quello del diario che, rivelandosi anche nell’impiego della prima persona e dell’ampia riflessione individuale, non si concede all’ordine cronologico dei fatti. Montale 7 scrisse quanto la “Coscienza” fosse un libro senza una trama raccontabile, uno di quei libri che possono fare a meno di un “fatto” apprezzabile restando comunque dei capolavori; lo stesso può essere dichiarato per il romanzo pessoano.
Nell’universo temporale del diario, i personaggi principali possono riversare senza impedimenti le loro più fosche riflessioni, trovare una voce alla loro coscienza consentendo, inoltre, lo scandaglio del proprio spazio inconscio e del proprio Io. Da simili ragionamenti, però, emergono le figure di due uomini che osservano la vita senza viverla, ne restano distanti nei sentimenti perché sono incapaci di parteciparli e il loro aspetto è concreto solo nella materia. Bernardo e Zeno hanno un lavoro, una media condizione sociale, il secondo persino moglie e prole, ma nessuno dei due gode intimamente questi vantaggi perché ognuno è inadeguato alla propria vita, una inadeguatezza che spinge allo spaesamento, al dubbio, all’ansia e al disagio permanente. Nelle sorti dei protagonisti dei romanzi filtra anche un completo stato di rassegnazione ai propri destini di isolati, ma mentre in Soares tale riscontro avviene fin dalle prime pagine, in Zeno si deve aspettare l’ultimo capitolo nel quale Cosini si congeda dal dottore e dalla psicoanalisi autoproclamandosi sano. Tale e drastica sentenza, tuttavia non fa altro che avvalorare l’ipotesi opposta sancendo irreparabilmente quella frattura fra sé e il resto del mondo. A questo proposito lo stesso Pessoa scrive una frase significativa “Guarda da lontano la vita, senza mai interrogarla.” 8
Importante analogia tra i due romanzi, e la vita stessa degli scrittori, sono anche le relazioni tra i protagonisti e le rispettive città: da un lato la sonnolenta Lisbona sdraiata sul Tago schiacciata tra l’Oceano e la Spagna, dall’altra l’asburgica e nobile Trieste dagli odori mitteleuropei e dalle cariche irredentiste. La penna dei due autori mostra quanta considerazione abbiano della propria città e quanto desiderino che i loro personaggi, pur se di fantasia, si muovano in luoghi concreti e riconducibili. Ulteriore dimostrazione, questa, di come la rete tra vita reale dei creatori e vita immaginaria dei creati si intessi di una maglia sempre più stretta. L’aria della Baixa pombaliana e dell’ufficio al quarto piano di Rua dos Douradores non è troppo distante dal Tergesteo della Piazza della Borsa di Trieste o della Lanterna sul molo grande 9, soprattutto se per distante si intende la familiarità con la quale vengono raccontati determinati posti. Sia Svevo che Pessoa mai si allontanarono se non per motivi di studio o di lavoro, dai luoghi natii e addirittura lo scrittore portoghese pubblicherà anche un’interessante guida turistica su Lisbona, sintomo di un vero attaccamento alla propria città10.
La sommatoria di tutte queste affinità basta per affermare come sia Pessoa sia Svevo e tutte le loro storie, siano lo specchio tangibile di una società sfibrata, che si affaccia sul ventesimo secolo ferita nelle sue certezze più intime, con una borghesia orfana della sua coscienza originaria e scettica sul proprio antico ruolo. In questo stato di cose vivono i personaggi e la loro somiglianza con gli autori stessi, ben lontani dal superuomo dannunziano, dai modelli di vita straordinario e disinteressati alla ricerca della “lirica pura”. Su questi binari si muove il romanzo moderno europeo e anche i romanzi di Svevo e di Pessoa, su l’esperienza esistenziale giornaliera fatta di tante parole provocate da un quasi ossessivo monologo interiore, da una fatale malattia che si manifesta inizialmente sotto pelle ma che poi si conclama pagina dopo pagina. Per Bernardo Soares e Zeno Cosini, per Alberto Caeiro ed Emilio Brentani, per Ricardo Reis e Alfonso Nitti, ma pure per Fernando Pessoa e Italo Svevo può efficacemente valere la frase virgiliana di Enea alla regina Didone “Ab uno disce omnis” 11. Ecco così come, pur se nel fitto labirinto degli eteronomi, è facile rintracciare gli autori come viceversa è altrettanto facile risalire da questi ai loro personaggi.
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1 giuseppe pontiggia, Il giardino delle Esperidi, Milano, Mondadori, 2005, p. 85.
2mario fusco, Italo Svevo: coscienza e realtà, Palermo, Sellerio, 1984.
3 italo svevo, La coscienza di Zeno, Bologna, Cappelli, 1923.
4 fernando pessoa, Livro do Desassossego a cura di Maria Aliete Galhos e Teresa Sobral Cunha, Lisboa, Atica, 1982.
5 antonio tabucchi, Un baule pieno di gente, Milano, Feltrinelli, 2001.
6 giacinto spagnoletti, La Coscienza di Zeno di Italo Svevo, Milano, Rizzoli, 1978.
7 eugenio montalei, Un caso singola in Il caso Svevo,a cura di Enrico Ghidetti, Bari, Laterza, 1984, pp. 33 – 36.
8 antonio tabucchi, Il poeta è un fingitore, Milano, Feltrinelli, 1988, p. 44.
9 marani diego, A Trieste con Svevo, Milano, Bompiani, 2003.
10 fernando pessoa, Lisbona: quello che il turista deve vedere, Firenze, Passigli, 2003.
11 virigilio, Eneide, Torino, Edisco, 1990, p.234.