“Mi sento come un pezzo d’aglio capitato nella cucina di persone che non ne vogliono sapere”1 è così che Italo Svevo amaramente si sente giudicato dalla critica italiana sua contemporanea. Ettore Schmitz, in arte Italo Svevo, è forse uno degli autori meno letti, ma certamente più discussi che la nostra letteratura ricordi. Su questo scrittore di frontiera, nato nel 1861 in una Trieste ancora austriaca, ma irredentista, si è aperto un secolare dibattito che ha dato origine al noto “Caso Svevo”. Con suo sommo rammarico, Svevo, non è mai stato un letterato di professione, ma sempre uno scrittore per passione e volontà; prima bancario e poi, dopo il matrimonio con Livia Veneziani, piccolo imprenditore di vernici 2.
Lo scrittore triestino, costretto dal padre ad intraprendere studi amministrativi, non ha mai potuto seguire, se non con letture personali, la sua vera natura. Proprio le gravi lacune grammaticali ed un bilinguismo italo-germano tendente a forme dialettali, sono le principali accuse che la critica italiana del tempo rivolge ai suoi romanzi; una critica che, per altro, viveva ancora tra il dogmatismo crociano, l’esperienza rondista e l’osannato estetismo dannunziano.
I primi due romanzi dello scrittore triestino “Una Vita” (1892) e “Senilità” (1898), vengono letteralmente demoliti e poi ignorati dalla critica nostrana; a Svevo viene imputato, senza mezzi termini, di scrivere male e di aver poco da dire. Alla lungimiranza di Domenico Oliva 3 e di Silvio Benco 4 va il merito della prima valutazione positiva. Essi con le loro recensioni su dei quotidiani locali per primi intravedono proprio in quella sintassi deficitaria la vera essenza sveviana, ossia quella naturale espressività che scava nel profondo delle cose portandone a galla l’imo. Il mancato riconoscimento letterario ed una sconsolata rassegnazione spingono lo scrittore a dedicarsi totalmente ai propri affari ed a chiudersi in un silenzio lungo quasi trent’anni. In questi tre decenni, però, sia le sorti mondiali che personali di Ettore Schmitz subiscono una radicale trasformazione. L’assetto geografico-politico del primo Dopoguerra vede una Trieste ormai italiana ed in questa nuova realtà Italo Svevo ha l’abilità e la fortuna di imbattersi in due elementi che diventeranno poi fondamentali per il suo futuro: i testi freudiani e lo scrittore irlandese James Joyce.
Tra i due uomini nasce immediatamente una reciproca stima ed è proprio Joyce a consigliare all’amico di tornare alla scrittura, consiglio che si realizza con la pubblicazione nel 1923 del romanzo “La Coscienza di Zeno”. Una copia dello scritto, rivoluzionario sia per temi trattati sia per tecniche narrative, viene spedita dallo stesso Joyce oltralpe ai due autorevoli critici: Valery Larbaud e Benjamin Cremieux 5. L’entusiasta consenso dei francesi sancisce l’inizio del successo sveviano, essi riconoscono immediatamente il talento e la novità di una scrittore che sa penetrare nelle maglie più intime dell’animo umano e ne denuncia i malesseri.
Intanto, in Italia, la critica versa fiumi d’inchiostro per screditare il valore di Svevo. Emblematico è l’articolo di Giulio Caprin 6, sul Corriere della Sera del 1926, che definisce addirittura “La Coscienza di Zeno” una “pena”, un romanzo noioso steso in uno stile che non ha nulla di nuovo. Finalmente dal numeroso coro d’opinioni discreditanti si levano le convinte e favorevoli critiche di un ancora poco conosciuto Eugenio Montale 7,di un già affermato Giacomo Debenedetti 8 e di un giovane Elio Vittorini 9 che entrano nel dibattito al fianco di Svevo. Debenedetti, paragonando Alfieri a Svevo, sostiene che tanto il primo è il capostipite della tragedia italiana quanto il secondo lo è del nuovo romanzo italiano; Vittorini afferma che la critica non avrebbe avuto bisogno né di Croce né di Bergson se più autori “avessero scritto sul serio” come Svevo, mentre Montale attribuisce al triestino la sapiente capacità di fotografare in maniera realistica la decadenza e la crisi dei valori borghesi nella società dell’Ottocento.
Il 13 Settembre del 1928 in un grave incidente automobilistico si spegne all’età di sessantasette anni Italo Svevo,ma insieme a lui non si spegne certo il tanto disquisito “Caso”. Lo scontro e il divario tra la citata critica militante, che elegge Svevo come pietra miliare della nuova narrativa italiana, e la restante che lo disconosce totalmente, rimane acceso ed incolmabile fino alla fine della Seconda Guerra Mondiale. In questo periodo, quando in Italia l’esperienza rondista si è completamente esaurita e l’astro dannunziano, dopo la morte del poeta, conosce una momento di appannamento, trova maggior consenso critico un genere di letteratura fino a quel momento trascurata, più introspettiva, più psicologica, incarnata nei nomi di: Proust, Joyce e finalmente Svevo.
Nel 1949, il solito Montale, con il suo articolo “Il Vento è mutato” 10 testimonia questa nuova situazione certo di metter fine al “Caso Svevo”. A tutto ciò, però, Enrico Falqui 11 ribatte con un aspro articolo fortemente contrario all’opera sveviana non riconoscendole né stile, né originalità, né grande valore, e sarà pronto ad affermare il contrario solo quando un “diluvio” cancellerà tutta la letteratura salvo i tre romanzi del triestino. Falqui sarà tuttavia uno degli ultimi detrattori di Svevo.
Nei due decenni successivi, in quello che viene ricordato come il secondo tempo del “Caso Svevo”, eminenti critici come Marziano Guglielminetti, Gianfranco Contini, Bruno Maier e Geno Pampaloni consacrano l’opera sveviana come una dei più alti risultati della letteratura otto-novecentesca, e va ad essi il merito di averne saputo cogliere i punti nevralgici. Guglieminetti 12 afferma che l’opera sveviana è una scrupolosa ricerca analitica effettuata attraverso un monologo interiore; Maier 13 fa emergere le profonde affinità tra la personalità dell’autore ed il suo impegno, mentre Pampaloni 14 riconosce a Svevo una tagliente ironia e la capacità d’aver affrescato l’alienazione tra uomo-società-destino.
Tra gli anni ’70 ed ’80 placate le perplessità sulla statura artistica di Svevo, tre correnti critiche si dividono il campo d’indagine per meglio approfondirlo, quella Psicanalitica si preoccupa di rintracciare la vena freudiana de “La Coscienza di Zeno” e risponde a nomi come: Mario Fusco 15, Gabriella Contini 16, Mario Lavagetto 17 e Giacinto Spagnoletti18; quella Marxista con Giorgio Luti 19, Arcangelo Leone De Castris 20 e Sandro Maxia 21 pone l’attenzione sul rapporto tra lo scrittore e la società del suo tempo mentre quella Strutturalistica si interessa dell’aspetto puramente formale degli scritti, filone seguito particolarmente da Eduardo Saccone 22.
Anche se ormai da tempo il “Caso Svevo” si è concluso la critica non ha mai, però, perso interesse per lo scrittore, tanto che ancora oggi famose ed autorevoli voci rivolgono i loro studi a questo autore; ironico manifesto di tutte le parole spese fin qui è la stessa divertita meraviglia suscitata da tanto dibattito nello stesso Svevo che commentò a tal proposito: “La critica ha un aspetto tanto buffo che mi dispiace d’averla provocata”23.
Oggi, dopo più di un secolo, quel pezzo d’aglio è stato finalmente assimilato, in fondo l’aglio ha per peculiarità la difficile digestione, ma nel tempo i suoi effetti terapeutici non mancano, ed è in pratica la stessa sorte capitata all’opera sveviana.