La casa della memoria e dell’oblio | Filip David
Postfazione di Božidar Stanišic
Traduzione di Dunja Badnjević e Manuela Orazi
Bordeaux Edizioni
di Paolo Risi
Tento di scoprire perché ci sono state tante disgrazie nei destini umani, come si passa da una vita tranquilla e regolata a una realtà irrequieta e ostile, in cui la vita perde ogni valore. Da dove arriva, dove si nasconde questo male che mette tutto sottosopra per poi ritirarsi lasciandosi dietro solo distruzione, negli uomini e intorno ad essi?
Bum-ciuff-bum-bum-ciuff-bum. Albert sente il rumore del treno, è un fragore dentro la sua testa che non gli dà pace. Il fardello da sopportare è il sibilo del ricordo, doloroso ma forse irrinunciabile, perché il passato dell’uomo è imprigionato in un vagone stipato di deportati.
Immaginiamo Albert bambino davanti all’atroce richiamo ad un “lavoro che rende liberi”, in fila verso una morte senza ragione, ma in quel vagone di reclusi accade qualcosa di imprevedibile, che richiama alla memoria le illusioni del celebre mago Harry Houdini.
Il padre di Albert, anche lui sul treno insieme alla moglie e al figlio minore Eliah, estrae un coltello dallo stivale e inizia a raschiare una parete del convoglio. Finalmente si apre una breccia e il piccolo Eliah, quando il treno rallenta, viene fatto scendere attraverso la stretta apertura. Anche per Albert si aprirà la via di fuga, ma più difficoltosamente vista la sua maggiore stazza, e una volta a terra scoprirà con orrore che il fratellino è scomparso, svanito nel nulla in una terra senza nome: “Albert aveva invano cercato il fratello dappertutto. Era notte, il freddo gelava le ossa mentre lui vagava, vagava fino allo sfinimento, ma di Eliah non c’era traccia”.
Albert si nasconde, riesce a sopravvivere superando traumi indicibili, fra i quali il più grande è legato alla sparizione di Eliah, al rimorso per non averlo saputo accudire. Nel corso degli anni lo attraverseranno sensi di colpa, vergogna e solitudine, materiale incandescente che si materializza nello sferragliare implacabile (in gergo medico tinnitus) che sovrasta le sue percezioni uditive. Scrive un diario Albert, che solo in apparenza è dominato dal problema dell’identità, perché l’essenza da sviscerare è riferibile al male, per il quale bisognerebbe inventare una lingua nuova, “perché con il nostro modo di parlare e di ragionare la sua profondità non è esprimibile”.
Il motivo innescato dalla ricerca instancabile, dalla volatilità delle possibili interpretazioni, indirizza il romanzo “La casa della memoria e dell’oblio” verso la coralità, verso l’intreccio di traiettorie esistenziali. Albert Weiss (colui che fu il ragazzo del treno), Miša Wolf, Uriel Koen e Salomon Levi sono testimoni dell’Olocausto, le loro cicatrici sono visibili almeno quanto le cifre tatuate sulla pelle degli internati. Risultano essere testimoni da una prospettiva spazio-temporale differente, definibile come luogo degli scampati, di coloro i quali non hanno varcato i cancelli della reclusione perché occultati, protetti dai propri cari, costretti ad abitare una nuova identità. I quattro si incontrano la prima volta durante un congresso negli Stati Uniti (The First International Gathering of Hidden Children During World War II) e da quell’occasione le loro storie iniziano a comporre un affresco dove le tinte individuali si mescolano a modulare una possibile interpretazione della Shoah, delle ragioni del male. Prova Salomon Levi a schematizzare i tratti della malvagità, raccogliendo documenti, fotografie e ritagli di giornale, ma il suo tentativo è infruttuoso, disperante. In alcuni frangenti della storia l’artiglio del male fa percepire la sua presenza, il suo tocco gelido, ma nonostante ciò la sua fisionomia resta misteriosa e indefinibile. Risultano inutili i simposi, le riflessioni accademiche, rimane come unico appiglio l’adesione alla trascendenza e agli impianti mistici, orientamento che apre ad una possibile quanto straniante decodificazione della realtà.
Nel percorso del romanzo (scandito da capitoli che in parte risultano autonomi nella globalità dell’opera) il tema della memoria, che è afflizione e allo stesso tempo bagaglio irrinunciabile, si abbevera alle fonti del soprannaturale e delle credenze cabalistiche. Non solo proiezione di esperienze personali quindi, ma memoria veicolata dall’adesione a principi immateriali, a tradizioni millenarie, costruzione del pensiero che prova a comporre un quadro infinitamente ipotetico. Sono punti mobili quelli su cui erigere un’intelaiatura di senso, e da queste coordinate intermittenti la scrittura di Filip David prende il volo, entra nei territori del mistero e dell’ideazione fantastica. Significativo in proposito il racconto della vita del musicista Miša Wolf, che ormai in età avanzata entra in possesso di una partitura musicale composta da suo padre in un campo di concentramento. Per tramite dei simboli musicali, dei suoni generati rispettando un codice cabalistico, si realizzerà fra loro uno scambio emotivo subliminale, in grado di alimentare un’effettiva vicinanza.
I riferimenti contenuti nel romanzo edito da Bordeaux, vincitore nel 2014 del premio NIN, il più importante della letteratura serba, attingono ad una sorgente profondissima. L’inquietudine prodotta dalle pagine è manifestazione di questa estensione insondabile, oltreché dell’impossibilità di sottrarsi alla propagazione del male, la cui origine è altrettanto remota. Forse scrivere ai giorni nostri dell’Olocausto innesca soltanto una dissolvenza programmata delle parole, un fragore che progressivamente si distende sull’umana comprensione degli eventi. Ma ciò non toglie che la solidità dell’opera dello scrittore serbo è tangibile, lo stile di scrittura è controllato, intimamente elegante. Parallelamente alla vividezza dei fatti, la sensibilità dell’autore delinea un sottotesto narrativo che raggiunge il minutissimo involucro del mito, nucleo che se aperto, allargato per meglio osservarne l’architettura, rivela destini erranti fra dimensioni atemporali, dove tutto può risultare dubbio, anche la vita stessa…