LA FRONTIERA.
UN REPORTAGE TRA LETTERATURA E STORIA
di Vito Santoro
«Le frontiere cambiano, non rimangono mai fisse. Si allarga l’Europa e mutano i punti di ingresso. Scoppiano guerre, cadono dittature, esplodono intere aree del mondo e si aprono nuovi varchi. I varchi a loro volta creano un mondo, una particolare società di confine che definisce le sue regole e i ruoli al suo interno. Sono a tutti gli effetti dei porti franchi. Ma poi anche questi mutano nel tempo, e vengono sostituiti da altri porti franchi».
Al Mediterraneo come crocevia e ingorgo di flussi migratori, Alessandro Leogrande ha dedicato importanti libri inchiesta come Uomini e caporali (2008), un viaggio tra i nuovi schiavi nel tavoliere delle Puglie, Il naufragio (2011), incentrato sui profughi albanesi uccisi il 28 marzo 1997, in seguito allo speronamento della nave Kater i rades da parte di una corvetta della Marina italiana, fino all’ultimo lavoro pubblicato in vita, prima di quella morte precoce e improvvisa, che lasciò tutti sgomenti, avvenuta il 26 novembre 2017: La frontiera. Si tratta di un reportage in forma di romanzo o, se si preferisce, di un non fiction novel, che ancora oggi, a distanza di un lustro dalla pubblicazione, pone una serie di questioni ancora insolute sul tema della migrazione, destinate inevitabilmente a riesplodere al termine della pandemia.
Non è infatti un caso che Leogrande faccia assurgere Il martirio di San Matteo del Caravaggio a vera e propria sintesi verbovisiva del libro. In questo celeberrimo olio su tela, che si trova nella Cappella Contarelli della Chiesa di San Luigi dei Francesi, come è noto, l’artista trasforma un tema desunto da una leggenda etiopica (quella del re Irtaco, che svergognato dall’apostolo per le sue mire illecite sulla figlia di Egesippo, lo fa colpire dai suoi fedeli mentre sta battezzando i neofiti) in un fatto di cronaca nera ambientato in una chiesa romana del suo tempo. Si vede raffigurato Matteo, già trafitto e rovesciato sotto i gradini dell’altare, mentre il suo carnefice, nudo al centro del dipinto – la corporatura magnifica e atletica in torsione, a richiamare le celebri sculture classiche del Discobolo di Mirone e del Torso del Belvedere – è pronto a sferrargli il colpo mortale. Intorno alla vittima e al carnefice, i personaggi si ritraggono inorriditi. Tra questi, sospeso in alto, al di sopra del santo, l’angelo, chino verso di lui, gli porge la palma del martirio; a destra un chierichetto fugge terrorizzato e si vedono in basso due giovani neofiti seminudi, mentre a sinistra, nell’atto di allontanarsi rattristato, sgomento e impotente dalla violenza che si sta compiendo, Caravaggio ritrae anche sé stesso con baffi e moschetta.
In un attimo sospeso nel tempo vengono fissati da un lato una azione brutale e abbietta, dall’altro uno sguardo, che non riuscirà a tradursi in una azione in grado di arrestarlo, ma soltanto in un senso di pietà e di tristezza. «Dipingendo il proprio sguardo – scrive Leogrande – Caravaggio definisce l’unico modo di poter guardare all’orrore del mondo. Stabilisce geometricamente la giusta distanza a cui collocarsi per fissare la bestia. Dentro la tela, manifestamente accanto alle cose, non fuori con il pennello in mano. Eppure sa anche che tale sguardo è inefficace, non cambierà il corso delle cose». Ebbene, lo sguardo di Caravaggio è, a detta dell’autore, il nostro sguardo, lo sguardo dell’intero mondo occidentale nei confronti dei viaggi dei migranti, dei naufragi e soprattutto della «violenza politica o economica che li genera». Uno sguardo carico di una commiserazione dolorosa perché impotente, specie se «la lucida interpretazione dei fatti, e ancor di più il genio dell’arte, non arresteranno il massacro». E questo, nota l’autore, «nella migliore delle ipotesi, ovviamente, quando cioè lo sguardo non è inquinato dall’apatia, dall’indifferenza, dallo stesso fastidio per l’oscenità della morte».
Dinanzi a una situazione planetaria segnata dal disordine, da una grande conflittualità e mobilità, che solo con una certa fatica il sistema economico, politico e militare dominante riesce a tenere in qualche modo sotto controllo; dinanzi alle gigantesche migrazioni di popoli incalzati dalla miseria, dalla desertificazione di vaste zone del pianeta e dalle guerre di religione, è necessario ‘essere nel quadro’, «provare a dipanare i fili di eventi che a prima vista paiono incomprensibili nel loro ginepraio di violenza, lutti, oppressione, che pure determina la vita di tanti». Si tratta dell’unico mezzo per andare oltre la narrazione cronachistica, il cui sensazionalismo impedisce di cogliere la sostanza dei fatti e genera quella “visione senza sguardo”, per citare il Paul Virilio di Guerra e cinema. Logistica della percezione (1984), che conduce a ciò che Daniele Giglioli ha definito uno “stato di minorità”, cioè una condizione di impotenza, di impossibilità di agire, frutto anche della precisa strategia di un assetto di potere che si rafforza e si perpetua diffondendo tali sensazioni.
Leogrande raccoglie dunque la sollecitazione caravaggesca a ‘essere nel ‘quadro’, ma con understatement. Rifugge dalla tentazione dell’autoritratto, assume su di sé il ruolo di garante della veridicità delle testimonianze raccolte attraverso l’incontro diretto con i migranti, si mette dalla loro parte, ne fa emergere le individualità, i volti e i vissuti: «bisogna farsi viaggiatori per decifrare i motivi che hanno spinto tanti a partire e tanti altri ad andare incontro alla morte. Sedersi per terra intorno a un fuoco e ascoltare le storie di chi ha voglia di raccontarle, come hanno fatto altri viaggiatori fin dalla notte dei tempi». Nell’immaginario creato dai media i barconi dei migranti costituiscono un insieme indifferenziato di uomini, donne e bambini, che invadono i nostri porti e affollano i centri di accoglienza. Un insieme spesso ridotto a cruda statistica: la conta degli arrivi sulle nostre coste non è altro che un elenco di cifre, che se ci possono dare un’idea riguardo all’esodo di questi anni, di certo non ci dicono nulla riguardo alle storie di queste persone, che vengono in qualche modo de-umanizzate. Invece, osserva Leogrande, «ogni naufragio è un avvenimento a sé stante» e «pretende di essere sottratto all’oblio», in maniera tale da potere essere afferrato «nella sua unicità». È questo in sostanza il compito del narratore: comunicare conoscenze su eventi, cose e persone, fare cioè in modo che l’esperienza del singolo compartecipi con l’ampiezza della comunità. È il solo rimedio a quella che Papa Francesco ha definito in un discorso pronunciato a Lampedusa l’8 luglio del 2013, «la globalizzazione dell’indifferenza». «Per Bergoglio – nota Leogrande – l’uomo riverso sul ciglio della strada non è una metafora. È proprio lì, davanti ai nostri occhi. La violenza che ha patito non è frutto del caso o della natura, è davanti ai nostri occhi».
La frontiera è un libro di storie. Leggiamo quella del ventenne somalo Hamid, sopravvissuto a uno dei più spaventosi naufragi avvenuti nel Mediterraneo, o quella dell’esule politico ed ex militante del Fronte di liberazione popolare eritreo, Gabriel Tzeggai (uno dei pochi che abbia concesso di far apparire il suo vero nome: molti dei testimoni intervistati hanno scelto di non rivelare il proprio nome perché temono «la presenza in tutta Europa di agenti dei servizi eritrei»). Leggiamo della dottoressa Alganesh Fessaha, eritrea-italiana (vive a Milano), capace di liberare con azioni di guerriglia centinaia di suoi connazionali finiti nel traffico di esseri umani tra l’Africa e il Sinai; di Sinti e Dag, due etiopi rifugiati che vivono a Roma, i quali redigono le “ventotto regole del viaggio”, dei trafficanti e dei baby-scafisti, figure «a metà strada tra i traghettati e i traghettatori, tra chi scappa e chi materialmente conduce barche e barconi, spesso per conto di grossi trafficanti». E poi c’è Don Mussie, prete cattolico che ha lasciato l’Eritrea una ventina di anni fa. Il sacerdote è un punto di riferimento per i tantissimi etiopi, somali, eritrei che partono dal Corno d’Africa e che cercano di raggiungere l’Italia dalla Libia sui barconi. La sua sembra una fiction, invece è una storia vera: considerato un nemico dai neofascisti italiani, dagli agenti del regime eritreo e da Casa Pound che lo considera un «trafficante protetto dal Vaticano», il prete è stato costretto a lasciare Roma e a rifugiarsi in Svizzera. «Il suo numero di telefono è scritto sui muri delle prigioni libiche, nei capannoni dei trafficanti, sulle pareti dei cassoni dei camion che attraversano in lungo e in largo il deserto. C’è il suo numero, e accanto a esso – nelle lingue più svariate – il suggerimento di chiamarlo in caso di problemi». E poi c’è la storia di Shorsh, il quale non si chiama nella realtà Shorsh, profugo curdo sfuggito nel 1997 alla repressione di Saddam, al centro del racconto-cornice, ripartito in cinque capitoletti, significativamente intitolati Vedere, non vedere, che fungono da vero e proprio fil rouge del libro. Shorsh ha attraversato la frontiera non solo in senso geografico, ma anche in senso intellettuale, si è confrontato con l’immaginario occidentale e ha ridefinito il proprio vissuto, fino a cambiare nome e identità. Però Shorsh ha mentito: non è mai stato torturato, come invece aveva dichiarato alle autorità. Fare bella mostra di cicatrici sul corpo è stato per lui l’unico modo per ottenere lo status di rifugiato politico. In Occidente cercare una vita più degna e sfuggire alla guerra o a regimi dittatoriali non è in sé una ragione sufficiente: è necessario ergersi a vittima, una nozione – osserva Leogrande sulla scia di Critica della vittima di Giglioli – che «non spiega niente della complessa vita degli esseri umani»: «chi accetta viaggi pericolosissimi in condizioni inumane, attraversando i confini che si frappongono lungo il suo sentiero, non lo fa perché votato al rischio o alla morte, ma perché scappa da condizioni ancora peggiori. O perché sulla sua pelle è stato edificato un mondo che gli appare inalterabile».
Ovviamente la figura del migrante è inscindibile da quella della frontiera, assurta ormai a formidabile chiave interpretativa della contemporaneità. Leogrande paragona felicemente la frontiera a una membrana dai limiti indefiniti, attraversabile in qualsiasi punto e da qualsivoglia direzione. È «una linea fatta di infiniti punti, infiniti nodi, infiniti attraversamenti. Ogni punto una storia, ogni nodo un pugno di esistenze. Ogni attraversamento una crepa che si apre. […] Non è un luogo preciso, piuttosto la moltiplicazione di una serie di luoghi in perenne mutamento, che coincidono con la possibilità di finire da una parte o rimanere nell’altra»: «i flussi cambiano sotto i nostri occhi molto rapidamente. Cambiano i posti di frontiera, cambiano le rotte. Cambiano le cause che li determinano». La frontiera è un luogo fluido, che produce cambiamenti anche in chi la attraversa, come già colto qualche anno fa da Franco Cassano nel suo seminale Il pensiero mediano: «le frontiere sono i luoghi in cui i paesi e gli uomini che li abitano stanno di fronte. Questo essere di fronte può significare molte cose: in primo luogo guardare l’altro, acquisire conoscenza, confrontarsi, capire che cosa ci si può attendere da lui. Ma l’esistenza dell’altro può essere anche insidia. Come nella dialettica delle “autocoscienze opposte” di Hegel, in questo star di fronte e in palio il riconoscimento». Non a caso, Leogrande elegge a nume tutelare l’Alexander Langer del Tentativo di decalogo per la convivenza interetnica, di cui riporta un passo da lui più volte letto e meditato. Quello in cui l’intellettuale e politico altoatesino rileva come nelle nostre società, multietniche per natura, deve essere possibile una realtà aperta a più comunità, non esclusiva, nella quale si riconosceranno soprattutto i figli di immigrati, i figli di famiglie miste, le persone di formazione più pluralista e cosmopolita: «è molto importante che qualcuno si dedichi all’esplorazione e al superamento dei confini, attività che magari in situazioni di conflitto somiglierà al contrabbando, ma è decisiva per ammorbidire le rigidità, relativizzare le frontiere, favorire l’integrazione». È indubbio che quello di Langer – «un invito a tradire non questa o quella persona, ma semplicemente l’idea stessa che i gruppi etnici e linguistici debbano rimanere compatti», lo definisce Leogrande – sia un auspicio di sempre più difficile attuazione a causa del radicale irrigidimento delle frontiere europee.
La vicenda dei migranti ci impone anche di fare i conti con un passato ormai rimosso. L’attuale dissesto dell’Eritrea, «l’unico paese al mondo in cui è stato istituito il servizio militare obbligatorio a tempo indeterminato» (qui «chiunque, dai diciassette ai cinquant’anni, viene richiamato alle armi ed è sottratto a ogni altra attività per un tempo impossibile da stabilire. È questa una delle principali cause che spinge intere generazioni a partire»), della Somalia e della Libia ha le sue radici nel colonialismo italiano: «la dimenticanza dell’Africa orientale italiana, del colonialismo e dei crimini del fascismo, […] è alla base del mito posticcio degli ‘italiani brava gente’. Come se solo gli italiani, a differenza degli altri popoli occidentali, non si fossero mai macchiati di efferatezze, stragi, torture… Il paradosso è che la rimozione del passato coloniale riguarda esattamente quelle aree che a un certo punto hanno cominciato a rovesciare i propri figli verso l’Occidente». Il fatto che le nostre ex colonie rappresentino «uno dei principali ventri aperti dell’Africa contemporanea», dimostra senza dubbio che «alla base delle tragedie del Corno d’Africa c’è il vuoto istituzionale creato in Somalia o in Eritrea. La decolonizzazione distorta, le nuove dittature, l’integralismo, l’emigrazione di massa nascono da qui». Peraltro, per uno dei paradossi della storia, rileva Leogrande, «alcuni dei campi di concentramento eretti negli ultimi anni da Isaias Afewerki per reprimere gli oppositori sorgono negli stessi luoghi dove erano disposti i vecchi campi di concentramento del colonialismo italiano».
Questa mitologia del bravo italiano, tuttora persistente, spiega perché gli abitanti di una borgata come Tor Pignattara, l’angolo più multietnico di Roma, sostengano con convinzione di avere sempre vissuto in un’«isola felice», irrimediabilmente degradata dall’arrivo dei bangla: «la verità è che l’isola felice non è mai esistita, e che la borgata è sempre stata un luogo privo di verde, di spazi per i bambini, con i suoi traffici e con molto disoccupazione. Ora si accusano gli altri di aver portato il degrado, e lo si fa senza sapere articolare bene neanche quello che si vuole dire». E anche Roma a volte «dà l’impressione di essere tutt’altro che una città tollerante». Piuttosto è «una città che tollera la tolleranza. tollera l’idea stessa di essere una città tollerante. Ma spesso il diaframma tra la realtà e questa tolleranza di secondo livello salta. E la città si mostra in tutti i suoi frantumi, priva della patina che la ricopre».
Vito Santoro è critico e studioso di letteratura italiana contemporanea.Ha scritto numerosi saggi sui gruppi e le riviste letterarie degli anni Trenta; sui rapporti tra cinema e letteratura; sui caratteri e le figure della narrativa italiana contemporanea (da Calvino a Bassani, da Parise a Sciascia, da Moravia a Siti, fino al noir italiano e al graphic novel). Collabora con “L’Indice dei libri del mese”, “L’immaginazione” e “La Gazzetta del mezzogiorno”. Ha fondato e dirige la rivista «Lettera Zero». Sviluppa iniziative culturali e progetti didattici insieme ad associazioni e centri di diffusione della cultura letteraria e cinematografica.