La letteratura ci salverà dall’estinzione
di Carla Benedetti,
Einaudi 2021
di Paolo Risi
L’emergenza climatica viene vissuta, realmente, come un’emergenza? Quanti di noi valutano lo sgretolamento degli equilibri ambientali come discrimine per la sopravvivenza del genere umano?
Esiste evidentemente una sfaldatura che impedisce ai più di provare empatia per le generazioni future, che saranno chiamate a sostenere l’impatto di scelte fatte in nome del progresso, di una visione antropocentrica del creato.
A fronte di questa mancante (o lacunosa) presa di coscienza, in parte analizzata e protocollata dalle neuroscienze, si prospettano spazi di azione per discipline che custodiscono nel loro bagaglio ontologico il germe ideativo, l’immagine e le parole innovatrici.
Fare riferimento a specifiche discipline può risultare fuorviante, parcellizzare il senso per renderlo più accomodabile: semplificare per ascrivere a una categoria di metodo, strumento e fine in parallelo, e non appare questa l’intenzione di Carla Benedetti quando apre a una prospettiva in cui si implementano non solo conoscenze ma anche sogni, emozioni, sentimenti; non solo pensiero ma anche cellule germinali di ulteriore pensiero...
Quindi una consapevolezza che può essere attivata dalla letteratura, da un sentire originale capace di perforare secoli e civiltà e a cui è ancora possibile abbeverarsi, per trarne visioni e spunti operativi.
Dalla condizione di “profeta inascoltato”, così emblematica quando pensiamo alle cortine fumogene che avvolgono la scienza climatologica, viene auspicato il passaggio alla condizione di “acrobata del tempo”, agente e prassi che veicola il messaggio emergenziale, ne amplifica la componente emotiva, la traduzione in termini di consequenzialità generazionale.
Il pensiero di Benedetti rileva connessioni, si dilata nel tentativo di decodificare, di dare una chiave di lettura sull’emergenza climatica. Non più immanente ma imminente il declino causato dalla modernità, e al capezzale del pianeta occorre trovare la forma dialettica adeguata, il contenuto in grado di suscitare energie emotive e stemperare le inquietudini. Viene chiamato a dare il proprio contributo il Noè di un racconto che Günther Anders scrisse nel 1961, intitolato Il futuro rimpianto, in cui il personaggio biblico si trova nella condizione di dover aprire gli occhi ai suoi contemporanei in vista del grande diluvio.
Al di là del dato emergenziale, nudo e crudo, esiste un campo argomentativo fertile, e nel preannunciare la problematica imminente Noè si rivelerà un acrobata del tempo, abile nel far uscire i suoi interlocutori da una gabbia concettuale per immergerli in una dimensione immaginifica, in cui la fine del mondo è cosa fatta e in cui tutto ciò che esiste oggi sarà come se non fosse mai esistito.
Tutto sta nel suscitare un senso di emergenza e intollerabilità, non di ineluttabilità.
Nelle letture catastrofistiche della questione climatica c’è il verbo dell’apocalisse, un’apocalisse senza salvezza, che paralizza e induce al disfattismo. Un ripiegamento della parola, prima di tutto, che nega a se stessa il compito della reciprocità, di una riflessione che si articola e dà vita a relazioni. Nel caos delle traiettorie politiche, dei distinguo accademici, questa deposizione delle armi lessicali diviene quasi fisiologica, visceralmente intollerabile, in particolare se ci si concentra – come fa Carla Benedetti – sull’autorevolezza della parola, dell’epica, del racconto come cardine metastorico.
Puoi cambiare il corso delle cose» è il messaggio implicito che invece lancia la parola suscitatrice. È questa la potenza della parola, ciò che essa può fare in questo tempo tragico: non solo analizzare, far conoscere, rappresentare ciò che c’è, ma suscitare un mutamento, immaginare qualcosa di diverso dall’esistente, di inaudito, di impensato. Scuotere dal sopore provocato da strutture mentali fossilizzate, attingendo a una potenza sopita, sentimentale e di pensiero.
Se prospera una compagine di umanisti attardati intorno ai propri ombelichi, è altrettanto vero che la letteratura produce e ha prodotto elaborazioni che rendono parziali, uno stilema o poco più, gli assiomi della modernità. È una questione lineare: l’Antropocene obbliga ad ampliare lo sguardo oltre alle filiere della Storia, per arrivare a confrontarsi con un Tempo Profondo, in cui la distinzione tra Storia Naturale (la storia del pianeta sullo sfondo di quella dell’universo) e lo sviluppo culturale e sociale dell’uomo non ha più ragion d’essere.
La letteratura – quella che oltrepassa le teorizzazioni vigenti – è parte di una corrente che prova a ricalibrare la nostra identità di terrestri. Benedetti fa riferimento – tra le altre – ad alcune opere dello scrittore Antonio Moresco, e lascia intendere che la metamorfosi, l’abbandono delle strutture di pensiero dominanti, passa attraverso il riconoscimento di voci pure, in grado di armonizzarsi con l’ignoto e l’inafferrabile.
L’impresa richiede un approccio iconoclasta: echi di purezza giungono dagli adolescenti (sentinelle dell’emergenza), dalle popolazioni testimoni del Tempo Profondo, che l’Occidente ha chiamato “primitive”, da coloro i quali traducono l’espressione profetica in arte.
L’essere terrestri è la nostra identità primaria e più evidente, ma è anche la più rimossa. Tutti la dimenticano. La politica la rimuove quando fa leva su identità piccole e parziali, nazionali, religiose, culturali, etniche, razziali… La cieca logica economica che guida l’attuale sistema produttivo addirittura la cancella dai suoi calcoli ragionando di sviluppo senza tener conto dei limiti della Terra. Riconoscerci come terrestri è quindi un modo per contrastare questa deriva folle.