La ragione ecologica
Saggi intorno all’etica dello spazio
Stefano Righetti
Prefazione di Piero Bevilacqua
Postfazione di Manlio Iofrida
Stem Mucchi Editore 2017
incontro con l’autore Stefano Righetti e lettura integrale della Prefazione
Questo libro non intende fare propria nessuna delle consolazioni con cui veniamo oggi rassicurati (in mancanza della ‘verità’) sullo sviluppo sostenibile della nostra condizione ambientale.
Non si parlerà qui né di pale eoliche, né di energia solare, né di idrogeno o di mobilità elettrica, come risposte in grado di condurci alla soluzione dei problemi che sono derivati dal nostro rapporto negativo con l’ambiente. Sappiamo che queste non possono essere vere soluzioni se non comprenderanno, al tempo stesso, la decisione di modificare anche il modo di essere, inaugurato dall’Occidente, che è teoretico e culturale, prima ancora che politico e tecnologico.
Il tema ecologico affrontato attraverso soluzioni politiche appare ritornare sempre allo stato di partenza, forse manca una volontà coesa forse mancano i tempi, secondo la prospettiva proposta da questo saggio, che strumenti operativi ci offre una riflessione critica fatta con un approccio alla filosofia del comportamento ecologico?
Mettiamola così: la politica affronta il tema ecologico a seconda delle convenienze e seguendo l’onda dell’emotività delle persone, da cui si aspetta il voto. Ma nel gioco della politica le persone che esprimono la loro preferenza con il voto sono solo uno degli attori in campo. Poiché la politica è l’amministrazione del già dato e dell’esistente, ci sono altri attori possiedono molta più forza della nostra possibilità di esprimerci con il voto, perché è da questi attori che dipende in realtà il mantenimento dei reali assetti di potere: sono le industrie, l’apparato di produzione, la finanza che sostiene quello stesso apparato e che si sostiene a sua volta con il gioco speculativo su di esso. Per cui tutte le parti politiche guardano in fin dei conti molto più alle forze esistenti che non al voto degli elettori, e così il tema ecologico viene enunciato ogni volta che si tratta di attirare i voti dei cittadini, per poi dimenticarlo appena si entra nel vivo dei giochi di potere, e cioè della politica reale. La filosofia ci permette la libertà di guardare alle cose per come sono e di liberarci dal principio della convenienza politica. Provare a sviluppare un’analisi dei problemi senza dare per scontate le ideologie dominanti con cui i problemi ecologici sono ogni volta elusi non appena enunciati.
In che modo dal punto di vista filosofico il tema dell’ecologia può indicare le linee di ripensamento dello sviluppo?
Il punto di vista filosofico può aiutarci a mettere in discussione il mondo che diamo ormai per scontato, e lo diamo per scontato con un’arrendevolezza davvero inquietante. Con la stessa arrendevolezza con cui, invece di indignarci e di rifiutarci di accettare lavori precari, mal pagati, orribili, li accettiamo perché crediamo di non avere altra possibilità, perché abbiamo ormai ridotto a questa accettazione la nostra vita, la vita di tutti. E lo stesso vale per l’ecologia. Anzi, le cose sono direttamente intrecciate. Dobbiamo ripensare l’idea stessa di sviluppo, l’ideologia lavorista e l’ideologia della produzione. Nel mondo di oggi sono delle vere e proprie falsità. C’è davvero qualcuno al mondo che crede di poter dare un reddito da lavoro, cioè all’interno di un apparato produttivo, a sette miliardi e mezzo di persone? Per produrre che cosa? Questo modello di sviluppo poteva essere forse propagandato negli anni 50, con tutti i danni ambientali su scala locale che sappiamo; oggi ci sta portando alla catastrofe generale, e per di più è irrealistico. Ma la cultura occidentale, e quindi il suo modello economico e finanziario, si è identificata con la produzione. E il modello si è imposto al resto del mondo come l’unico modello di sviluppo possibile. È questo il vero problema che sta alla base della crisi ecologica, e il motivo per cui è difficile uscirne. Lo sentiamo e leggiamo tutti giorni, sono le tante sciocchezze che ci vengono raccontate sullo sviluppo, la ripresa, l’occupazione, ecc. E i temi ecologici subiscono a quel punto una banalizzazione riduttiva. Ma piantare qualche albero intorno alla fabbrica non ci aiuterà di certo a risolvere il problema. La filosofia ci dà gli strumenti per leggere criticamente tutto questo. Anche a costo di farlo contro la filosofia stessa, o contro una sua parte preponderante, perché ci aiuta a evidenziare i motivi culturali che ci hanno portato alla situazione in cui siamo. L’ecologia dev’essere una prospettiva di lotta culturale, e solo in quanto tale può essere allora anche una lotta politica. Non può certo ridursi a una lotta partitica e, men che meno, al gioco delle alleanze parlamentari. La questione ecologica non è più un’opinione tra le altre, per il semplice fatto che è ormai una questione di vita o morte. Non so se si è ancora ben capito questo. Di certo, la politica che tutela questo modello industriale non ha alcun interesse a farcelo capire. La filosofia può darci invece gli strumenti per reclamare un’altra politica. E, ovviamente, facendo questo la filosofia reclama, al contempo, anche un’altra filosofia. Anche la filosofia ha le sue responsabilità, infatti, come ho cercato di evidenziare nei miei studi in questi anni, ma la filosofia ha sempre anche gli strumenti per mettere in discussione le ideologie dominanti e per pensare criticamente le relazioni di potere in cui siamo coinvolti. La prospettiva ecologica è una lotta, ed è una lotta totale, che deve riguardare tutti gli aspetti che governano la nostra esistenza.
I cambiamenti più radicali possono avvenire a nostro avviso con una inversione culturale e in questo un pensiero critico pone le basi per una riflessione costante su come vogliamo vivere, è prima di tutto però una scelta del singolo che può poi crescere a livelli sistemici. Il singolo come può essere coinvolto in un ragionamento ecologico? e come?
Su questo ho alcune perplessità; le ho espresse anche recentemente. Non credo che il singolo in quanto singolo sia mai una soluzione. Anzi, credo che tutta questa insistenza sul singolo, sull’individuo, che da ogni parte sentiamo ripeterci, sia in realtà più parte del problema, che non la strada per uscirne. L’ideologia liberista è un’ideologia della singolarità: è l’esaltazione del singolo che combatte contro il mondo per affermare la propria individualità; ed è del tutto logico, all’interno di un’ideologia dell’individualismo, che anche i problemi ecologici vengano riportati alla responsabilità individuale. Ma è un modo, io credo, per eluderli ancora una volta, più che per affrontarli. Glielo dice uno che fa tutto quello che può per limitare il proprio impatto. E credo che sia giusto farlo e doveroso anche. Per cui va benissimo fare la raccolta differenziata, avere una macchina che non funzioni a gasolio, ma che sia piuttosto a gas (come ho io) o elettrica, se si hanno i soldi per comprarla, e scegliere il più possibile il trasporto pubblico, ecc. Ma davvero crediamo che questo risolva di colpo tutti i problemi? Io non lo credo. Questo vuol dire ancora una volta declinare un problema generale in termini di interesse o di possibilità individuali. E in più, scaricando tutto il problema su atteggiamenti che dovrebbero appartenere solo a una normale e banale responsabilità e educazione. Capisco che in Italia la parola educazione sia ormai scomparsa dai vocabolari, per cui ogni gesto di responsabilità finisce avere i titoli delle prime pagine. Ma la vera soluzione ai problemi ecologici può venire solo da scelte di politica economica su larga scala. È in questo senso che la lotta culturale ecologica diventa anche una lotta politica. La questione ecologica implica il radicale ripensamento dei modelli di vita, di sviluppo e di lavoro su scala generale. E non coincide certo con la preoccupazione di raggiungere il famigerato due per cento di inflazione. Semmai, va proprio nella direzione opposta. Per cui, visto che il governo dell’attuale economia sa di non poter dare nessuna risposta significativa al problema ecologico ne scarica la frustrazione sul singolo con le campagne sull’uso responsabile delle risorse, e tutto si ferma sostanzialmente lì, lasciando che la macchina produttiva continui a distruggere l’ambiente in cui viviamo. Per il resto abbiamo solo annunci di promesse. So che non è molto confortante, ma la situazione mi sembra questa.
Molti hanno pensato che la prospettiva proposta da Latouche con la decrescita felice potesse partire proprio da una attitudine ragionativa, andrei anche più indietro alle proposte riflessioni della bioeconomia di Nicholas Georgescu-Roegen, il limite ad oggi di queste proposte sta tuttavia (e lo dico da sostenitrice del pensiero) nel non essersi tradotte in indicazioni pragamtiche – soprattuto in ambito industriale – che possano garantire una inversione di massa, restando relegate nella diffusa percezione di una nicchia alternativa, cosa ne pensa?
Sono d’accordo, ma non credo che il problema sia nelle teorie della decrescita. Il fatto che la decrescita non si sia affermata come modello di sviluppo su cui orientare le scelte industriali e produttive mi sembra lo specchio di quello che dicevo prima, ma forse è anche la prova della sua radicalità propositiva rispetto al modello economico dominante. Mi sento abbastanza vicino alle teorie della decrescita e considero importante il lavoro di Serge Latouche. Ma per tradurre nella realtà una teoria occorre un processo politico, occorre una forza realmente in grado di incidere nelle scelte di sviluppo. E, anzi, occorre ancor di più che il tema sia sentito non come un tema tra gli altri, ma come la condizione minima per garantire l’esistenza alla semplice possibilità di avere un’opinione. Mentre l’ecologismo è sempre stato depotenziato, a livello politico, dalla creazione di partiti verdi che servivano solo a raccogliere voti per puntellare maggioranze di governo che poi facevano dei temi ambientali (e dello sviluppo di altri modelli produttivi) letteralmente il nulla. Il gioco parlamentare, quello a cui diamo il nome altisonante di democrazia, fino a questo momento non ha preso molto seriamente il problema ecologico. Se nell’ultimo anno, in Italia, si fosse dato al problema delle polveri sottili e dell’inquinamento lo stesso spazio che si è dato ai vaccini forse avremmo oggi una maggiore consapevolezza e preoccupazione per questi temi. Ma torniamo lì, con i vaccini si può ridurre un problema generale a una responsabilità individuale; il tema ecologico implica il processo inverso, e questo metterebbe in discussione direttamente le politiche di sviluppo, gli assetti del potere economico e di quello produttivo, e quindi il problema viene il più possibile eluso. Ma se andiamo a confrontare i freddi calcoli dei danni prodotti dalle mancate vaccinazioni con i danni prodotti agli esseri umani dall’inquinamento non avremmo, credo, molti dubbi su dove intervenire con maggiore severità. Si condanna giustamente la disinformazione generale riguardo ai vaccini, ma allo stesso tempo si limitano il più possibile le informazioni circa i danni alla salute prodotti dall’inquinamento industriale e da quello del traffico. E la considero una mancanza d’informazione criminosa.
Quindi a valle della sua riflessione l’insuccesso di una coscienza ecologica fattiva sta nella conformazione del pensiero Occidentale stesso?
Sì, il pensiero e la cultura occidentale si sono definiti stabilmente, a un certo punto della loro storia, sulla linea della temporalità. Il tempo che aveva in origine il valore negativo della dissoluzione è divenuto per l’Occidente, in particolare con il cristianesimo, la dimensione in cui le cose devono raggiungere il loro destino. E il raggiungimento del destino è un raggiungimento che può avvenire soltanto in funzione di una trasformazione. Tutto diviene vuol dire, per l’Occidente, che tutto deve necessariamente essere trasformato; che ciò che è non ha valore se non in funzione di ciò che può essere. Non c’è stabilità possibile, per l’Occidente: il mondo occidentale è un mondo virtuale. Ha valore solo in quanto potenzialità. Ogni cosa, vita, deve essere negata in funzione della sua trasformazione. E come centro vitale di questa trasformazione necessaria l’Occidente ha posto il soggetto, l’io penso. La virtualizzazione di ogni cosa ha fatto sì che la materialità del mondo (compresa la materialità della vita biologica) non avesse quindi un valore in sé, ma un valore che è sempre subordinato alla virtualità immateriale che il pensiero o lo spirito le impone, e in cui rientra anche la virtualità economica che lo spirito può estrarre da essa. Il soggetto si è posto così in un luogo astratto, puramente spirituale, e sempre più distante (anzi, sempre più in opposizione) con il piano materiale della natura. Lo spirito è imperituro nel suo divenire, la materialità del mondo è ciò che lo spirito trasforma e ricrea nel suo processo di accrescimento in funzione dei suoi scopi e dei suoi interessi. Possiamo considerare questa soggettività in un senso individuale o in un senso collettivo, ma il risultato non cambia.
Soggettività è autoreferenzialità nel rapporto uomo-natura dove il primo ha assoldato il braccio generoso dalle seconda ai soli fini di foraggiare il paradigma -lavoro-sfruttamento-ricchezza, quale paradigma è possibile in via alternativa?
Credo non sia realistico pensare di eliminare il principio della soggettività dalla cultura occidentale, occorre governarla diversamente. Essere consapevoli che il principio che la muove è un principio che può essere, insieme, di vita e di morte. Alcune filosofie che si occupano oggi di ecologia sembrano poter risolvere la questione affermando la necessità di una nuova unione tra uomo, soggettività e natura, ma saltando in fretta molti passaggi teorici hanno finito per negare alla natura il senso di un’autonomia dal culturale. Anche qui, occorre a mio avviso prendere ormai pienamente le distanze da tutti i discorsi del cosiddetto post-moderno. Non è risolvendo il dualismo uomo-natura sul piano linguistico che avremmo risolto il problema ecologico; e annullare l’alterità della natura è ancora semplicemente in linea con la riduzione culturale imposta dall’Occidente moderno, che ha proceduto, e procede infatti, per assimilazione e negazione. La cultura occidentale si è posta radicalmente in opposizione alla natura, e in modo del tutto esplicito (basta leggere un po’ della nostra cultura rinascimentale per capirlo), e allo stesso tempo ha fatto della vita naturale un prodotto della sua trasformazione culturale. Dunque, risolvere la questione di questo dualismo in poche paginette, negli anni duemila, mi sembra un po’ semplicistico. Preferisco guardare le cose per come sono: il dualismo uomo-natura esiste, è ciò entro cui l’Occidente soprattutto ha edificato la propria cultura; il che vuol poi dire il proprio modo di stare al mondo. Possiamo riequilibrare questa frattura soltanto prendendone coscienza e attuando un cambio di paradigma economico. Alla filosofia deve seguire la politica, non certo un’altra teoria e, men che meno, una psicologia.
Parliamo spesso di sostenibilità indicando in questo l’output finale di un approccio di tutela verso l’ambiente che deriva dalla consapevolezza di alcuni indicatori che inficiano il plafond di risorse utilizzabili e non rinnovabili (impronta ecologica, water foot print, carbon footprint) ma, e ne sono convinta, questo termine anche per la politica appare da un lato vessillo di buon senso e quindi viene inserito di straforo nei programmi d’azione, e dall’altro una patata bollente occupandosi della quale, prima o poi a qualche gigante si pestano i piedi (si vedano le questione Eni nel sud Italia o l’Ilva ad esempio), non voglio portarla su terreni lontani dal pensiero che propone ma le sarei grata per una una sua riflessione.
L’Ilva credo sia l’esempio più evidente di quello che cercavo di dire prima, a proposito della politica. Ma il punto a cui siamo arrivati credo che non consenta più di giocare con certi termini come quelli, per esempio, di ‘sviluppo sostenibile’. Cosa vuol dire infatti ‘sostenibile’? Credo che per persone come i ministri che abbiamo appena avuto, e per quelli che abbiamo avuto in tutti questi anni, sostenibile significhi essenzialmente che tutto deve continuare così com’è, ma in modo (ma il come non ce lo dicono mai), in modo che lo sfruttamento, l’inquinamento ecc., sia ‘sostenibile’. ‘Sostenibile’ è diventata la nuova parola magica dei governi mondiali industrializzati, e come tutte le parole magiche è una parola vuota, non vuol dire assolutamente nulla. Cosa vuol dire infatti che un inquinamento è ‘sostenibile’? Per il nostro governo è sembrato voler dire, per esempio, che l’Ilva di Taranto deve poter continuare a inquinare più o meno liberamente finché non sarà pronto un adeguamento delle strutture, e che i posti di lavoro in quel settore, e l’economia di quell’industria, sono prioritari rispetto all’ambiente e alla salute di chi vive in quelle zone e in quel quartiere. Quando si arriva nel concreto, dunque, la parola sostenibile si mostra subito per quello che vale. Una politica ecologista deve dare una diversa priorità agli interessi in campo, o non sarà una politica ecologista. Occorre accompagnare l’attuale modello di sviluppo verso una transizione a un modello di sviluppo alternativo. Continuare a nascondere la realtà dietro formule vuote, con cui di fatto si continua a sostenere l’attuale assetto produttivo, può funzionare forse per puntellare alcuni rapporti di potere, ma dobbiamo riconoscere che la parola sostenibile acquista a quel punto un senso molto meno ecologico, e probabilmente molto più in continuità con le condizioni esistenti. Dobbiamo liberarci di questa politica e delle sue parole vuote, non abbiamo scelta.
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Nota bibliografica
Stefano Righetti svolge attività di ricerca presso il Dipartimento di Filosofia e Comunicazione di Bologna. È studioso del pensiero di Foucault e della filosofia francese contemporanea, temi sui quali ha pubblicato ampi studi (Soggetto e identità. Il rapporto anima-corpo in Merleau-Ponty e Foucault, Mucchi 2006; Letture su Michel Foucault. Forme della “verità”: follia, linguaggio, potere, cura di sé, Liguori 2011; Foucault interprete di Nietzsche. Dall’assenza d’opera all’estetica dell’esistenza, Mucchi 2012). Da diversi anni ha indirizzato le sue ricerche sul rapporto tra l’ecologia e il pensiero occidentale, tema su cui ha pubblicato diversi saggi e il volume Etica dello spazio. Per una critica ecologica al principio della temporalità occidentale (Mimesis 2015). Suoi testi sono apparsi su riviste specializzate, fra le quali «Iride», «Dianoia» e «Millepiani». È inoltre tra i fondatori del gruppo di ricerca e della collana di «Officine filosofiche».