La strada del Donbas | Serhij Žadan
Voland 2016
di Paolo Risi
Sorprende come il romanzo di Serhij Žadan, stracolmo di personaggi, figure sostanziali o fulminee all’interno della trama, ruoti poi attorno alla vita e in particolare alle aspirazioni di un unico protagonista. Perché l’affollamento non pregiudica, anzi fortifica il nucleo narrativo de “La strada del Donbas”, ovvero il ritorno di Herman, trentenne con un impiego “incomprensibile ai più”, nelle terre che lo hanno visto nascere e diventare moderatamente adulto.
Ancora in quelle lande sconfinate, collocate in una remota provincia dell’Ucraina, dovrebbe risiedere il fratello maggiore Jura, che però da qualche tempo è scomparso nel nulla, lasciando la propria attività (una stazione di servizio) in mano a due non proprio affidabili collaboratori. È proprio uno di questi, Koča, un ex paracadutista afflitto dall’insonnia, ad avvertire telefonicamente Herman di quanto accaduto e a pregarlo di fare ritorno al paese per prendere in mano le redini della situazione. L’autorimessa a quanto pare versa in condizioni finanziarie poco rassicuranti e soprattutto è minacciata dalle mire espansionistiche di un gruppo di trafficoni locali, coltivatori di granoturco di professione e amministratori della cosa pubblica a tempo perso.
Dal suo ambito lavorativo, dalla sua città, Herman decide di fuggire, di estraniarsi e accettare ciò che il destino sta architettando per lui, scegliendo come compagno di viaggio, nell’incertezza abissale, un ancora confuso desiderio di autodeterminazione. Per il momento la sua avventura equivale al riavvolgersi di un filo di cui non si individua una delle due estremità, un generico tornare indietro verso un altrettanto generico vuoto. Ma non è forse questo il tema impalpabile e allo stesso tempo vitale dei romanzi di frontiera, dei migliori road movies, delle scorribande letterarie che via via sia trasformano in un percorso di formazione?
Herman torna quindi alle origini e riappare nel villaggio abbandonato molti anni prima, palcoscenico di scazzottate e pulsioni adolescenziali. Non tarda a manifestarsi il colore locale, la grinta dei nuovi arroganti, l’affetto di compagni e volti che riappaiono come flash anfetaminici. Non è semplice adattarsi ad un territorio realmente marginale, dove tutto appare residuo o recuperato per chissà quale acrobazia contabile: molti vestono divise militari o fanno presagire il possesso di armi, dilaga incontrastato il contrabbando nelle sue forme più evolute, gli apparati che risalgono all’impero sovietico risultano sempre più macchinosi, entità di rappresentanza per chi ancora ha la volontà di mostrare i muscoli e lanciarsi nell’accaparramento indebito.
Intanto le pompe di benzina del fratello maggiore si rivelano un affare in perdita per Herman che però, dopo i primi tentennamenti, si fa sempre più contagiare dall’animus pugnandi delle persone che gli stanno accanto, in particolare Šura, abile meccanico, calciatore dal passato glorioso e inguaribile donnaiolo. Decide di lottare Herman, per difendere la stazione di servizio dai tentativi di esproprio e per continuare ad affermare la propria rinnovata identità, frutto dell’asprezza dei luoghi e delle relazioni che vi si intrecciano. Il fiume scorre a pochi metri, il fango e gli odori dell’officina meccanica rianimano la capacità di saper fare, il desiderio di misurarsi con i propri limiti in un ambiente per certi versi primitivo: “Il vestito che avevo divenne sudicio, puzzava di benzina e di vino, e allora mi comprai magliette militari nere e un paio di pantaloni con un’infinità di tasche nelle quali potevo mettere tutte le viti, chiavi e lampadine che mi capitava di trovare. Forse per il cambio di occupazione o per la presenza di persone serie, divenni più assennato e sicuro di me.”
“La strada del Donbas” è un romanzo in cui i dettagli, le descrizioni di persone e oggetti risultano fondamentali e fanno da contrappunto ad una trama lineare, racconto in cui soste ed accelerazioni si alternano come in un’improvvisazione jazzistica. L’impressione suscitata dalla scoperta di un corpo femminile, dai paesaggi provvisori e contraffatti, i ricordi abrasivi che riemergono da un passato doloroso, tutto nella scrittura di Serhij Žadan tende verso la profondità poetica, alla sottolineatura dell’istante, che potenzialmente racchiude in sé i codici della rivelazione. In superficie la somma dei personaggi stralunati, romantici e accattoni, attiva un vortice scoppiettante di situazioni che accarezzano il grottesco, l’animosità folclorica, mentre sotto traccia dimora l’inquietudine, una malinconia inespressa che a tratti è accomunabile a quella degli eroi ciondolanti di Osvaldo Soriano o di Antonio Dal Masetto, scrittori dall’altra parte del mondo, almeno per quanto riguarda i punti di riferimento geografici.
E a margine delle scorribande di Herman, che da uomo qualunque si trasforma in una specie di avventuriero delle terre desolate, affiorano le contraddizioni di una comunità ancora alla ricerca di un proprio equilibrio, cornice sbilenca entro cui si agitano illegalità, spontaneismo imprenditoriale e tradizioni popolari ancora in grado di agire da collante sociale. Ma il dato che più sorprende è la fantasia straripante, la tangibilità di tutto ciò che accade e viene comunicato pagina dopo pagina nel romanzo pubblicato da Voland, elementi che determinano la briosità, la piacevolezza della lettura e che esprimono l’eclettismo dell’autore ucraino, che è anche poeta, leader di un gruppo musicale di successo, polemista e interprete di numerosi progetti culturali multimediali.
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