La Terra dopo di noi | Telmo Pievani
illustrazioni di Frans Lanting
Contrasto 2019
intervista di Ivana Margarese
Comincerei col chiedere del titolo del libro La Terra dopo di noi. Titolo che sembra voler accompagnare noi lettori verso un orizzonte futuro capace di renderci più consapevoli rispetto al pianeta nel quale abitiamo.
Proprio così. Si tratta di un esperimento mentale (immaginare come sarebbe la Terra senza di noi, a partire da domattina) coltivato da grande poeti come Leopardi, ma oggi preso in prestito anche dalla scienza. Perché funzioni, non bisogna pensare a chissà quale apocalisse. Semplicemente, noi scompariamo e il mondo cambia alleggerito della pesante impronta che noi esercitiamo su di esso. Così si imparano molte cose interessanti: quanto la nostra vita urbana e industriale dipenda dalla manutenzione quotidiana; quanto sono deperibili i materiali che usiamo; quanto tempo ci vorrebbe (poco) prima che la natura ritorni ad occupare gli spazi che le abbiamo sottratto; quanto tempo ci vorrebbe (tanto) prima che i nostri artefatti e i nostri inquinanti svaniscano (decine di millenni per le plastiche, per esempio, con le quali abbiamo impregnato i mari fin negli abissi); e quanto (tantissimo) prima che il clima torni ai suoi ritmi pre-umani e le sostanze radioattive da noi disseminate decadano. Questa è la Terra senza di noi nel futuro, ma poi la freccia del tempo si inverte e scopriamo che in realtà la Terra ha fatto a meno di noi per la stragrande maggioranza del suo tempo evolutivo, considerando che i batteri sono in circolazione da almeno tre miliardi di anni mentre noi presuntuosi Homo sapiens soltanto da 200 millenni. Quindi la Terra senza di noi è la norma nella storia naturale. L’eccezione recente (e invadente) siamo noi. Mi è parsa una narrazione efficace per mostrare quanto avremmo bisogno, noi umani, di acquisire una maggiore umiltà evoluzionistica. Non siamo i padroni dell’astronave Terra.
Come nasce la collaborazione con il fotografo Frans Lanting in questo progetto?
Grazie all’editore Contrasto, in particolare agli amici Roberto Koch e Alessandra Mauro, che mi hanno chiesto di selezionare prima e di commentare poi le fotografie meravigliose di Frans Lanting. E allora ho pensato di scegliere solo foto in cui non vi fosse alcun segno umano, nessun artefatto, non un filo elettrico, niente, almeno all’apparenza. Da qui è nata l’idea di riprendere il luogo letterario della “Terra senza di noi”, ma riempiendolo di contenuti scientifici. Io avevo già incontrato e ammirato il lavoro di Lanting nel progetto “Life: A Journey Through Time”, con le musiche di Philip Glass, uno splendido esempio di contaminazione di linguaggi differenti per raccontare la bellezza e la fragilità del pianeta che ci ospita. Un progetto semplicissimo nella sua composizione di immagini e di note, ma potente. Credo che la commistione di linguaggi e di arti rappresenti il futuro della comunicazione della scienza, soprattutto per raccontare temi complessi come la crisi ambientale e il riscaldamento climatico.
Nel libro viene sottolineato come la scarsa attenzione all’ambiente e alla Terra come sistema non sia affatto una questione recente, un tradimento dell’ultimo momento, ma sia piuttosto un atteggiamento messo in atto dall’uomo da tantissimo tempo.
Il mito dell’età dell’oro, di un’umanità che agli albori viveva in armonia con la natura e poi si è depravata tradendo il patto originario, non mi ha mai convinto. Di sicuro, l’idea è smentita dai dati che abbiamo. Certamente le società umane di caccia e raccolta avevano un rapporto molto più sostenibile ed equilibrato con gli ecosistemi terrestri, non fosse altro che per la bassa densità demografica, e considerando per contrasto l’impatto che poi le attività umane hanno avuto dalla transizione neolitica in poi. Eppure già prima, con l’arrivo dei primi Homo sapiens in Australia 65.000 anni fa e nelle Americhe da 25.000 anni fa, vediamo che i cacciatori paleolitici inconsapevolmente portarono all’estinzione decide di specie di mammiferi di grossa taglia che non avevano mai incontrato prima un predatore così ben organizzato e così affamato. La nostra è una natura ambivalente fin dall’inizio, secondo me. Siamo capaci di comportamenti straordinariamente creativi e al contempo distruttivi, da sempre. Di recente abbiamo scoperto che già 45.000 anni fa eravamo in grado di sopravvivere e di cacciare mammut sulle coste dell’oceano artico, a meno venti gradi sotto zero, in pratica non abbiamo limiti ecologici da molto tempo. Comunque, se anche volessimo usare come spartiacque della nostra insostenibilità ambientale la transizione neolitica al termine dell’ultima glaciazione, 11.700 anni fa, si tratta di un’epoca assai remota. Io credo che l’Antropocene sia cominciato lì, e quindi che coincida con l’Olocene. Si farebbe prima a sostituire il termine anziché aggiungerne un altro.
“L’ecologia è la scienza delle relazioni” mi sembra una affermazione che merita un approfondimento.
Nessuno lo ricorda, ma fu Charles Darwin l’ispiratore dell’ecologia. Il suo allievo tedesco Ernst Haeckel coniò il termine eco-logia alcuni anni dopo la pubblicazione dell’Origine delle specie, riferendosi proprio a ciò che Darwin intendeva con “lotta per la sopravvivenza”, che non significa affatto guerra di tutti contro tutti, né sopravvivenza del più forte, un’espressione gladiatoria che il naturalista inglese non amava per nulla, bensì definisce l’insieme di tutte le relazioni – competitive e collaborative – che uniscono tra loro gli organismi all’interno di una specie, le specie l’una con l’altra in un ecosistema, e poi le specie con gli ambienti fisici in cui vivono. Quindi esattamente una scienza delle relazioni, biotiche e abiotiche. I libri di Darwin sono pieni di poetiche descrizioni dei rapporti che connettono piante e animali anche in modi talvolta sorprendenti, attraverso le catene alimentari ed ecologiche, cosicché la perturbazione dell’habitat di una specie si ripercuote sempre sulla vita di altre specie. La biologia trova una sua unità proprio in questo nodo centrale dell’evoluzione intesa come processo ecologico.
Nel testo è citato più volte Darwin, come potremmo riassumere in poche parole il contributo filosofico della sua opera.
Darwin ci ha insegnato che tutti gli esseri viventi sono legati fra loro da una relazione non solo ecologica, ma anche di parentela storica, sono cioè gli innumerevoli ramoscelli dell’unico grande albero della vita. Un’intuizione meravigliosa di fratellanza e sorellanza genealogica. Poi ha capito che il motore del cambiamento in natura è la diversità individuale, cioè il fatto strabiliante per cui non esistono due animali, due piante o due microrganismi uguali l’uno all’altro, neppure all’interno della stessa specie, neppure due gemelli omozigoti umani. L’esuberante, ineliminabile e onnipervasiva diversità ereditabile dei singoli individui è un’altra intuizione formidabile. E Darwin non sapeva nulla di geni e cromosomi. Infine, direi che la sua rivoluzione trova il momento più alto nell’affermazione della contingenza della storia naturale, cioè del fatto che l’evoluzione non ha direzioni, non ha finalità intrinseche né necessità scritte fin dall’inizio. Piuttosto, è un’incessante esplorazione di possibilità, ancora in corso.
Da una prospettiva anche etica e politica vorrei soffermarmi sul valore dell’umiltà come contraltare al comportamento predatorio e invasivo che sin dalle origini ha avuto l’uomo sulla Terra.
L’umiltà evoluzionistica si impara inquadrando l’evoluzione umana nel tempo profondo della storia naturale. Immediatamente, ci si accorge di quanto è piccola, marginale, provvisoria, imprevista e non necessaria, la presenza umana. Il pianeta può benissimo fare a meno di noi, non viceversa. I batteri possono benissimo fare a meno di noi, non viceversa. Predare la natura come se le sue risorse fossero infinite (e sappiamo che non lo sono) denota qualcosa di profondo nel comportamento di Homo sapiens: la mancanza di lungimiranza, la sua avidità ansiogena del tutto subito. Attraverso l’educazione, la cultura e l’innovazione, dobbiamo contrastare questo retaggio. Ce la possiamo fare. In fondo, noi siamo anche quelli che hanno scritto la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. Comunque vada, non abbiamo alibi. Non potremo dire che non avevamo capito che ci stavamo infilando in una trappola evolutiva, spolpando in questo modo il pianeta che ci dà da vivere.
La lettura de La Terra dopo di noi mi ha restituito, anche attraverso le immagini fotografiche, un senso diverso del tempo, più legato all’ascolto che all’azione. Lo considero un dono prezioso.
Ne sono felice. L’obiettivo era proprio quello di dare un contributo evoluzionistico, cioè di allargare lo sguardo nello spazio e nel tempo, all’interpretazione di un processo – ovvero la crisi ambientale e climatica in corso – che purtroppo viene affrontato soltanto nell’urgenza del presente, nella concitazione del disastro, o peggio viene affogato in un dibattito politico (quello italiano e non solo) che non è culturalmente all’altezza di queste sfide. Allora forse può essere utile invitare all’ascolto della natura, nella sua maestosa indifferenza alle nostre sorti.