L’amazzone del deserto | Pëtr Nikolaevič Krasnov
Traduzione di Sabina Ferri
Scrittura & Scritture / VociRiscoperte 2018
Nuova avventura editoriale per la casa editrice Scrittura & Scritture: nasce VociRiscoperte, che prevede la pubblicazione di grandi romanzi del passato, oramai introvabili in Italia, ma meritevoli, per storie e scrittura, di essere restituiti alla lettura contemporanea.
Su ZEST in anteprima la pubblicazione di un estratto dal romanzo di Pëtr Nikolaevič Krasnov (1869-1947)
Ivan Paulovic Tokarieff, comandante del posto di Koldjat, aveva terminato allora gli esercizi del pomeriggio coi suoi cosacchi. Percorso le scuderie e le caserme, guardò se la corte era spazzata bene, fece un rimprovero al soldato di servizio che aveva lasciato in giro del concio e della paglia, poiché esigeva nel suo piccolo posto una pulizia meticolosa come su una nave da guerra, e salì sul balcone della sua casa che guardava levante.
La sua ordinanza, un cosacco di Siberia, aveva posato sulla tavola un ramino d’acqua calda, una piccola teiera, una tazza enorme su cui era scritto in oro: ‘Bevine un’altra’, e una bottiglia di rum; e Ivan Paulovic poté dedicarsi alla sua occupazione preferita della sera, che consisteva nel bere del tè, di continuo, mangiando pasticcini siberiani, preparati dalla sua ordinanza Zapievaloff. Amava le ultime ore del giorno in quel paese selvaggio e disabitato dell’Asia Centrale, il silenzio delle montagne dove il minimo rumore si sente da lontano e pare tanto nitido, e contemplava a lungo il solco sconfinato del fiume Tekessa, fiancheggiato da canne e da cespugli e che, visto da quell’altezza, sembrava un largo nastro verde che si perdesse fra altre montagne meno alte dorate dai raggi del sole al tramonto. Amava quelle vette selvagge, quelle rocce bizzarre, alcune delle quali sembravano giganti, altre vecchi castelli in rovina con torri e mura merlate; quei versanti scoscesi della catena dell’Altaus da cui scaturiva il gelido fiume, la Koldjate, in una pioggia di polvere e schiuma; il mormorio monotono, durante le giornate calde, dei ghiacciai che si sciolgono e con migliaia di gocce e di rivoletti d’acqua vanno a ingrossare il fiume impetuoso. Ivan Paulovic amava anche i suoi cosacchi taciturni e burberi, ma fidi, e sui quali si poteva fare assegnamento, e i loro piccoli cavalli dal lungo pelo. Ma quello che amava sopra a tutto era la sua solitudine, la sua libertà e la sua indipendenza. Qui, a un’altezza di più di tremila metri sul livello del mare, ai piedi di una delle più alte montagne del mondo, il Khan-Ten-Gri, chiamato dai chirghisi il trono di Dio, Ivan Paulovic si sentiva migliore, al di sopra dei comuni mortali, e gli pareva di non far più parte del mondo terrestre.
Il servizio non era duro, ma lo annoiava mortalmente. Sorvegliava il confine cinese al quale si accedeva da un piccolo sentiero tortuoso e sassoso, quasi impraticabile. Dall’altro lato del confine s’innalzava una grande torre quadrata, dai muri merlati costruiti di argilla, e tutta bianca: era il posto cinese che avrebbe dovuto comprendere una guarnigione di venti soldati, ma non vi era neppure un funzionario, e ci viveva soltanto un vecchio guardiano zoppo.
Ivan Paulovic si avvicinava alla trentina, era alto di statura e ben fatto della persona, come un vero montanaro; aveva i capelli corti e biondi, il volto abbronzato, il naso dritto e fine e i baffettini biondi non nascondevano il grazioso disegno delle labbra sinuose. Non portava barba, e il mento energico si staccava nettamente dal collo giovane e bruno.
Per certe sue ragioni, non amava le donne e le evitava. Quando in primavera i chirghisi si recavano ai pascoli d’estate sugli altipiani dei monti Terski-Altaus, non ammirava le graziose ragazze vestite di abiti azzurri, gialli o rossi, e ornate di collane vistose; non rivolgeva loro dei complimenti nella lingua dei chirghisi e non le seguiva fino al loro accampamento per ascoltare i loro canti o sentire più da vicino il fascino della donna primitiva. E mai scendeva al villaggio di Dungan dove delle belle e brune indigene, vestite di abiti bianchi, portavano sulla spalla le brocche di terra che, con gesto classico, tenevano col braccio arrotondato.
Si occupava di caccia, cercava oro e gemme nelle montagne inesplorate, e passava il tempo ad ammirare la natura, geloso della sua solitudine.
La sua piccola abitazione di comandante di posto consisteva in una di quelle costruzioni in mattoni fabbricate dal Genio e che offrono tutte le pretese e tutti gli inconvenienti degli edifici governativi.
La casa era circondata da un balcone a ringhiera. Se fosse stato possibile adornare quel balcone con viti rampicanti, edera o luppolo, sarebbe stato graziosissimo; ma poiché nulla cresceva in quel terreno sassoso, era rimasto nudo, esposto a tutti i venti, e d’inverno si ricopriva di neve. Nel centro si apriva una porta che dava nel corridoio, il quale divideva la casa in due quartieri, composti di due stanze, perché il posto era stato costruito per due ufficiali. Ora, la seconda metà era stata arredata sommariamente a spese del reggimento in caso di arrivo di ufficiali superiori.
Ivan Paulovic aveva scelto per sé l’ala sinistra. Il suo gabinetto da lavoro era provvisto di tutte le comodità: tappeti d’Askas sul pavimento; stoffe e tessuti chirghisi alle pareti. Vi aveva altresì disposto con gusto un fucile da guerra russo e una carabina a tre colpi Zaur, di cui la terza canna era a palla; un bel fucile calibro venti, senza cani; cartucciere, coltelli da caccia, pugnali, e ogni genere di accessori di equipaggiamento. Contro il muro vi era una specie di divano fatto di cinghie basse sulle quali era stato messo un gran sacco pieno di lana: il tutto, ricoperto di uno spesso tappeto e di cuscini. Poi si vedeva una grande scrivania molto più ingombra di arnesi da caccia che di carte. Vi erano le bilance, delle misure per la polvere e il piombo, macchine per fare cartucce, e scatole da capsule. Di faccia al divano, una grande libreria contenente libri di mineralogia, di zoologia e di esplorazioni. Sarebbe stato difficile trovarvi opere letterarie o romanzi.
La seconda stanza, un poco più piccola, serviva di camera da letto. Invece di tappeti, vi erano sparse pelli di montone, di capriolo e di orso. Ai piedi del letto da campo, un’enorme pelle di tigre: trofeo di caccia che Ivan Paulovic aveva conquistato passando quindici giorni sulle rive del lago Balkash, nei canneti che crescono lungo il fiume Ili. Un lavamano comune, degli abiti appesi a muro in bell’ordine, e la sella, posata sulla cassapanca che racchiudeva la biancheria, completavano l’arredamento di quella stanza. Sul balcone, data la stagione, erano disposte la tavola, su cui era solito consumare i pasti, due sedie viennesi e una poltrona a sdraio, di paglia, lasciata lì da due dunganesi venuti a caccia qualche mese prima. Sul lato della casa, la stanza grande era stata trasformata in camera da letto per i viaggiatori di passaggio. L’arredamento di questa consisteva in un buon letto di ferro col saccone a molla, una tavola da toelette i cui accessori erano protetti dalla polvere da vecchi giornali, e, in un angolo, un armadio per i vestiti, tinto di nero. Sull’impiantito, per riparare la stanza dal freddo, erano state inchiodate a guisa di tappeto delle stoie di paglia di riso, ricoperte a loro volta di altre stoie di tessuto dunganese. La seconda stanza era vuota e serviva a Ivan Paulovic di deposito per le cartucce, le provvigioni e le conserve.
La più rigorosa pulizia regnava dappertutto. I vetri scintillavano, i mobili rilucevano, e sul letto le coperte ripiegate e i guanciali erano protetti da una fodera di tela.
La cucina, la camera dell’ordinanza, la rimessa, le scuderie e il bagno, come pure gli altri locali necessari al servizio, non erano opera del Genio; cosicché, intorno alla casa principale, fuori della cancellata di cinta, sulla breve spianata che sovrastava a picco il fiume Koldjate, e, più lontano, la valle della Tekessa, sorgevano qua e là altre costruzioni rozze, fatte di terra e paglia, irregolari e a sghembo, alcune più alte, altre più basse dell’edificio principale.
Uno dei lati del balcone dominava l’abisso, aprendosi su quella veduta incomparabile dell’Asia Centrale, misteriosa e così poco esplorata, che mattina e sera Ivan Paulovic si compiaceva di ammirare. La grande tazza con l’iscrizione ‘Bevine un’altra’ era stata vuotata a piccoli sorsi. Il rum aggiunto lasciava un gusto piacevole al palato e risvegliava pensieri e sogni sotto l’azione di un’ allegra ebbrezza.
Ivan Paulovic si allungò comodamente sulla poltrona a sdraio e si mise a contemplare la valle della Tekessa.
Si figurava di vedere cose che non esistevano in realtà. Errava in mezzo a cespugli folti e alle canne che fiancheggiavano il fiume, spaventando i fagiani dorati e facendo svolazzare anatre e oche selvatiche.
Il suo pensiero lo portava verso l’Aksas dai prati coperti di fiori, verso la città sotterranea e misteriosa di Turfan, che gli uomini avevano costruita sotto terra per sfuggire al calore torrido. Credeva di scorgere, di là dai monti coperti di neve dell’Altaus, montagne ancora più alte, e, coi suoi ghiacciai scintillanti, la catena dell’Himalaia e l’India.
Nella valle, i dungani spingevano i loro greggi di pecore e di capre, e le loro grida mescolate ai latrati dei cani si sentivano dall’alto, distintamente; poi questi rumori diminuirono, cessarono, e il silenzio maestoso della sera, accompagnato dal freddo dei ghiacci, invase a poco a poco il posto di Koldjat. A un tratto l’orecchio finissimo del cacciatore Ivan Paulovic udì, dall’altro lato del balcone, sulla strada di Djarkent, lo stridere delle ruote di un veicolo militare e uno scalpitio di cavalli. Si sentivano i sassi sonare sotto i ferri degli zoccoli, scricchiolare sotto le ruote e ruzzolare per il pendio dell’angusta strada. Nessuno in quel momento doveva venire al posto di Koldjat; il generale di brigata vi era passato la settimana precedente ed era andato a Djarkent dove erano le ispezioni e le corse; il comandante del reggimento metteva il campo a Tiskan; non doveva esserci cambio fra i cosacchi; le provvisioni consuete per gli uomini erano state portate il giorno prima dai fornitori taranci; la posta veniva portata non con la vettura, ma su un cavallo da soma e soltanto una volta ogni quindici gironi: dunque non vi era ragione che venisse prima della fine della settimana ventura. Non era neppure il momento dell’arrivo dei cacciatori… e poi, la strada maestra andava direttamente a Khan-Ten-Gri senza passare dal posto di Koldjat di cui nessuno si curava.
Ma il suo orecchio non lo aveva ingannato, poiché le ruote di un veicolo continuavano a stridere e si udivano i passi dei cavalli che salivano lentamente la costa. Ivan Paulovic, preso il suo binocolo, andò sull’altro lato del balcone che guardava verso ponente. Il disco rosso del sole spariva dietro i monti Altaus. Qui, le rocce, róse dal tempo e dalle onde all’epoca del diluvio, quando tutto quel paese era sott’acqua, erano fatte di marna friabile e si ergevano, ora in vette di un colore rosso scuro o grigio, ora in picchi enormi. Sotto i raggi del sole le loro cime dentate sembravano cesellate nel rame rosso, mentre il resto delle montagne, annegato in una nebbia viola, era trasparente ametista. Delle montagne visibili, la più vicina era la catena dell’Altaus, coperta di enormi blocchi di pietra caduti Dio sa quando dalla cima, o portati dai ghiacciai, e che, veduti da quell’altezza, sembravano piccole pietre nere. Una strada saliva dal fiume Ili, serpeggiava fra quelle rocce, e nell’aria limpida di quella serata si poteva discernerla dalla polvere dorata che, come un serpente, correva lungo tutto il suo percorso fin dove poteva giungere lo sguardo. Tre persone a cavallo, seguite da un carro molto carico trascinato da due cavalli, si avvicinavano al posto, sparendo dietro le rocce o in profonde gole, ora apparendo su alture o su piccoli altipiani. A occhio nudo si poteva distinguere che due di costoro erano cosacchi: il terzo era vestito di una lunga casacca o tcherkessa grigia, e aveva il capo coperto da una papakha dello stesso colore. Ivan Paulovic avvicinò il binocolo agli occhi, ma poco mancò non lo lasciasse cadere per la sorpresa e anche per lo scontento, perché certamente era una donna che si avanzava verso il posto, e un’europea, per giunta.
Ciò significava che si sarebbe trattenuta per qualche tempo. Dio volesse almeno che non fosse obbligato a far delle spese e a offrire una lunga ospitalità proprio a chi aveva meno voglia di vedere nel suo alloggio solitario!
Portò di nuovo il binocolo agli occhi: sì era proprio una donna strana, che sembrava un ragazzo, un giovanotto in una lunga tcherkessa grigia, con la carabina a scatto, la cartucciera, un gran coltello alla cintura, e calzata di alti stivali gialli. Non si mosse dal suo posto, si guardò bene dal chiamare Zapievaloff per ordinargli di preparare del tè e una cena, tanto il suo malcontento e il suo dispetto erano forti, e rimase sul balcone fino a che i viaggiatori non furono vicinissimi e la giovine donna, con un movimento agile e svelto, non fu saltata a terra.