LASCIATEVI INFESTARE
di Danilo Zagaria Prefazione a Hortus mirabilis*, Moscabianca edizioni 2021
si pubblica su concessione della casa editrice
Per definizione una pianta è considerata infestante quando non ha valore commerciale ed è in grado di danneggiare orti, campi coltivati, risaie. Sono infestanti le erbacce, le cosiddette malerbe, cioè tutte quelle specie che siamo soliti estirpare da vasi, aiuole e giardini con sonore imprecazioni. Sono piante che danno fastidio, che confondono, che occupano, che soffocano e che crescono senza una logica, diffondendosi dove possono, tra le mattonelle spaccate e negli scampoli di terriccio fra una coltura e l’altra. Epurando la definizione dal suo significato commerciale, valido in agricoltura ma decisamente meno utile per il nostro immaginario, resta la natura nociva e parassitica delle piante infestanti, la loro capacità di perturbare. In altre parole, la loro anima weird.
Il termine “infestante” deriva dal latino infestus, “infesto”. È un aggettivo desueto, il cui utilizzo è scemato nel corso del tempo perché gli preferiamo “ostile” o “nemico”. Un’entità infesta è dannosa, ci minaccia con la sua stessa presenza e, ancor di più, ci terrorizza con la sua volontà di diffondersi, di propagarsi, spesso in modo indefesso e rapido. I virus pandemici sono infesti, così come lo sono gli xenomorfi della saga di Alien.
Nella mia mente anche tutte le piante sono infeste, e lo sono per due motivi. Primo, perché sono straordinarie specie colonizzatrici, capaci di spostarsi in modo incredibilmente efficace per raggiungere luoghi lontani, siano questi una minuscola isola in mezzo all’oceano o il giardino incolto che sta dall’altra parte di una strada cittadina. Secondo, perché forse ancor più degli animali e di altre forme di vita detengono un potere prodigioso: sono in grado di insediarsi nel nostro immaginario e scombinarlo, proprio come una radice spacca l’asfalto di un marciapiede e fa inciampare un pedone dopo l’altro.
Fin dagli albori della nostra storia non abbiamo fatto altro che combattere una lunga e silenziosa battaglia contro il mondo vegetale. Le piante sono state vittime del nostro fuoco, delle nostre lame, delle macchine industriali e delle sostanze chimiche, in tempi recenti della nostra tecnologia genetica.
Da quando siamo scesi dagli alberi per iniziare a camminare, la foresta ha cambiato progressivamente significato, trasformandosi in luogo selvaggio e mitico (di cui l’Eden cristiano, l’Arcadia dei greci e il Bosco delle fiabe sono soltanto alcuni esempi). La città, al contrario, si è fatta tana degli uomini, spazio dove le piante sono tenute a bada da eserciti di giardinieri, impegnati a confinarle in punti specifici e a ricacciarle indietro quando conquistano troppo spazio, diventando un fastidio per le attività umane. Le tagliamo, le coltiviamo, le selezioniamo, le scegliamo, le strappiamo, le potiamo e le spostiamo.
Si tratta comunque di una battaglia continua in cui siamo destinati alla sconfitta: nonostante gli sforzi dei nuovi architetti green, che si impegnano a portare il verde e il selvatico presenti all’esterno dentro alle nostre case, il futuro è vegetale. Basta osservare un qualunque video o fotografia urbex che mostri una villa o una fabbrica abbandonate. Basta guardare le decadenti città del futuro, disegnate da illustratori e fumettisti e raccontate da letteratura e cinema sci-fi: si sono quasi sempre arrese all’assalto di piante, liane e felci.
Ma la guerra alle piante non è soltanto una metafora. Durante il conflitto in Vietnam le forze armate statunitensi impiegarono una vasta gamma di agenti defolianti, il più noto dei quali è l’agente arancio. Non troppo diverso da un comune erbicida, questo composto venne utilizzato per liberare vaste aree del territorio vietnamita, avvelenando immense distese di giungla intricata, il più prezioso degli alleati per i guerriglieri. I vietcong, come hanno fatto tutte le forze irregolari e “native” nel corso della storia reale e fittizia – dai guerrieri giaguaro precolombiani agli alieni di Avatar, dalle squadre rivoluzionarie di Che Guevara ai partigiani della Resistenza –, si fondono con la vegetazione, diventando parte integrante del territorio che vogliono difendere. Aiutati anche dai cosiddetti Rome Plow, enormi bulldozer corazzati, gli americani distrussero ampie porzioni di foresta pluviale vietnamita, aggiungendo ai crimini di guerra una lunga lista di malefatte ambientali, che spesso costituiscono lo scempio non visto dei conflitti contemporanei.
Quando non siamo impegnati a combattere le piante con falci, erbicidi e mezzi pesanti, siamo soliti sviluppare tecniche e strategie per selezionarle con cura e per disciplinarne la crescita. Limitiamo la loro natura weird, la loro capacità di stupirci e scombinare i piani.
Una pianta utile o bella, infatti, è in genere una pianta che, per così dire, sta alle nostre regole, crescendo dove noi lo consentiamo e nei modi che noi abbiamo deciso. In principio lo abbiamo fatto per scegliere le varietà più adatte a essere domesticate e coltivate, poi ci abbiamo preso gusto e le piante sono diventate un passatempo, addirittura un’arte.
Ecco emergere quindi giardini curatissimi, con aiuole obbedienti e ordinate, vasi fioriti e alberi costantemente potati. In Giappone hanno miniaturizzato piante ad alto fusto, costringendone i rami in posizioni specifiche col fil di ferro e le radici a crescere in minuscoli contenitori. L’arte dei bonsai, in effetti, rappresenta l’acme del nostro desiderio di contenimento del mondo vegetale: un pino che cresce su una scrivania, non più grande di una lampada, ci ricorda ogni giorno che siamo padroni non soltanto della sua esistenza ma anche delle sinuosità che il suo tronco può assumere. La pianta, per così dire, si piega al nostro volere.
Ma l’anima infestante di ogni pianta è ben lontano dall’essere sopita. È in ogni germoglio, in ogni minuscola radichetta, in ogni seme che prende il volo in una giornata ventosa. Come dicevamo poc’anzi, il potere sovversivo di ogni pianta resiste, ed è più forte del nostro ingegno bellico, scientifico e agronomico.
I tredici racconti che compongono questa raccolta letteraria – animata da illustrazioni capaci di esaltare la natura aggrovigliante e ribelle delle specie immaginarie protagoniste di ogni storia –, ne sono una prova.
Quando la creatività di un autore dà voce al cuore weird di una pianta, il risultato è spiazzante e splendidamente ibrido. Le piante delle opere brevi che seguono sono aliene, parassite, magiche, inquietanti, senzienti e simbionti. Tutte sconvolgono la vita dei protagonisti, colonizzandola con la loro presenza perturbante, che spesso contiene la speranza, o la minaccia, di un futuro diverso dal solito, caratterizzato da una profonda stranezza.
In queste vicende le piante sono al centro, come una pianta magica è al centro di una delle prime storie mai raccontate, l’Epopea di Gilgamesh.
Queste storie sono ancora più bizzarre di quelle popolate da animali fantastici. È una peculiarità che già si coglie nel bestiario più raffinato e fantasioso che si possa leggere, il Manuale di zoologia fantastica di Jorge Luis Borges e Margarita Guerrero. In quel campionario di esseri improbabili, i più bislacchi sono proprio quelli che mescolano mondo animale e vegetale: la nota mandragora (che anche Harry Potter è chiamato a maneggiare con attenzione in libri e film) e lo strambo borametz, l’unione fra un agnello e una pianta che secondo le leggende cresceva nelle steppe asiatiche abitate dai tartari.
Dotare una pianta di facoltà che siamo soliti associare al mondo animale – in primo luogo la volontà – è un’operazione classica, che esalta ogni vegetale e ne fa un essere straordinariamente inquietante o comunque ben più alieno di qualunque ibrido animale, anche nel caso in cui siano gli esseri umani ad assumere sembianze vegetali. I volti rugosi degli Ent di Tolkien, l’appeal da insetto stecco dell’asticello di Newt Scamander, gli uomini vegetali di Arcimboldo e la Poison Ivy rivale di Batman sono soltanto alcuni fra gli esempi che il mondo delle lettere, del cinema e dei fumetti ha regalato al nostro immaginario.
È curioso che in ambito scientifico i sistemi di classificazione, e quindi di separazione, delle specie siano nati proprio in campo botanico. Un po’ fu dovuto al fatto che le piante erano più accessibili e facili da studiare rispetto agli animali, un po’ perché senza cacciagione si può vivere ma senza i frutti della terra una civiltà fa davvero fatica ad andare avanti.
Fu un giovane naturalista svedese di nome Linneo a definire, agli inizi del Settecento, un metodo per classificare le specie vegetali e per inserirle poi in raggruppamenti tassonomici concentrici, simili a delle matrioske russe. Analizzando e contando il numero di stami e pistilli presenti in alcune specie, il padre della tassonomia fondò un sistema che, a grandi linee, è utilizzato ancora oggi e ci consente di mettere ordine in quel gran putiferio che è il mondo della vita.
Il concetto di specie è utile, semplice e dà un senso a ciò che ci circonda, sebbene non sia poi così definito o facile da applicare come potrebbe sembrare a chi non ha mai provato a classificare insetti grandi quanto un’unghia o fili di piante erbacee che a un occhio non esperto paiono tutti uguali fra loro. Tuttavia oggi, soprattutto in campo filosofico, si parla sempre più spesso della crisi della specie, ennesima barriera che dovrebbe essere demolita per poter descrivere, e poi esperire, un mondo meno settario, in cui sia la relazione fra le varie forma di vita a dominare e non la soggettività di ciascun individuo.
Se poi guardiamo alla scienza e alle ultime scoperte in diversi campi, ci accorgiamo che il pianeta sul quale viviamo altro non è che una gigantesca ragnatela di reti in cui le forme di vita e i materiali abiotici sono interconnessi in modi così profondi che sfidano la nostra capacità di comprensione. Stiamo analizzando sempre più nel dettaglio, ad esempio, l’incredibile rete che gli alberi di una foresta creano fra loro nel sottosuolo con l’aiuto dei funghi. Il Wood Wide Web, così viene chiamata, è una rete talmente complessa da ricordare le società umane e quelle di alcuni insetti sociali come api e formiche. I boschi, sostiene la scienziata Suzanne Simard, sono «una grande società antica e intricata».
In tempi di crisi ecologica come quelli che stiamo vivendo abbiamo bisogno del potere straniante del weird, grazie al quale è possibile compiere una straordinaria manovra: deformare il mondo per mostrare meglio chi siamo, dove viviamo, con chi sopravviviamo e che cosa non sta funzionando. Le opere weird mettono in crisi le specie, abbattono le barriere e ci raccontano di chimere fantastiche, entità che ci conducono alle domande fondamentali sulla nostra identità e sul ruolo che ricopriamo nell’universo.
Insieme ad alcuni studi scientifici e a libri divulgativi possono fare la differenza, dando origine a un nuovo modo di guardare a quel regno vegetale che siamo soliti sfruttare, estirpare, manipolare e calpestare senza pensarci troppo sopra. Dopo un libro di Antoine Volodine come Terminus radioso – in cui il fondatore del post-esotismo elenca un’infinità di piante inesistenti, fra cui la malguardia, la pipigrilla, la berlingotta – potrebbe essere quindi opportuno leggere L’incredibile viaggio delle piante di Stefano Mancuso o Le incredibili avventure delle piante viaggiatrici di Katia Astafieff, volumi che raccontano le eccezionali capacità delle piante di colonizzare nuovi ambienti, infestarli e diventare inseparabili compagne delle nostre esistenze.
Ma potrebbe essere altresì stimolante alternare la perturbante storia di una donna che si fa vegetale, quella raccontata nel romanzo La vegetariana della scrittrice sud-coreana Han Kang, alle proposte contenute in Flower Power, libro in cui la giornalista Alessandra Viola spiega la necessità di estendere alcuni diritti fondamentali anche al mondo vegetale per evitare la catastrofe ecologica.
Dalle piante mitiche di Robert Graves alle sequoie di Tiziano Fratus, dalle metamorfosi descritte da Ovidio al romanzo arboreo Il sussurro del mondo di Richard Powers il passo è breve. E la camminata nei “boschi narrativi” celebrata da Umberto Eco sembra portare proprio qui, a Hortus Mirabilis, i cui racconti paiono stati scritti, con buona pace di Linneo, seguendo l’invito sovversivo della filosofa americana Donna Haraway: «Generare parentele nell’imprevedibilità della parentela». Sono l’ennesima connessione simbiontica di una ramificata “fito-bibliografia” che sta lentamente ma inesorabilmente portando le piante a colonizzarci – o meglio, infestarci –, ancora una volta.
Danilo Zagaria ha studiato biologia, oggi lavora per diverse case editrici come redattore freelance e scrive di scienza, animali e ambiente per alcune testate, fra cui «La Lettura» del «Corriere della Sera». Il suo sito personale, dove raccoglie progetti e articoli, è La Linea Laterale.
*Descrizione del progetto editoriali Hortus Mirabilis
Benvenuti in un giardino straordinario, popolato da piante bizzarre e stupefacenti, talvolta misteriose e letali, ma tutte accomunate da una caratteristica: sono germogliate dalla fantasia di uno scrittore. “Hortus mirabilis” è un’antologia di racconti di botanica inesistente: ogni capitolo una pianta, ogni pianta una storia firmata da una penna italiana. Le illustrazioni a colori che accompagnano ognuno dei tredici racconti danno vita, pagina dopo pagina, a una galleria di meraviglie naturali in cui perdersi per riscoprire la forza immaginifica del regno vegetale. «Quando la creatività di un autore dà voce al cuore weird di una pianta, il risultato è spiazzante e splendidamente ibrido. Le piante delle opere brevi (raccolte in questo volume) sconvolgono la vita dei protagonisti, colonizzandola con la loro presenza perturbante, che spesso contiene la speranza, o la minaccia, di un futuro diverso dal solito, caratterizzato da una profonda stranezza.» (Dalla prefazione di Danilo Zagaria). Contiene i racconti di: Maria Gaia Belli; Andrea Cassini; Diletta Crudeli; Elisa Emiliani; Maurizio Ferrero; Natalia Guerrieri; Beatrice La Tella; Michela Lazzaroni; Francesco Morgante; Lucrezia Pei e Ornella Soncini; Ilaria Petrarca; Anita Renchifiori; Axa Lydia Vallotto.