Le Parole necessarie | Giuseppe Pontiggia
Tecniche della scrittura e utopia della lettura.
A cura di Daniela Marcheschi
Marietti editore, 2018
L’editore Marietti propone tre testi di Giuseppe Pontiggia, elaborati in vista di conferenze da tenere in ambiti differenti. Si tratta ovviamente di testimonianze d’affetto (o forse è meglio dire di amore) dello scrittore e saggista per la letteratura e per l’arte dello scrivere, ma le tre lezioni (ognuna con il proprio passo) sottolineano anche l’utilità, nei contesti professionali ma non solo, del saper padroneggiare la parola e le sue modalità di trasmissione orale.
Pontiggia – che ebbe un’esperienza di lavoro in un istituto bancario – ricorda come l’efficacia espressiva, per certi versi la maestria nel parlare e illustrare la vita, fossero tratti distintivi dei colleghi più capaci e apprezzati. C’è appunto il senso di una concretezza e di una ragione etica negli scritti di Pontiggia, l’idea che la parola sia uno strumento primario in un percorso di crescita personale.
Nel primo testo (Le parole e la “rettorica”, inedito, risalente alla metà degli anni Ottanta) l’autore prova a identificare alcuni dei motivi che hanno portato all’impoverimento del linguaggio, chiamando in causa l’uso pervasivo dei gerghi e denunciando la progressiva presa di distanza dalla cultura retorica, vista, da certe correnti di pensiero idealistiche, come un ostacolo alla creatività e alla libertà di espressione. Ma senza tecnica non c’è sviluppo e soprattutto il linguaggio non si ossigena, si rifrange sterilmente contro se stesso. Diventano quindi indispensabili i maestri nell’arte dello scrivere, puntuali nell’indicare esempi funzionali e mostrare anche i meccanismi della loro costruzione. In tal senso la lezione dei classici, delle gemme letterarie, si realizza attraverso una letture critica degli stessi, che sia vitale, propositiva, pronta a cogliere eventuali imperfezioni, punti di maggiore o minore funzionalità.
Si parla di maestri, e di retorica, anche nel testo Come rendere più espressiva la scrittura, proposto in una conferenza organizzata dall’Art Directors Club Italiano. Per Pontiggia un maestro di scrittura fu Elio Vittorini:
Allora avevo diciannove anni, e gli avevo fatto vedere un manoscritto che poi sarebbe diventato La morte in banca. Lui mi aveva dato un incoraggiamento decisivo, dicendomi pero: “Questo va bene”, “Questo non va bene”. Per me e stata molto importante questa concretezza.
La definizione di regole, di una base efficace e solida che permetta alla creatività di sbocciare, è un presupposto che viene costantemente chiarito e giustificato da Pontiggia. A ciò si innesta il discorso sulla retorica, e lo stupore nel rilevarne le interpretazioni fuorvianti, le visioni che la identificano come un freno alla vivacità del fluire narrativo. La dissertazione Come rendere più espressiva la scrittura risale al 1991, e la sua preziosità rimane inalterata, illuminante. Vi si legge: “La retorica oggi non si studia più a scuola. Perché nel corso del tempo si è trasformata da tecnica per parlare in modo efficace a normativa, andando così contro le esigenze di originalità dell’espressione che il Romanticismo propugnava. A tutto ciò in Italia si è aggiunto l’idealismo di Benedetto Croce e di Giovanni Gentile che consideravano la tecnica come una specie di diaframma tra l’intuizione e l’espressione. Ma la tecnica retorica è importante proprio per trovare idee.”
Non c’è espressione efficace che non faccia riferimento alle norme fondamentali della retorica, sistema di adesione al mondo che Pontiggia paragona – efficacemente – a un gioco in cui non e importante il torto o la ragione, quanto la capacita di individuarli in modo convincente. Di seguito, nel testo vengono offerti dei suggerimenti sull’utilizzo degli avverbi e degli aggettivi (ricordatevi che l’aggettivo deve aggiungere. Se non aggiunge, toglie), si viene messi in guardia sull’uso scriteriato dei cliché e viene evidenziata – non senza una sfumatura di ironia – la tendenza alla verbosità dei letterati, che hanno sì un certo gusto per la parola, ma hanno anche una profonda insicurezza nei suoi confronti. Altro passaggio di grande interesse riguarda le differenze tra linguaggio orale e scritto, le implicazioni di tipo fisiologico e quindi espressivo che rendono la parola “detta” elemento imprescindibile nella cultura e nella trasmissione dei saperi.
Leggere come felicità dell’utopia è il titolo del saggio che conclude la raccolta, elaborato per una conferenza tenuta da Pontiggia nel 1996 al Gabinetto Vieusseux di Firenze. Il tono, se si può dire, è più scanzonato, si accompagna alla famigliarità, alla passione per la letteratura vissuta quotidianamente. Qui l’ironia diventa un registro prevalente nella trattazione, la verve del bibliofilo trova terreno fertile, ad esempio, quando viene ricordato l’interesse spasmodico che editori, autori e librai hanno verso il non-lettore, o come quando viene rimarcata l’incongruenza di definizioni concepite forse con le migliori (e possibili) intenzioni: “il libro come «strumento di cultura». Si può immaginare una trovata più sorprendente, più trascinante, più irresistibile? Una espressione più desolata? Strumento, cultura. È solo la vita che può suscitare nuova vita.”
Il maestro Pontiggia (un maestro capace di comunicare con chiarezza, “simpatia” e con spirito di responsabilità, ricorda Daniela Marcheschi nella prefazione) elenca infine un numero cospicuo di utopie occulte che orientano le scelte dei lettori. Dall’utopia della salvezza all’utopia della razionalità, si tratta di riflessioni che compongono una mappatura dei piaceri e dei crucci di chi non può fare a meno di frequentare i corridoi e gli anfratti delle librerie. Utopie incomplete, da aggiornare e perlustrare, con la convinzione che i piaceri più grandi e duraturi scaturiscono da una specie di inconsapevolezza, di semplice attrazione. Il grande scrittore e saggista prende quindi sotto braccio il lettore, e a lui confessa la propria arrendevolezza, la propria verità: “Perché leggere un libro. Se si fosse sinceri, non sarebbe una domanda. E neanche una risposta. Sarebbe dire perché respirare e vivere.”