L’ecosistema in noi | Francesco Boer, Andrea Pilloni
Piano B 2023
commento di Paolo Risi
Nella prefazione a L’ecosistema in noi, Danilo Selvaggi – direttore generale della Lipu BirdLife Italia – identifica un tema che fa da sfondo all’opera. Esiste una visione scientifica, che riferita all’ambientalismo pone in primissimo piano conoscenza e azioni tecniche; ed esiste una visione esistenziale, tendente a riconoscere nella cultura, nella sua capacità di dissodare la realtà, una pulsione immaginifica in grado di prospettare nuovi orizzonti e stili di vita. Permane di fatto un dissidio, che necessariamente va superato, e che richiama a una maggiore organicità di azione e pensiero.
Biologicamente e culturalmente la natura è in noi, rispecchiamo e amplifichiamo i suoi contrasti ed è impossibile censurare l’incontro, l’assimilazione; eppure l’ambiente, le risorse che le sono proprie, continuano a soggiacere all’utile umano: in senso letterale è una relazione tossica, infeconda, con l’altissima probabilità che la natura si riappropri, anche bruscamente, di ciò che era (ed è) suo. Ne scaturisce una sorta di diffidenza: da una parte la natura, sofferente ma indomita, dall’altra l’umano con le sue brame e i suoi rigurgiti di coscienza. Un umano, quindi, in balia delle sue contraddizioni, che, fin dagli albori, si rifugia nel controllo, nell’artificiosità. Quest’ultimo aspetto, che include l’esigenza di ordine e sicurezza, è un elemento trainante del volume edito da Piano B edizioni.
Il concetto di artificiale, preso singolarmente o in rapporto al “naturale”, si articola e rivela elementi di porosità. Ma è a livello quantitativo che i due ordini, prettamente umano e naturale, si differenziano, giungendo a esprimere disequilibri, l’egemonia della sofistificazione. Nell’introduzione si prende a esempio l’agire di un pioniere, agli albori di una “civiltà”: fino a un certo punto, la sua presenza nella natura non sa di artificiale; il carattere di artificialità (il suo peso specifico) si impone, diventa totalizzante, quando l’insediamento si espande e inizia a coprire ettari… quando il governo del territorio si fa così capillare da escludere sistematicamente tutte le specie che non sono riconducibili all’utilità umana.
La volpe che scorrazza in un centro urbano equivale, sopratutto a livello simbolico, alla mosca che, ronzando, invade il nostro spazio domestico. La civiltà avverte la minaccia esterna e risponde inasprendo la vigilanza, proponendosi di intensificare l’incidenza sulla realtà. L’ecosistema registra tali spinte “autoritarie” e le rielabora rapportandosi alla globalità (crisi ambientale) e ai processi di sviluppo individuali (l’ecologia coinvolge tutto ciò che vive, e le sue dinamiche si riflettono a tutti i livelli, a partire dalla nostra stessa anima).
L’anima umana è un ecosistema. La sua ricchezza è biodiversità, disponibilità ad accogliere. In questa prospettiva l’anima è libera e, almeno nel breve termine, improduttiva, disancorata da un modello consumistico. L’ecologia dell’anima subisce l’accerchiamento dell’economia, del conformismo preventivo. L’Io si degrada a una forma meccanica e controllabile. Nel capitolo COMUNITÀ ESTESA si fa riferimento all’anima sociale. Essa scaturisce, pur nella sua sfuggevolezza, come aspetto sostanziale di una comunità che intende essere solidale e depurata dal paternalismo. L’immagine di un terreno che offre sostegno alle specie arboree, singole e interconnesse, riassume efficacemente la sua essenza, che è identità aperta, disponibile ai cambiamenti.
La massa è un campo di uomini, la comunità è una foresta. Il volume ribadisce uno dei suoi leitmotiv: c’è analogia – verrebbe da dire: fortunatamente – tra gli ecosistemi umani e quelli riferibili alla natura. La complessità, la ricchezza e l’indocilità di una foresta fanno da paradigma a una collettività indipendente e creativa, giaciglio di terrestri indipendenti e creativi. In quanto massa, al contrario, percepiamo una quiete di superficie. Vite programmate, che avvertono nelle singolarità una minaccia. Come un pioppeto “progettato” per soddisfare dei fini utilitaristici cresciamo, diveniamo materiale, carburante di un processo economico. La visuale si restringe, il potenziale insito nell’incontro con altre identità viene soffocato, fino all’edificazione di muri invalicabili. Abbiamo a tal punto perso l’abitudine a interagire con identità sane, che siamo giunti a confondere identità e chiusura, come se fossero la stessa cosa.
Anima mundi, l’anima del mondo che ci richiama a uno sforzo di assimilazione. Riconoscersi come parte di un organismo, accettarne le scabrosità, condividerne l’esuberanza. Comunità estesa, capillare, e viene fatto riferimento nel volume di Boer e Pilloni alle reti strutturali e funzionali di micorriza, in cui vegetali e funghi interagiscono per innescare uno scambio di nutrienti e informazioni (oggi più che mai è necessario trovare la nostra micorriza…)
I concetti espressi si completano o scaturiscono dal quotidiano, prevalentemente, da quella bolla di presunta normalità entro la quale il sapiens è fattore e pretesa di dominio. Gli esempi definiscono i limiti dell’artificiosità, ne mettono a nudo la sua gracilità costitutiva, e testimoniano la difficoltà dell’umano nello stabilire un rapporto equilibrato con la natura. Tra fascinazione e ribrezzo esiste un livello relazionale fruttuoso, che riguarda ogni singolo individuo e la società nel suo divenire.
Il volto oscuro del prato all’inglese: in questo paragrafo si ribadisce l’importanza dell’imprevedibilità, dell’eterogeneità vitale, fattori che non vengono riconosciuti nello sviluppo lineare, architettato a tavolino. All’apparenza più adeguato e gestibile, il prato modellato ha insita in sé la vanità del raziocinio; ciò che è incolto e spontaneo non è contemplato, ma può tornare, con la stessa elegante e coraggiosa sfida con cui il tarassaco mette radici nel prato non appena il giardiniere si distrae. In quest’ottica può affermarsi un’ideazione rituale, fantasmatica, e ben fanno gli autori a ponderare le dimensioni della magia e del gioco, forme di affermazione che permettono una maggiore elasticità nella mediazione fra la vita umana e le forze del mondo. Spinte e controspinte, accettazione, apertura e dialogo con le forme rituali e di dissenso: si prospetta (nelle varie entità ecosistemiche) un disegno armonico, depurato dalle strategie repressive preordinate su larga scala.
Lo smodato controllo ha come conseguenza l’aridità. Una città blindata, normata all’eccesso, e singoli individui imprigionati nella rete ossessivo-compulsiva. La psiche impegnata in una snervante ricerca di isole felici, di pacchetti sicurezza. Sono Disastri ambientali dell’anima, virus che irrigidiscono il sistema, lo rendono vulnerabile e incapace di autoregolarsi. In definitiva – scrivono gli autori nella Dis-clusione – siamo ecosistemi: ed è – la loro – sia una constatazione che un’esortazione… è il riconoscimento – e al tempo stesso il ripensamento – della propria natura, che troppo spesso viene trascurata dietro gli opposti eccessi, trionfali o auto-colpevolizzanti, tramite i quali l’essere umano tende ad auto-narrarsi. Ma diventa un vero e proprio imperativo, se non si vuole accettare la meccanizzazione, quel processo banalizzante che ci coopta in un sogno di potere assoluto, e che in ultima analisi distrugge ciò che voleva asservire.
Leggi qui un estratto: